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sabato 29 marzo 2014

LA NUOVA FRONTIERA DEGLI AIUTI UMANITARI

AH, TU FAIS L’HUMANITAIRE!
RIFUGIATI SIRIANI

" Ah! Tu fais l'humanitaire!" La frase, pronunciata da un galante spagnolo francofono che mi aveva abbordato al ristorante accendendomi  il sigaro qualche anno fa, a Malaga, mi era suonata quasi offensiva. Che la cooperazione allo sviluppo in cui ero professionalmente e umanamente impegnata da molti anni potesse essere percepita e interpretata come “aiuto umanitario”, un tendere la mano compassionevole agli “sfortunati” del pianeta, mi appariva come un falso ideologico, una stortura. Il fine di una cooperazione sana con i paesi dell’Africa , del Sud-Est asiatico o dell’America del Sud  è la fine del bisogno dell’aiuto, e gli strumenti sono la formazione, l’incremento delle risorse autoctone, lo sviluppo delle potenzialità culturali ed economiche, e infine l’autonomia. Questo ho imparato e perseguito dalla fine degli anni ’70 in poi, e a questa impostazione del mio lavoro mi sono attenuta. Facevano eccezione i disastri naturali, durante i quali l’aiuto d’emergenza era d’obbligo, e le crisi belliche, che erano all’epoca abbastanza circoscritte e spesso conseguenza  di convulsioni post-coloniali (Congo, Biafra, Algeria tra le altre). Ma appunto si trattava di eccezioni.
 Il panorama ha cominciato a cambiare dall’inizio degli anni ’90 con la crisi Jugoslava, con il crollo del regime di Enver Hoxa in Albania e con la prima guerra del Golfo, che ha iniziato la demolizione sistematica dell’Irak, poi proseguita a partire dal 2003. I conflitti locali si sono moltiplicati e sono diventati quasi endemici:  l’eterna guerra in Palestina che sembrava in via di soluzione dopo Oslo si è riaperta più virulenta e sanguinosa che mai, eternizzando i compiti dell’Agenzia post-guerra mondiale UNRWA,  i Balcani dovevano risanare le proprie ferite recenti, la guerra in Sri Lanka si era riaccesa tra cingalesi e le Tigri Tamil, è cominciata la saga Afgana e quella Pakistana delle “aree tribali” del Waziristan, la Cecenia  si è infiammata e Grozny é stata rasa al suolo o quasi, e infine la Birmania della dittatura, la crisi nel sud delle Filippine a Mindanao (che pare risolta a partire da pochi giorni fa), la guerra in Somalia, il conflitto  Touareg  riesploso nel 1990, il genocidio Tutsi in Rwanda, la guerra in Burundi, la guerra in Costa d’Avorio, nella Repubblica Democratica del Congo, nel Congo-Brazzaville, e mi fermo perché  la lista dà le vertigini.
 Per una guerra che finiva, come in  Mozambico prima e in Angola poi, cinque ne cominciavano. Questa tendenza ha provocato un brusco aumento dell’esborso finanziario dei donatori internazionali verso “l’emergenza”  a discapito dello “sviluppo”, e il nascere e crescere di ONG specializzate nella cosiddetta emergenza e nella captazione delle crescenti risorse finanziarie ad essa consacrate. E si è sviluppato un fiorente mercato di corsi, work-shops  e masters di conflict-resolution  presso Istituti che assumevano neo-esperti  che a malapena avevano messo i piedi nei paesi di cui discettavano.  Si è parallelamente sviluppata una neo-lingua per lo più anglosassone: diritto a proteggere (Right2Protect), acronimi come SGBV, sexual and gender-based violence, eccetera. Grande successo dei “diritti umani” quanto più essi erano calpestati.

Il numero dei rifugiati e dei cosiddetti “I.D.P.’s”, persone sfollate nel proprio paese che non possono neppure beneficiare dell’aiuto dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, UNHCR, è aumentato spaventosamente, e parallelamente si è dilatata tutta un’industria  umanitaria, una macchina apparentemente indispensabile che è frutto di un gigantesco fallimento politico: quello delle Nazioni Unite e degli strumenti del Diritto Internazionale ad assicurare una soluzione non guerreggiata dei conflitti mondiali, inter-statali  e civili e quello nostro, dei popoli che non riescono a ribellarsi a guerre imposte per interessi di élites del potere.  Trionfo della stoltezza umana, e vittoria del commercio internazionale delle armi e di tutti i traffici loschi che prosperano all’ombra delle guerre e le fomentano.
Sono riflessioni che faccio da tempo, e che sono state riaccese dalla lettura di un articolo del Guardian del 28 febbraio 2014 a firma David  Miliband , direttore dell’ International Rescue Committee :" It’s time to reassess the goals of humanitarian aid", è tempo di riesaminare gli obiettivi dell’aiuto umanitario (https://www.google.it/#q=It%27s+time+to+reassess+the+goals+of+humanitarian+aid+).  

