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lunedì 15 giugno 2015

OMAR BASHIR PRESIDENTE CRIMINALE

Kaltouma e le altre


Ieri sera ho ascoltato alla radio una buona notizia: in Sud Africa é stato fermato il presidente sudanese Omar Bashir, sul cui capo dal 2009 pende un' accusa di crimini di guerra e genocidio in seguito a denunce da ogni lato alla Corte Penale Internazionale. Soltanto. 
Finora era riuscito a farla franca. Speriamo che sia la volta buona. E' responsabile di un numero infinito di morti, distruzioni, violazioni di ogni parvenza di diritto, bombardamenti su popolazioni inermi, dal 2003, in Darfur soprattutto.

Nel 2007 lavoravo in Ciad in un campo profughi sudanesi e con sfollati ciadiani, a Goz Beida. Qui sotto un articolo che scrissi allora per Il Manifesto. temo sempre attuale.



Da Goz Beida,  Distretto di Dar Sila, Ciad Orientale, campo di rifugiati  sudanesi di Djabal, 2007


Gli occhi di Kaltouma brillano di soddisfazione mentre stringe tra le dita il biglietto da 10.000 FCFA, circa 15 Euro, che rappresenta una ricompensa simbolica per il tempo che lei e le altre 10 donne della « concession » [1]dedicano due volte alla settimana  alla discussione sulla prevenzione e la « riduzione del danno » rispetto alle violenze di genere di cui sono bersaglio molte donne come loro in questa zona. Stupri in brousse ma anche picchiaggi domestici  brutali, matrimoni forzati a 12 anni (o anche meno) di età,  mutilazione degli organi genitali, pratica « tradizionale » molto diffusa .. Kaltouma, come le altre donne quasi tutte giovani  sedute intorno a me sulla stuoia,  sono rifugiate del Darfur, il loro villaggio si chiama (o chiamava), Ouroum. Molte di loro sono state sequestrate dai Djandjaweed  all’inizio del conflitto e tenute  prigioniere, utilizzate come pastore il giorno, schiave sessuali di notte,, cuoche e domestiche, finché sono riuscite a fuggire, hanno attraversato la frontiera con il Ciad e sono state prese in carico da HCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU.
Da  quasi 4 annii abitano in questo campo  nell’Est del Ciad, dove lavoro da 3 mesi per una Organizzazione Umanitaria. Vi sono arrivate dopo  incredibili peripezie . Alcune, come Maryoma, una bella ragazza di forse 20 anni con un  velo azzurro sgargiante, hanno perso tutta la famiglia. Il campo che le ospita ha una popolazione di 15.302 persone, ( dati  HCR del giugno 2007), e  di rifugiati ce ne sono altre decine e decine di migliaia sparsi in una ghirlanda di insediamenti sovrapopolati  lungo  tutta la frontiera con il Sudan.  Decine di Organizzationi Umanitarie e ONG si occupano di ogni aspetto essenziale della vita comunitaria, e hanno cambiato i ritmi e l’aspetto almeno esteriore del  paesaggio umano di questo angolo remoto di Ciad , alzando i prezzi alle stelle, attirato  folle di giovani disoccupati che cercano a tutti i costi un lavoro con « l’umanitario ».
 Ma se il termine « Darfur » é ormai sinonimo di « rifugiati » e almeno vagamente la grande maggioranza del  pubblico  dei Telegiornali di tutto il modo ne ha sentito  parlare, poco si parla  o si conosce degli sfollati Ciadiani, della guerra  tracimata  dal Darfur in Ciad attraverso i gruppi di guerriglia e di ribellione anti-governativa.  Quella che con orribile termine si chiama in gergo « umanitario » la popolazione bersaglio degli sfollati (nel caso particolare l’ironia involontaria é  amara),  per il nostro progetto focalizzato sulle vittime di violenze sessuali e sessiste  e solo in questa zona del Distretto di Dar Sila, é di 69.414, di cui circa 54% donne (Fonte, HCR, giugno  2007).
La situazione materiale di rifugiati e sfollati non é molto diversa. Anche gli sfollati sono stati cacciati dai loro villaggi da bande armate, dagli « arabes »  termine onnicomprensivo che é difficile specificare (la nozione di banditi, nomadi, guerriglieri, razziatori, ribelli si sovrappongono). Villaggi bruciati, uccisioni di massa, donne e bambine stuprate. Ma mentre i campi dei rifugiati sono organizzati fisicamente in quadrilateri, chiamati bloc e in settori, alla militare,, gli sfollati si sono raggruppati secondo l’abitato dei loro villaggi di origine.  Inoltre il tasso di alfabetizzazione é molto alto tra I sudanesi, anche tra le donne, mentre é basso tra i ciadiani e ancor più tra le ciadiane.
Oggi lavoro con Kaltouma e le sue amiche sudanesi sui possibili accorgimenti per proteggersi dagli stupri collettivi quando si va in cerca di legna.  Dicono quali sono le misure di prudenza che adottano, parlano senza esitazioni, raccontano aneddoti. Ridono dicendo che delle bambine hanno abbandonato i loro animali al pascolo e sono fuggite di fronte a dei nomadi che hanno scambiato per djandjaweed. I genitori sono dovuti andare a recuperare le bestie e il tutto é finito in ilarità. Una vecchia aggiunge che lei ha paura ormai dei cavalli (i djandjaweed sono in genere sempre a cavallo o a dorso di cammello).  Sono contenta dell’atmosfera di fiducia e confidenza che si é creata.
