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martedì 29 ottobre 2024

IL POPOLO E' IMMORTALE. PER LA PALESTINA

 

MORTE DI UNA CITTA[1]

da:Vasilij Grossman

Colline (foto mia)
 

Mi accingo a trascrivere una pagina dal romanzo Il Popolo è immortale di Vasilij Grossman, in cui si rievocano l’epica lotta dell’Armata Rossa  e  l’eroica resistenza  del popolo russo contro l’invasione nazista, che per la sua potenza drammatica mi sembra si attagli al fosco presente.  Mi è appena arrivato sul telefono un articolo del giornale inglese The Guardian il cui titolo è (tradotto) “Bombardamento israeliano su Beit Lahiya uccide 93 persone”. L’Agenzia d difesa civile di Gaza, si precisa nel primo paragrafo dell’articolo, afferma che mancano all’appello anche altre 40 persone. Naturalmente, numerosi bambini e donne tra le vittime, come sempre.

Vorrei anche ricordare che Israele fu tra i pochissimi paesi che mantenne sempre rapporti politici e commerciali con l’Africa del Sud durante l’apartheid. Un altro paese che egualmente non ruppe i rapporti con quel paese fu il Paraguay di Stroessner, che aveva accolto nel 1947 il criminale nazista, il dottore della morte, Josef Mengele. Qui sotto la pagina di Vasilij Grossman, l’inizio del capitolo intitolato: Morte di una città.

“Verrà il giorno in cui il tribunale delle grandi nazioni dichiarerà aperta la seduta; in cui il sole illuminerà schifato la faccia aguzza da volpe di Hitler, la sua fronte stretta e le sue tempie incavate; in cui sul banco della vergogna accanto a Hitler dovrà sedersi in tutta la sua stazza anche l’uomo con le guance grasse e cadenti, il gran capo dell’aviazione nazista.

“A morte” diranno allora le vecchie con gli occhi accecati dal pianto.

“A morte” diranno i bambini che hanno visto morire i genitori tra le fiamme.

“A morte” diranno le donne che hanno perso i figli. “A morte, in nome del sacro amore per la vita!”

“A morte” dirà la terra che hanno profanato.

“A morte” sussurreranno le ceneri di città e paesi bruciati. E con orrore il popolo tedesco si sentirà addosso sguardi di disprezzo e di biasimo, e con orrore e vergogna griderà anche lui: “A morte, a morte!”.

“Non la morte, no, ma i lavori forzati vita natural durante” diranno polacchi e serbi portati in Germania come schiavi.

Migliaia di migliaia di crimini tremendi hanno commesso i nazisti, ma fra i più tremendi c’è l’avere bombardato dal cielo città e paesi pacifici.

“Come farò a scrollarmi di dosso la vergogna di avere avuto un bisnonno pilota nazista?” esclamerà tra cent’anni un giovane tedesco.

E tra cent’anni gli storici guarderanno spauriti gli ordini scritti con calma, metodo, logica e precisione teutonica che dal quartier generale del Comando Supremo dell’esercito tedesco raggiungeranno i comandanti di squadre e squadriglie aeree. Chi era a vergarli? Bestie, pazzi, o forse nemmeno esseri umani, ma dita di ferro, dita di aritmometri[2] e calcolatori?

Non esiste castigo, no davvero, che possa espiare anche solo la millesima parte della colpa di chi ha scritto quegli ordini, o la decima di chi quegli ordini li ha messi in atto e li ha eseguiti. No compagni: un tale castigo non esiste, né ora né mai.

Il raid tedesco iniziò intorno alla mezzanotte.”

 

Mentre trascrivevo questa pagina, mi è tornata in mente la risposta di un pilota di un aereo militare, non ricordo proprio né in che circostanza né di quale nazionalità, né quando, certamente dopo gli anni 1990, ad un giornalista che gli chiedeva “cosa si prova quando si sgancia una bomba su una zona abitata”. La risposta lapidaria fu:

”Un leggero sobbalzo”.