Si inizia evocando  la spaventosa realtà della proliferazione di vittime civili dei conflitti, di rifugiati e sfollati, della lacerazione e distruzione di compagini sociali e statuali . In 2005, just 20% of the global poor were in conflict-affected and fragile states. Today that figure is 50% and set to rise to more than 80% in 2025.”
Raggela e stupisce quella fredda proiezione statistica di aumento dei “poveri globali”, altro bel neologismo, che vivranno in stati fragili e sconvolti da conflitti nel 2025: si prevede già, non ci è dato di sapere sulla base di quali elementi, che se nel 2014 sono il 50%, saranno ben l’80% tra 11 anni. Destino ineluttabile? Pare di si, secondo Miliband. E quello che fa indignare ancora di più è il paragrafo che segue e che traduco letteralmente: “ Per molti anni  si è discusso sulla distinzione convenzionale tra aiuto umanitario, che risponde alle emergenze causate da guerre e disastri naturali e l’approccio allo sviluppo, che a lungo termine cerca di contrastare la povertà. Quando la maggioranza dei poveri globali vivono in stati fragili e quando i rifugiati in media passano 20 anni lontano dai loro paesi, la distinzione si è già dissolta di fatto, eppure è questa l’impostazione che regola ancora le istituzioni che si occupano di tale lavoro.” (For many years, people have questioned the conventional distinction between the humanitarian system that responds to emergencies caused by wars and natural disasters, and the development community that, in the longer term, seeks to tackle poverty. When the majority of the global poor live in fragile states, and when the average refugee spends nearly 20 years outside their home country, the distinction has in reality dissolved – yet it still conditions many of the institutions that govern this work).


Truppe AMISOM (in Somalia)

Le conseguenze da trarre da questa e dalle considerazioni che seguono (quali siano i “ moderni bisogni” dei rifugiati, come sovvenire in modo più adeguato alle loro esigenze, quasi fossero clienti da soddisfare  meglio in avvenire) sono lapalissiane: bisogna sviluppare e rendere più efficiente  la macchina umanitaria, moltiplicarne le risorse, raffinarne gli strumenti. E anche i concetti e le parole per esprimerli. Ecco quindi che, accanto agli Obiettivi del Millennio del 2015, che molti paesi non raggiungeranno e che ancora avevano una “antiquata” aria sviluppistica, spuntano  gli Hugo’s , Humanitarian Goals, gli obiettivi umanitari. Su cui presumibilmente indire conferenze internazionali con esperti ad hoc, lautamente pagati. Più catastrofi politiche, più bisogni, più carta straccia per definirli e più fondi.  E la maggioranza di chi soffre di tali sconvolgimenti sono i civili ormai: “In Iraq, Libya, Somalia, Syria and Zimbabwe, an average of 75% of the entire population have been directly affected” (In Irak, Somalia, Siria e Zimbabwe in media il 75% della popolazione è stata coinvolta direttamente). Tralasciando l‘aspetto dei disastri ambientali e climatici, anche quelli  in crescente misura risalenti a scelte dissennate umane, anzi, disumane.
Peccato che a tale creatività linguistica non si affianchi una altrettanto fervida immaginazione diplomatica, che punti invece ad una diminuzione del tasso di conflittualità e della febbre guerrafondaia questa si, globale. Peccato che il presidente del Sudan Omar El Bashir sia ancora imperturbabile al suo posto quando cinque anni fa  il Tribunale Penale Internazionale aveva decretato il suo status di criminale di guerra, e che il presidente del Kenya abbia potuto tranquillamente dimenticare che avrebbe dovuto recarsi anche lui all’Aia a rendere conto del suo ruolo ( e di quello del suo vice Ruto) negli eccidi inter-etnici post elezione del 2008. Peccato che Mr Blair e Mr Bush siano  a piede libero nonostante i crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Irak.
Non so veramente con quali risorse anche intellettuali si possa combattere questa discesa agli inferi della ragione, quando un giornale che ho letto per anni e che stimo può onestamente e senza contestazioni  (che io sappia) pubblicare un articolo che ufficialmente decreta che una situazione già disastrosa, le cui responsabilità sono discernibili e al 90% politiche, peggiorerà senza fallo e che bisogna semplicemente attrezzarsi fin da ora a far fronte a ulteriori catastrofi , non a evitarle.