In luglio, quando le ho incontrate per la prima volta,  eravamo tutte imbarazzate. Mi avevano detto : attenzione, non si puo’ parlare apertamente di stupri, anche se tutti sanno cosa é avvenuto, se ne parli direttamente rischi di compromettere poi il lavoro di sensibilizzazione e educazione, « ti bruci ». Quindi cercavo di prenderla alla larga, ma con una certa sorpresa  mi sono resa conto che queste donne erano pronte a parlare subito di cio’ che era loro successo. Ma come ?  Allora ho capito che non so quanti  operatori umanitari o quanti giornalisti e giornaliste le avevano già intervistate per i loro articoli o per le loro statistiche. Parlando, ognuna di loro tirava spesso un lembo del velo (che non copre mai la faccia ma solo i capelli) verso le labbra, meccanicamente, sembravano spersonalizzate, parlavano delle atrocità che erano loro successe  con un tono neutro e l’occhio fisso davanti, raramente con esitazioni, senza mimica facciale  Ripetevano cio’ che sapevano  che « gli occidentali » vogliono sapere, gli occidentali che prendono appunti, fanno domande, forse lasciano qualche spicciolo agli uomini di casa che hanno facilitato l’incontro, e se ne vanno. Mi sono sentita orribilmente disumana, e ho allora cambiato le carte in tavola : dopo i loro racconti,  ho deciso di condividere con loro un’esperienza che  avevo vissuto in un altro paese africano, un tentativo di stupro fortunatamente fallito durante una rapina a mano armata.  L’atteggiamento e l’espressione dei loro visi é cambiata.  Mi hanno ringraziato commosse,  hanno sorriso, hanno detto che non avevano mai vissuto una condivisione del genere con delle « bianche ».
Da allora abbiamo iniziato degli incontri sulla prevenzione, sull’allerta precoce, come la chiamiamo, e sulle malaugurate conseguenze del silenzio  dovuto alla « honte », alla vergogna, vergogna che viene gettata loro addosso dalla famiglia, dall’entourage tutto, dalle autorità, e che viene introiettata . Nel loro caso non si tratta degli stupri in brousse che minacciano  tutte le donne anche locali che vanno quotidianamente alla ricerca del « fagot », del fastello di legna per cucinare ma anche e soprattutto da vendere. Crimini questi  da « tempo di pace », anche se non so di che pace  si possa parlare in questo contesto, data l’instabilità  politica cronica del Ciad e il timore di incursioni di ribelli, di nomadi e arabi, assimilati appunto ai Djandjaweed.  Nel caso di « Kaltouma e le altre » si tratta di  crimini di guerra , di crimini contro l’umanità, di genocidio, anche se probabimente loro di genocidio non hanno mai sentito parlare.
« Ero tornata a Oroum dopo un viaggio. Sono arrivati a dorso di cammello ma anche con gli aerei,  Sono fuggita verso la collina, ho perso mio marito, ho perso I miei bambini, e ne ho poi ritrovato soltanto uno. Sono rimasta  2 mesi nascosta sulla collina (con altri). Ma i djandjaweed sono tornati (ci hanno trovato), hanno selezionato le donne  (più giovani), e ci hanno tenuto per 3 mesi.  (Ero incinta), ho partorito, loro  hanno ucciso il bambino (il traduttore dice « égorgé », sgozzato, ).  Ci siamo ancora spostati, sono andata con loro. Sono rimasta ancora incinta, dopo due mesi mi hanno lasciato partire e (sono arrivata) in un villaggio di cui non so il nome. Qui ho abortito.  Dopo questo, ho lasciato il villaggio e sono  arrivata alla frontiera.  Ora sono con mio marito (ritrovato). Parla un’altra donna:
« Siamo tutte dello stesso villaggio. Sono arrivati la notte, dicevano che venivano da Nord, allora siamo tutti andati (a rifugiarci) verso il wadi (corso d’acqua  della stagione delle piogge). Ma loro hanno cambiato direzione. C’erano morti dappertutto. Io non sono stata stuprata, mi hanno provocato, mi  hanno fatto male. Siamo riusciti a seppellire i morti in una fossa comune”. Un’altra donna descrive la sua marcia forzata quando é riuscita a fuggire dal campo dei djandjaweed  dopo 33 giorni: « Abbiamo  camminato per 8 giorni, abbiamo  trovato solo villaggi bruciati, abbiamo trovato dei campi di arachidi e abbiamo mangiato quello. A Modeina  (villaggio alla frontiera) ho incontrato mia madre, mi ha detto che  il papà era stato ucciso. » Aggiunge che « nessuno la chiede in sposa ». Uno psicologo camerunese con cui ho parlato diceva che molte di queste ragazze  che tutti sanno sono state catturate dai djandjaweed non riescono più a farsi una famiglia loro e sono praticamente costrette a trasformarsi in prostitute. “Le si ignora il giorno, si domandano loro servizi sessuali la notte ».
La nostra sessione  di formazione é finita, il sole scalda e i bambini (impossibile vedere una donna africana di qualsiasi età seduta senza  bambini addosso) si fanno impazienti,  sono stati fin troppo  buoni.   A venerdi’ ? A venerdi’.  Usciamo dal campo lentamente, ci sono sempre persone che chiedono un passaggio.. Penso alle centinaia di Kaltouma che queste fila di capanne contengono, alle centinaia di migliaia di Kaltouma sparse per il Ciad e nel Darfur.  Le prospettive di pace in Darfur peggiorano di giorno in giorno in vista dei colloqui di Tripoli, in Libia, afferma Libération di questa mattina, 11 ottobre. La forza di pace « ibrida «  internazionale promessa da mesi non ha ancora i finanziamenti. Quante Kaltouma ci saranno ancora ? E a chi importa ?