 

 

 



[1] Vasilij Grossman. Il popolo è immortale. Biblioteca Adelphi 757, 2024, pagg. 45/46.

[2][2] Macchine calcolatrici inventate nel 1820 da Charles Xavier Thomas de Colmar (Wikipedia)

lunedì 21 ottobre 2024

INTERMEZZO ANTROPO-GROTTESCO

 

LA JETTATURA SECONDO ERNESTO DE MARTINO

 

Fattucchiera di Colobraro

Il libro dell’antropologo e filosofo Ernesto De Martino “Sud e Magia” apparve nel 1959 come parte di una serie di altri studi dedicati all’analisi e interpretazione del persistere di un’ideologia di stampo magico nel mondo moderno, in particolare nel sud Italia, e delle forme peculiari che essa assume. L’ottica è solidamente storicistica, se si vuole anche marxista, basata su lunghe e dettagliate ricerche etnografiche sul campo, condotte con équipes interdisciplinari e percorse da una evidente corrente di profonda empatia. In “Sud e Magia” l’area scelta è la Lucania, che sul finire degli anni 1950 era tra le zone più rurali ed economicamente arretrate di un’Italia che cominciava appena ad aprirsi al boom industriale e a una accelerata (e incompiuta) modernizzazione dei costumi e delle mentalità. L’incidenza di credenze magiche che compenetravano la vita religiosa e un cristianesimo dove liturgia, culto delle reliquie e ritualità erano intrise di magismo non era confinata alle classi popolari ben poco alfabetizzate ma si allargava a tutto il tessuto sociale. Nella prima parte del libro si susseguono descrizioni minuziose delle varie circostanze della vita individuale e sociale in cui si fa ricorso a interventi di specialisti (fattucchiere e maghi contadini), o ad orazioni e scongiuri dal sapore pagano verniciato di cattolicesimo per allontanare minacce come fatture, malocchio, malattie inspiegabili o problematiche che si interpretano essere di origine non naturale bensì opera di forze malevole, metamorfosi locali della più generica fascinazione, in cui la persona si sente come “posseduta” da una forza magica cui non riesce a sottrarsi. La seconda parte inquadra e interpreta la persistenza della ideologia di stampo magico come rimedio e barriera difensiva contro quella che De Martino definisce icasticamente come “potenza del negativo” nella storia individuale e sociale, che minaccia la possibilità stessa di vita operativa e umanamente accettabile, e può provocare quel crollo delle energie vitali definito dall’antropologo “la crisi della presenza”, crisi che mette in pericolo l’essere al mondo, l’esserci[1] dell’individuo ( o di un gruppo sociale) e la sua proiezione in un futuro gestibile. Nel mondo magico il richiamo di riti che in passato hanno dimostrato la loro efficacia, l’iterazione di scongiuri e gesti che allontanano la mala sorte ricongiungono il qui e ora malefico ad un passato mitico in cui la situazione di pericolo è stata scongiurata; ciò che funzionò allora[2] può funzionare anche nel presente. La nozione di “destorificazione culturale”, l’estrazione del negativo dal contesto specifico storicamente determinato che lo produce, operazione che compie l’ideologia magica, è il contributo più alto, afferma Massenzio nella sua introduzione, fornito da De Martino al pensiero storico-religioso. In una società povera e arretrata in cui fame, cattivo raccolto, malattie infantili, morti precoci erano realtà quotidiana, l’ideologia magica offre una via di scampo, fusa con una religiosità anche fatta di miracoli e santini; la pratica magica riesce a riscattare la precarietà del vivere.