lunedì 3 marzo 2014

RAPPORT DE MISSION SUR L'EXCISION EN GUINEE


RAPPORT DE MISSION EN GUINEE (1)

 (Novembre 2013-janvier 2014)



L’éradication de la pratique de l’excision, en Guinée comme ailleurs dans la planète, n’a pas seulement une grande importance pour la sauvegarde de la santé  physique des femmes, mais aussi pour l’affirmation de leurs pleins droits à l’intégrité physique et  psychologique. La prévalence des MGF en Guinée est encore très haute: un Rapport de l’UNICEF de juillet 2013  fait état d’une prévalence de la MGF de 96%, la deuxième  la plus haute du monde après la Somalie.

Il est maintenant prouvé que, entre les conséquences néfastes de l’excision, il y a aussi un risque majeur pour l’accouchement,  dès que l’excision  contribue à une plus élevée mortalité maternelle.
Surtout dans la zone de Boké et en général en Basse Guinée, la prévalence est très haute (100%). La loi de 2000 qui interdit cette pratique en Guinée est une étape fondamentale, mais sans une sensibilisation efficace surtout en milieu rurale, moins touché par les communications de masse, le processus d’élimination sera très long et pénible. Selon le Rapport  UNICEF 2013, un pourcentage assez bas de femmes guinéennes est en faveur de l’élimination de la pratique  (19%).
 Une vidéo éducative  visant à un vaste public populaire et adaptée aux réalités de terrain, en langues locales, peut  fournir un puissant outil d’information, débat et conscientisation.  D’après les renseignements recueillis, les nombreux projets et programmes  réalisés  jusqu’à cette date visant l’élimination des MGF/E  n’ont pas encore produit un tel outil.  C’est donc dans le but d’étudier  les conditions de la faisabilité d’une pareille vidéo dans les plus brefs délais que je me suis rendue en Guinée de 27 novembre 2013 jusqu’au 16 janvier 2014, dans le cadre d’une mission auto-conçue et auto- financée.

C’est évident que la conception d’un outil andragogique implique un support théorique solide. Les  modèles de référence  d’élection sont ceux qui conceptualisent les processus  du changement de comportement dans le domaine sanitaire. Un texte relativement récent en anglais  répertorie  la série des théories qui ont été élaborées  dans les dernières  30 années et propose une synthèse  qui me semble convaincante. Le Rapport UNICEF 2013 aussi se réfère à ces modèles qui tous (ou presque) soulignent l’importance de la norme sociale et les contraintes du contexte socio-économique. Bien que la plupart des interventions  réalisées pour changer des comportements dans le domaine sanitaire  aient  eu lieu dans les pays développés, on peut se prévaloir des expériences  mises en place  depuis les années 1990 en Afrique et en Asie du Sud-est pour la prévention du VIH-SIDA, qui présentent des analogies avec le thème qui nous intéresse ici, la prévention des MGF/E. Dans les deux cas en fait il s’agit des choix des individus dans  la sphère de la sexualité, très imprégnée de croyances, préjugés, traditions enracinées, rapports de pouvoir qui conditionnent la conduite des membres de la communauté. Si possible, la problématique liée  aux  MGF est encore plus complexe que pour le VIH/SIDA, car il ne s’agit pas seulement de renverser un modèle de féminité, de sexualité soumise et sans voix, mais de déclarer périmée toute une tradition ancestrale imbriquée  dans les rites d’initiation, fondant le lien social. 



En tout état de cause, plusieurs éléments  des différentes  théories, compatibles et parfois complémentaires, nous semblent pertinents :
·         Le concept de STAGES successifs et pas toujours en progression automatique (il y a des retours en arrière), une transition lente à travers le changement de comportement et de valeurs de référence, à partir de la phase de « pré-contemplation » (du changement) à la « libération sociale » selon le modèle de James O. Prochaska et DiClemente, le « Modèle Trans-théorique »;
·         L’influence des personnes importantes de l’entourage sur le sujet qui commence à considérer  le changement (les « significant others » selon le psychologue M. Fishbein), donc la pression exercée par le milieu sur les individus et les rapports de pouvoir (modèle de  la « Reasoned Action » de M. Fishbein et I. Ajzen )
·         Les concepts de A. Bandura  dans la théorie du « social learning », ré-baptisée  « social cognitive theory », qui emphatisent  soit l’auto-efficacité (de l’individu) soit les relations réciproques entre milieu et individu et l’importance des facteurs externes facilitant le changement  (et les possibles barrières);
·         La  théorie de la diffusion des innovations de  E.M. Rogers, très connue et très utile, à mon avis,  pour comprendre comment un nouveau comportement   socialement  bénéfique  (« social marketing ») peut  être présenté comme attractif et désirable ;
·         Enfin, l’interaction du plan affectif et cognitif et l’importance d’un diagnostic de la dynamique communautaire, essentielle dans un contexte africain.