[1] La concession é lo spazio abitato dove sorgono le varie capanne, dove abitano i membri di un a famiglia allargata, e generalmente é circondato da cannucciato e paglia. In una concession possono abitare anche 50 persone (compresi i numerosi bambini).

martedì 9 giugno 2015

"RACCONTI DELLA MINIERA" DI VICTOR MONTOYA

L’effigie del Tío *

Statuetta del Tio: collezione privata dell'autore dei racconti


Sinforoso Choque lo vide ancora una volta in sogno: aveva un corpo grottesco, un sembiante feroce, degli occhi lampeggianti, il naso schiacciato, zanne come denti di una sega, lingua a penzoloni e orecchie d’asino. In effetti, visto da vicino, la faccia assomigliava alla maschera del diavolo che aveva appeso alla parete della sua camera, a fianco dell’immagine della Vergine del Socavón.  Ma che questo personaggio misterioso  fosse penetrato nei suoi incubi, come se fosse fatto della stessa sostanza dei sogni, era dovuto al semplice motivo che lui stesso era rimasto terrorizzato dalla sua statua, vista per la prima volta nella galleria vicina al luogo frequentato dal qhencha[1] Condori, un uomo di provenienza oscura, che non solo aveva imparato a stringere patti con el Tío ma anche a comunicare con le anime dei minatori morti nel labirinto delle gallerie. 

Si alzò dal letto, come se si riscuotesse da una sbronza cattiva, e si diresse verso l’entrata della miniera mentre risonava la sirena di inizio turno, il cui lamento era più triste dell’ululato di un lupo. Nella sua bisaccia di tela grezza macchiata di schizzi di silice aveva messo un fagotto con mais bollito, carne secca di llama e una patata disidratata come colazione, una bottiglia di aguardiente e un sacchetto con foglie di coca, lejia[2] e tabacco da pijchar[3] vicino alla statuetta di argilla e quarzo del  Tío, questo personaggio che, secondo le credenze, era il dio e il diavolo della miniera, che trattava con condiscendenza oppure strapazzava  i minatori a seconda che lo avessero onorato oppure offeso.
 

Sinforoso Choque prese la torcia agganciata al guardatojo[4] e si addentrò nella notte perpetua della miniera, pensando che non aveva mai avuto nulla dalla vita, neppure una famiglia, eccetto una sorella gemella che si era data alla prostituzione.


Arrivato al luogo dove si doveva far saltare la roccia con la dinamite, il qhencha Condori, che era sempre il primo a entrare e l’ultimo a uscire dalla miniera, lo accolse con un sorriso mefistofelico e disse, mettendogli una mano sulla spalla:” Non avere paura”. Quindi si girò e avanzò verso il rajo[5] dove si trovava il materiale pronto per sventrare la roccia.

“Vedrai che la montagna è come una ragazza”, gli disse. “ Le togli le gonne e ti si apre tutta”.

Sinforoso Choque lo ascoltava attento, senza guardarlo e senza parlargli. Il qhencha Condori si addossò con il corpo alla roccia come un ragno, sistemò la cartuccia di dinamite nella fenditura e gli ingiunse di portargli il detonatore che era nella sua bisaccia. Sinforoso Choque, sapendo che la propria posizione gerarchica era inferiore rispetto a quella dei più anziani, adempì il suo dovere di apprendista e aspettò che Condori innescasse il detonatore e preparasse la miccia incidendola all’estremità. A quella profondità, dove l’aria era greve e il calore asfissiante, si aveva la sensazione di trovarsi nel ventre di un mostro fatto di pietra e di tenebre.


“E’ il momento dello scoppio!” esclamò il qhencha Condori staccandosi dalla roccia. Tirò fuori dal suo sacchetto una scatola di fiammiferi e dette fuoco alla miccia. Dopo di che Condori e Sinforoso Choque corsero giù verso la galleria principale gridando a squarciagola:” Scoppio! Scoppio!”

La detonazione rimbombò di volta in volta come se un tuono si fosse scatenato dal profondo della montagna. Una gran luce balenò e si spense tra nuvole di polvere, istoriate dai barbagli evanescenti delle lampade. “Calmati,  vecchia puttanona”, sussurrò il qhencha Condori accarezzando la roccia quasi fosse il dorso di un gatto.



La montagna si acquietò, tacque. Il qhencha Condori che sapeva calcolare la temperatura delle rocce come se si trattasse del proprio corpo, corse a controllare i frammenti dell’esplosione; nel frattempo Sinforoso Choque, emergendo dall’anfratto dove si era rannicchiato per difendersi dal vortice di fumo e polvere, si rifugiò nella galleria dove si trovava el Tío. Si accovacciò su uno spuntone di roccia e cominciò a pijchar un rotolo di foglie di coca e a bere l’aguardiente dalla bottiglia senza curarsi della presenza del Tío, cui non offrì né la coca né il liquore, senza neppure mettergli in bocca il tabacco.