Les contacts institutionnels à Conakry ont été limités, à cause des  difficultés logistiques, dès que le siège principale où la mission de terrain s’est déroulée était  la Préfecture  de Boké, et précisément les villes de Boké et de Kamsar et on se déplaçait en taxi brousse .
A Boké on a travaillé avec la Direction Préfectorale de l’Education, la D. P. des Affaires Sociales et la D.P. de la Santé.
Le  diagnostic du contexte culturel et sociale a été réalisé à travers plusieurs entretiens basés sur des  guides d’entretien écrits. A suivre, la liste des personnes interviewés (tous et toutes anonymes pour un souci de discrétion, étant donné le domaine intime des contenus de l’entretien) :
·         38 élèves des classes terminales des Lycées respectivement de Filira  (Boké) et Filima (Kamsar) (20 garçons et 18 filles), entre 15 et 28 ans, âge moyen 20 ans.
·         6 élèves de la première classe de Plomberie du centre de Formation professionnelle de Boké (3 garçons et 3 filles), même âge moyen.
·         1 imam de Boké
·         1 chef de quartier de Boké
·         2 femmes  (professionnelles ) en âge mûr  à Boké
·         1 ménagère  (relativement jeune) de Conakry
·         4 exciseuses de Kamsar


On a eu aussi des conversations approfondies  avec deux sage- femmes (respectivement à Boké  et  à Kamsar)  et des conversations plus informelles  avec deux gynécologues (l’un de Conakry, l’autre de Kamsar), et avec deux médecins de M.G. (dont la Directrice de la DPS de Boké), aussi bien que beaucoup de conversations plus ou moins casuelles avec d’autres sujets, qui ont été utiles pour compléter le diagnostic.
On a aussi participé à un Séminaire organisé par la D.P. des Affaires Sociales de Boké sur les violences basées sur le genre le 12 décembre 2013, dans lequel  il a aussi été question des MGF.

Le but et le focus des entretiens étaient diversifiés selon les  caractéristiques des interlocuteurs :  pour les élèves, les représentants  de la jeune génération  la plus instruite dans une zone semi-rurale,  il s’agissait de comprendre quelles étaient leurs connaissances et leurs attitudes face aux MGF. Dans le cas des femmes plus âgées, l’objectif de l’entretien était de déceler le vécu de l’excision sur le plan sexuel et dans le rapport maritale. Le point de vue masculin sur  cela a été recueilli dans le témoignage d’un homme seulement, le chef d’un quartier de Boké. Pour les sages- femmes, les médecins et  les gynécologues, il s’agissait de comprendre à travers leurs  expériences professionnelles l’étendue  et l’évolution de la situation. Enfin, on a eu la chance de pouvoir identifier et interviewer, avec l’aide d’un interprète, un groupe d’exciseuses  encore actives, deux « doyennes » et deux « apprentis » plus jeunes, qui n’ont aucun doute sur le bien-fondé de leur choix. Les deux vieilles sont analphabètes complètes (mais elles ont fréquenté l’école coranique), les deux plus jeunes ont fréquenté l’école française pour un certain nombre d’années (8 et 4 respectivement).

Résultats  et discussion

L’approche de l’enquête était nécessairement  qualitative dès que le nombre des personnes touchées était modeste. On va présenter les résultats  séparément, selon les interlocuteurs.