El Tío, assiso sul suo trono di argilla, col suo sembiante diabolico, le zampe da oca, il membro eretto lungo e massiccio, lo guardò con gli occhi fiammeggianti come se lo scambiasse per la Vieja ,la sua perversa sposa, che ogni giorno prima di ogni scoppio era insultata e penetrata dai minatori che le estraevano dal ventre i suoi tesori.

Sinforoso Choque, che da lontano sembrava inginocchiato davanti all’effigie del Tío, si accorse che l’impasto di coca in bocca era diventato amaro, il che era di cattivo presagio. In effetti, colto da uno spavento superstizioso, prima distinse le sagome di due uomini che, scivolando sospesi a due palmi da terra, apparirono e si dissolsero nel buio delle gallerie. E poi udì la voce cavernosa del Tío che si levò dal suo trono e si allontanò furente. Sinforoso Choque rimase di sasso, cercò di dominarsi e svuotò la bottiglia. Improvvisamente, con le viscere in tumulto come se avesse preso un purgante al magnesio, sentì lo stimolo a liberarsi il ventre, benché temesse il dolore dei crampi per evacuare ciò che aveva mangiato. Si appartò vacillando in cima a un tunnel abbandonato della roccia  dentro il quale nessuno osava penetrare, poiché si diceva che là abitava el Tío con i due minatori che erano spariti senza lasciare traccia.

Sinforoso Choque si guardò attorno, si calò i pantaloni e si accovacciò, poggiando le braccia sulle ginocchia. Mentre spingeva con forza udì dei passi che gli si accostavano alle spalle. Gli venne in mente che potesse trattarsi del qhencha Condori che, come tutti i venerdì a quell’ora, veniva a lasciare una manciata di foglie di coca e un bicchiere di alcool per le anime dei minatori che erano scomparsi in quel tunnel. Poco dopo, sentendo i passi vicinissimi, si girò e chiese chi fosse. Nessuno rispose, ma una corrente d’aria sibilò in lontananza.

“Chi va là, perdio!” gridò, mentre l’indignazione esplodeva in un grido iroso. In quel momento soltanto sentì una vampata infuocata tra le gambe come se fosse nel fondo dell’inferno. Il suo corpo si accese come brace e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi. Volle drizzarsi in piedi, ma el Tío lo afferrò per le spalle e lo scaraventò a terra bocconi, con il viso nella polvere.

Sinforoso Choque, scosso da convulsioni dolorose, sentì nell’anima il fruscio della morte e ansimò come se una trivella lo trapassasse da un fianco all’altro. Gli sgorgò da sotto un getto di sangue fresco e il retto gli si aprì come se fosse un tubo rotto. Dopo ciò, lanciò un grido di paura e si contorse a terra. Si alzò puntellandosi alle rocce e uscì dal tunnel difilato verso l’imboccatura della miniera mentre el Tío, schioccando e roteando la lingua come la frusta di un  guardiano, lo incalzava da vicino, sghignazzando con una voce che sembrava il raglio di un asino.


Quando Sinforoso Choque arrivò all’uscita, mentre il sole tramontava e l’aria della sera si faceva tiepida, si imbatté nei suoi compagni del secondo turno, che lo videro emergere dall’oscurità con l’aspetto di un pazzo, i pantaloni laceri e il fondo dei pantaloni macchiato di sangue.

“Che ti è successo, amico?” gli chiesero tutti insieme.

El Tío, el Tío…” balbettò Sinforoso Choque senza poter frenare le lacrime che gli solcavano il viso né la bava mista a coca che gli colava dalle labbra.

I minatori, pensando che avesse perso la ragione, lo presero per le braccia e lo portarono all’Ospedale degli Operai, dove morì due giorni dopo. Quando i medici lo sottoposero ad autopsia, si seppe che  responsabile del decesso non era el Tío, come molti avevano creduto, bensì una misteriosa affezione per la quale non c’era stato rimedio. 



*  il libro Racconti della miniera é disponibile in e-book su varie piattaforme, tra cui Amazon Kindle.








[1] iettatore

[2] Impasto di ceneri vegetali che si mastica insieme alle foglie di coca

[3] Masticare coca

[4] Casco da minatore


[5] Fenditura nella roccia da cui si estrae il minerale del filone