Les élèves

Dans le cas des étudiants , le groupe le plus nombreux des interviewés, on a remarqué un «gradient » d’adhésion à la pratique de l’excision, du maximum  de 4 favorables contre 2 adverses dans le Centre de Formation Professionnel de Boké (un des garçons  avait aussi des grandes difficultés à s’exprimer en Français), où les élèves  proviennent d’une couche socio-économique plus modeste , au minimum du Lycée Filima de Kamsar (15 adverses, 3 favorables, 2 en doute). Kamsar est une ville plus dynamique et culturellement plus ouverte que Boké, où en total, sur les 18 élèves interviewés on compte 9 favorables et 9 adverses. On n’a pas remarqué des différences  entre les filles et les garçons, donc l’expérience en première personne de l’excision ne semble pas constituer une discriminante.
 Le guide d’entretien dans les écoles était composé de 3 questions identiques pour les deux sexes, sauf une quatrième question dirigée aux filles sur le statut d’excisée/non-excisée et les circonstances de l’excision. L’origine géographique et ethnique des élèves était très variée et donc un vaste éventail culturel était représenté (peulh, soussou, baga, landouma, kissi, nalou, diakanké, etc..).


D’une façon général, on remarque que seulement quelques garçons et filles ont donné une réponse claire quand il s’agissait de décrire en peu de mots l’opération physique de l’excision. « L’excision est un acte dans lequel on utilise la tradition » (fille au Lycée Filira) ; « Je ne sais pas exactement comment se passe l’affaire » (garçon au Lycée Filira) ; « J’ai un peu oublié. Je connais mais j’ai oublié » (garçon du CFP de Boké).  Une fille peulh de 15 an a les idées plus claires « On circoncise la fille, est de couper une partie du sexe de la fille, la partie qu’on coupe s’appelle en poular  solihoungoun ». C’est un garçon du Lycée de Kamsar qui donne la réponse la plus claire:  « L’excision par définition consiste à faire la mutilation de l’organe génital féminin , on coupe une petite partie qui est à l’intérieur».  Il est l’unique qui dit clairement en Français « clitoris », cela m’étonne, parce que la plupart des autres au maximum donnaient le nom en langue nationale. Je lui demande qui lui a expliqué si bien cela et il répond : « le professeur de français ».  La réponse  la plus étrange est celle d’un garçon du Lycée de Boké. » L’excision est un petit mot qui coule lors des rapports sexuels entre un homme et une femme ». En général, j’ai préféré d’écouter seulement, limitant les explications factuelles à quand elles étaient vraiment nécessaires, mais dans certains cas , lors que je remarquais un vif intérêt à en savoir plus, je donnais des explications. Dans un cas, un garçon m’a dit qu’il a changé d’opinion (de favorable à contraire) pendant l’entretien, parce qu’il n’avait pas compris en quoi l’excision consistait (il a été classé comme « en doute »).

Les raisons les plus mentionnées de l’adhésion à la pratique étaient :
·         Les traditions et la nécessité de les suivre : « On a trouvé ça avec nos parents. Nous serons obligés de continuer » (garçon du Lycée Filima) ; « C’est l’habitude des nos anciens , pour ça on va le faire» (fille du CFP de Boké) ; « Chez nous ici c’est bon, parce-que on a vu ça chez nos grands pères » (garçon du CFP de Boké, et il continue en disant : je ne sais pas ce qu’on fait à la fillette. Je lui demande alors pourquoi il dit d’ être favorable à quelque chose qu’il ne connaît pas, il répond : « Parce-que c’est ce qui se fait chez nos grands pères » ; et encore : « Nos grands pères ont commencé, on doit continuer » (fille du CFP de Boké) ; « c’est l’habitude de nos anciens » (fille du CFP de Boké) ; « c’est bon parce-que c’est traditionnel » (garçon du CFP de Boké).
·         La nécessité de diminuer la possibilité d’ « excitation » des filles : « Une fille qui n’a pas été excisée a beaucoup d’ambitions chez les hommes …oui je suis favorable parce-que si non j’aurais beaucoup d’ambitions » (fille du Lycée Filira) ; Quand on n’excise pas une fille elle devient plus excitante » (fille du Lycée Filima) ; On dit ici que si une femme n’est pas excisée elle va faire n’importe quoi, le vagabondage » (garçon du Lycée Filira) ; « C’est très important pour nous les filles, si on n’avait pas ça il y aura…comment dire…tu dois te limiter…si non…Moi je veux que ça continue » (fille du Lycée Filira) ; « c’est une méthode que rend les filles fiables ». Quand je demandais pourquoi alors il y avait un tel nombre des grossesses non désirées  parmi les adolescentes, on n’avait pas de réponses.
·         La religion est mentionnée seulement dans un cas : « la religion nous impose de faire…oui, je vais exciser ma (future) fillette » (garçon du Lycée Filira). Ce même garçon venait de me dire : « j’ai pas aimé cette pratique parce-que …du aux causes que ça fait aux femmes, ça cause des différentes  maladies ». On a remarqué parfois ces propos contradictoires, mais on n’avait pas le temps d’ y travailler, ni le but du constat était de faire bouger les opinions (cela s’est produit, comme on l’a dit, dans un cas).
·         Un garçon du Lycée Filima dit que « ça (l’excision) favorise les rapports sexuels », et il est, « bien sûr », favorable.


D autre côté, les élèves qui étaient adverses à la pratique (26 sur 44), se référaient aux informations reçues  à travers  les moyens de communications de masse (TV, conférences, passe-parole surtout, quelque fois l’école ou les professeurs de biologie –ou de français). Parfois  on se base sur l’expérience personnelle.
·         « L’excision n’est pas bon…ça provoque des maladies, ça peut rendre une femme stérile, si on excise une fille on peut être contaminée..Chez les grandes mères c’est le couteau.. »  « faire la circoncision n’est pas bon..parce-que il y avait une toute petite fille de 8 ans qui a sorti beaucoup de sang, toute la journée…pour arrêter le saignement on a pris une hache, on l’a mise sur le feu et (ensuite) dans l’eau. Après la fillette a bu l’eau. Le saignement s’est arrêté  petit à petit. …la plaie a duré…on a coupé un bois, en poular dougounmè. On a mis dans le feu, la partie brulée du bois, on( l’)a raclée. Et on a mis la poudre sur la plaie, cette poudre a fait guérir, tout ça a duré une semaine. Pour cela je suis contre ». « Ça cause beaucoup de conséquences, les règles douloureuses, les MST, difficultés pendant l’accouchement, hémorragies..je suis contre » (garçon du Lycée Filima).
·         Un garçon du Lycée Filima, qui est « contre », dit que « une tante avait pris ma petite sœur, 7 ans,  et l’a emmenée au village. Ma mère ne voulait pas (la faire exciser), elle a volée la fillette. Elle (la sœur) est tombée malade, on a dit que c’est le palu. Il y a des sorcières au village, ….elles font leur travail la nuit. L’enfant est morte….c’est pour ça que je suis contre».
Dans les (rares) cas où les parents étaient contraires à l’excision, il y avait une parente, une amie intime, une tante qui avec un subterfuge soustrayait l’enfant et la faisait exciser à l’insu des ses parents, ou encore, la mère faisait exciser l’enfant à l’insu du père absent.

On remarque que très souvent les filles ont été excisées, selon reporté, par des « infermières » ou par des » sages-femmes », dans un cas par « un médecin ».   Les lieux de l’excision étaient  «la douche  de la maison de mon grand père », « chez  l’exciseuse», « une enceinte au village », « dans une clôture »,  quelque fois « dans la forêt », « en brousse ».
Presque tous les élèves ont mentionné des cas malheureux de filles tombées malades ou même qui « ont rendu l’âme » : j’ai conté 3 cas mortels  sur 18 interviews à Filira, 2 (sur 6 !!) au CFP de Boké, et 3  au Lycée Filima, 8 cas sur 44 interviews. Presque tous les interviewés ont mentionnés des cas de saignement excessif, d’hospitalisation et des suites pathologiques : une femme ne peut plus bien marcher, l’autre est stérile. Une fillette a pris la « souplis », (syphilis ??),  et une autre le tétanos, heureusement guéri.

L’expérience des femmes  en âge mûr et les témoignages du chef de quartier et de l’imam



L’expérience de l’excision était encore très vive dans les deux femmes :  une avait été excisée deux fois parce-que les résultats de la première excision n’étaient pas satisfaisants : selon sa mère, on avait coupé très peu et « cela » avait repoussé. (Un élève m’a raconté la même histoire d’une double excision d’une petite amie, et dans ce cas la deuxième fois a été fatale, la fillette est morte).
Toutes les deux femmes ont mentionné leurs difficultés dans les rapports sexuels, qui se sont  prolongées pour des longues années « j’étais comme un arbre » ou « rapports très douloureux ». Pour l’une, il y a fallu 4 ans avant de prouver du plaisir, pour l’autre, 15 ans ! La première a réussi à ne pas faire exciser sa fille, à l’aide de son mari qui a menacé  ses sœurs qui voulaient le faire de porter plainte, tandis que les filles de l’autre ont été excisées en cachette par une parente, à son insu.  Elle commente : « cela se passe très souvent ».

Le chef de quartier est à la retraite (il était un fonctionnaire d’Air Guinée) et déclare « les gens s’entêtent toujours dans la coutume, c’est pas normal….ça occasionne beaucoup de maladies, ça diminue la féminité de la femme..je pense que c‘est un dégât ». Et encore, sur le plan sexuel, « un homme se fatigue » . Il faut ajouter qu’il a quatre femmes. Il a 12 enfants, 6 sont des femmes, et elles feront exciser leurs  fillettes : « elles veulent faire l’excision légère, on blesse ».

L’imam, quant à lui, admet que « la Guinée est un pays laïque et le gouvernement a interdit l’excision des femmes.. » ;  « hommes religieux nous sommes, on ne peut pas  combattre les lois du gouvernement.. », mais quand je lui demande si il s’est jamais
prononcé ouvertement contre les MGF dans la mosquée, en disant que l’Islam ne l’impose pas et que il y a même une fatwa qui condamne les MGF, il répond qu’il le ferait si le Grand Imam de Conakry se prononçait explicitement sur cette question.

Les témoignages des exciseuses de Kamsar

                 

Les deux doyennes ont respectivement  66 ans et 55 ans, tandis que les deux apprentis sont sur la trentaine. La plus vieille dit qu’elle n’excise plus, elle fait « l’assistance », et enseigne aux autres. Elle a commencé à 30 ans, « prenant du courage » et a appris sur le tas des amies plus âgées. Elle a fréquenté l’école coranique pour 13 ans, jusqu’à 18 ans quand elle s’est mariée, et se rend à la mosquée chaque jour, matin et soir. Après l’indépendance en 1958 elle a fréquenté jusqu’à la  3° année de l’école française. Elle n’écoute jamais la radio et affirme ignorer que l’excision soit interdite par la loi. Elle pense qu’il soit « bon de faire l’excision parce-que si tu es musulmane, si une femme n’est pas excisée, sa prière ne sera pas exaucée ». Je demande où elle a appris ça, et elle répond  « chez le marabout ».
Une des apprentis est sa jeune sœur qui veut « prendre la relève », elle affirme qu’elle aime d’apprendre parce-que « c’est quelque chose de propre ». Actuellement on n’utilise plus le couteau mais les ciseaux, et on désinfecte avec de l’alcool.  On coupe une petite partie (seulement).
La deuxième doyenne n’a pas des doutes : elle le fait « parce-que la jeune fille a le droit d’avoir des enfants ». Selon elle, l’excision va faciliter l’accouchement. Ensuite, elle se corrige : « Pour certaines (femmes), l’excision va faciliter l’accouchement, pour d’autres, elles n’en ont pas besoin , mais…c’est la coutume » . Quand je cherche d’éclaircir ce qu’elle veut dire, elle ajoute que « c’est pour diminuer la fatigue » (de l’accouchement ). A-t-elle discuté avec des sages-femmes cette théorie ?, je lui demande.  Elle répond que sont les sages-femmes qui apprennent d’elles  comment faire l’accouchement!! Toutes le quatre affirment n’avoir jamais eu des problèmes de santé avec les fillettes excisées, traitées avec leurs médicaments.
Enfin, une question me brule sur les lèvres : si l’imam disait qu’il ne faut pas faire les excisions, qu’il n’est pas bon de les faire, que feraient-elles ? L’interprète traduit :« Comme c’est l’Etat ou l’imam qui le dit, elles pourraient laisser. ….elles feraient des questions…mais jusqu’à maintenant il  (l’imam) ne l’a pas dit ». Si il y a une loi que interdit l’excision, elles « n’ont pas vu les conséquences sur le terrain ».
L’Etat, le gouvernement  et la loi sont des  entités lointaines, mais l’imam est quelqu’un que l’on voit de près.

Les témoignages de sages-femmes et des médecins

                       

Une des sages-femmes confirme la continuation de la demande d’excisions, désormais à l’hôpital, elles (le staff) acceptent à fin de diminuer le dégâts, et cherchent de « faire semblant » : « Pour celles qui s’entêtent, pour que la fille ne soit pas stigmatisée…on pique et on fait couler des gouttes de sang, ou même on ne fait rien du tout ». Ensuite, on bat les mains et on fait la fête comme si… ». Elle a toujours cherché de « sensibiliser ».
« Encore on voit dans les accouchements des déchirures du périnée…les rapports sont douloureux…les hommes préfèrent le Sénégalaises qui ne sont pas excisées..les femmes excisées n’ont pas la jouissance ».
Elle réfère aussi un cas de viol d’une fillette de 5 ans….elle était « domestique » chez une famille, et de grossesses même à 10 ans !

L’autre sage-femme me décrit la situation d’un des accouchements récents qu’elle a traité : la femme a eu besoin d’une épisiotomie très accentuée et elle a du être « ravaudée » à travers toutes les couches des tissus détruits. Elle a convoqué la famille et les a mis sur la sellette pour les méfaits dont ils étaient responsables. « La mère pleurait ».

Sur le côté positif, enfin, les deux gynécologues, l’un en service à Conakry et l’autre à Kamsar, confirment que dans les dernières 10 années un bon pourcentage des femmes au dessous des 25 ans n’est pas excisé (mais pourtant toutes les fille que j’ai interviewé étaient excisées !). On n’a pas pu obtenir des données statistiques précises. Une circonstance reportée par un des gynécologue me frappe : il dit que pendant les vacances scolaires on voit « les enfants habillées dans la rue, on sait ce que ça signifie ». Je lui demande alors pourquoi personne de la police ne voit rien de cela, n’arrête pas cela ; il n’a pas de réponse convaincante : « il faut que les femmes décident de laisser l’excision… », il ajoute. Une enseignante de Boffa, au Séminaire de Boké, disait que « tout le monde le sait » (que les excisions continuent) et que «’il ne faut pas se cacher derrière la loi », pas respectée.
Discussion

Il me semble évident qu’en Guinée la pratique de l’excision soit entourée d’ une complicité, une connivence, un accord sur tous les versants sociaux qui sont presque universels, ce qui est confirmé malheureusement par les données du Rapport Unicef 2013. Personne ne m’a jamais parlé de poursuites du méfait accompli, même quand  « on a volée la fillette ». Il s’agit des proches, des grandes mères, d’amies intimes, comment faire, le dégât est déjà là…Aussi dans le cas de la mort de la fillette, raconté par un élève, on n’a pas porté plainte. Dans les meilleurs des cas, le désaccord sur la pratique est individuel, il ne fait pas « tâche d’huile », ou pas assez.

C’est cet accord, cette uniformité, bref, cette acquiescence à « la tradition » qu’il faut briser. Il y a des brèches, il faut les élargir, renverser graduellement le modèle de féminité, ré- évaluer  et présenter comme une valeur l’intégrité du corps de la femme et son droit au plaisir sans le confondre avec ce que, avec du mépris, on me désignait de « vagabondage »,  débauche. Ayant  remarqué des discours contradictoires dans plusieurs témoignages des élèves, quand la connaissance  de l’impact négatif sur la santé des femmes  n’excluait pas les propos favorables à la continuation de la pratique, il me semble qu’il soit nécessaire de conjuguer les renseignements ponctuels sur les dégâts physiques (et psychologiques) de l’excision avec l’appel à l’analyse critique, à ce qui « cloche » entre le plan cognitif et affectif, au moins pour la couche des jeunes les plus instruits, qui peuvent  devenir les propulseurs du changement, les « innovateurs » selon la théorie  de E.M. Rogers. Et il faut l’encouragement à réfléchir sur son expérience.
L’ enseignement de l’école coranique, très généralisée, difficilement stimule l’exercice de l’analyse critique de ce que l’on apprend. 

L’imbrication étroite des couches sociales (urbaines-rurales, paysannes-professionnelles, hautes-basses)  presque partout dans l’Afriques des villages semble suggérer pour la vidéo une approche sur différents niveaux et plans, de façon à s’adresser aux principaux « stakeholders » : adolescents, jeunes mères, femmes plus âgées encore convaincues que l’excision soit un « must » social, une sine-qua-non pour les femmes..

Plus que les causeries, les plaidoyers, les sanctions, les conférences, les séminaires, une vidéo nous semble un outil attrayant qui peut s’adresser à plusieurs segments sociaux au même temps, qui parle soit au cœur qu’ à la tête des spectateurs, pourvu qu’on sache toucher les cordes justes, et qu’elle soit appropriée culturellement, que puisse arriver à interroger les consciences et à mettre en discussion des certitudes ancrées. On ne doit pas essayer de convaincre mais de susciter des doutes, ou de les éclaircir si on en avait déjà, et susciter le débat.  Le Rapport Unicef 2013 fait état d’un manque de discussion même entre  époux sur l’excision. Un homme avec lequel je parlais m’a dit avec une pointe de désintérêt que « c’est une affaire de femmes ».
Les différents interlocuteurs ont des soucis différents, il faut les prendre en considération tous et en faire ressortir une vision nouvelle.


     
(1) Voir la Proposition de Vidéo Educative dans ce Blog: http://croceorsa.blogspot.it/2016/10/video-educative-contre-lexcision-en.html