Lo "zio Giuseppe" di Valsinni

Nel Sud Italia, che De Martino definisce come la vasta area che va “dall’acqua benedetta all’acqua di mare”, dallo Stato della Chiesa al Mediterraneo, la radice ultima di tale orientamento “ha la sua radice ultima … nella mancata o incompiuta adesione degli strati colti della società alla svolta antimagica che connota la civiltà occidentale nel suo sorgere e nel suo progredire e alla conseguente affermazione del dominio incontrastato del pensiero razionale…”[3]. Tale concetto è fondamentale e viene ripreso e articolato da De Martino nella trattazione del fenomeno prettamente napoletano della “jettatura”, in due successivi capitoli. Il regno di Napoli e la sua storia, che Croce stesso denominò “non storia”, fu il terreno adatto perché nascesse quella peculiarissima nozione, una vera e propria ideologia, la jettatura. Mentre le grandi potenze unitarie europee consolidate nei secoli come l’Inghilterra e la Francia sposano decisamente l’illuminismo, con borghesie commerciali e industriali fiorenti e superano il bivio della modernità tra pensiero magico e razionalismo, tra alchimia e chimica, tra immobilismo e dinamicità sposando i lumi della ragione, il moto illuministico a Napoli sconta la mancanza di “una borghesia dei traffici e delle industrie” e si restringe alla sfera letteraria. E a un circolo di pochi eletti. La Repubblica Partenopea del 1799 fallisce miseramente. Vette eccelse di grandi intellettuali rimangono isolati fari.

 

Ricostruzione di un caso di "legamento" notturno

 In questo contesto di una monarchia retriva e screditata, si colloca la formazione dell’ideologia della jettatura, a metà strada tra “il fascino stregonesco della bassa magia cerimoniale e le esigenze razionali del secolo dei Lumi…Sino alla caduta del Regno, e oltre, la ideologia della jettatura si innesta nella vita non soltanto privata ma anche pubblica della città di Napoli”. A differenza della magia demonologica nella quale predominano povere donnette perseguitate come streghe, la jettatura è dominata da figure prevalentemente maschili. “Il potere malefico inconsapevole che procede da determinate persone assume il significato specifico di un’antitesi semiseria alla ragione umana come riformatrice dell’ordine naturale, sociale e morale; lo jettatore appare infatti l’uomo del disordine assoluto in queste tre sfere, ed è al tempo stesso l’uomo dell’occulto e dell’inconscio che, nel secolo dei Lumi, smentisce tutti i lumi del secolo, inducendo a ricorrere ad amuleti e scongiuri”. Chi non ha visto anche oggi penzolare davanti al parabrezza di un'auto corni fiammanti di varie dimensioni? Non ci credo, ma non si sa mai.

Lamentatrice di Pisticci

Ho citato a lungo il testo perché mi sembra che questa analisi così lucida chiarisca finalmente una credenza di cui spesso si sottovaluta il significato; la si liquida con noncuranza senza preoccuparsi di capire le radici e le ragioni di una persistenza tanto pervicace.

Concludo con il ritratto di un jettatore nobile e passato alla storia, attraverso la biografia tratteggiatane dal Dumas, citata da De Martino con effetto tragicomico esilarante, data la sequenza di sventure e disgrazie che scandirono la sua vita.

Il Dumas lo chiama anonimamente “il principe di ***, al secolo il principe di Ventignano, che inaugurò la sua funesta carriera di jettatore venendo al mondo: la madre morì dandolo alla luce, la balia cui fu affidato perse il latte, il padre perdette il suo incarico di ambasciatore in Toscana perché, informato della morte della moglie durante il parto si precipitò a Napoli senza attendere il permesso del granduca di Toscana. L’influenza perniciosa del neonato in ambito domestico si perpetuò quando il fratello morì in duello per averlo voluto difendere dall’accusa di jettatore, e il genero, noto libertino incallito durante il celibato, non riuscì a consumare il matrimonio con la figlia per effetto della benedizione paterna, si sospettò, impartita alla amata coppia. 

Vomere sotto il letto contro la fascinazione

Il giorno in cui il principe di *** entrò in seminario, tutti i ragazzi della sua classe furono colpiti da tosse convulsiva. Nel corso dei suoi studi il capace e diligente principino era sempre il primo della classe e guadagnava invariabilmente il primo premio in palio. L’unica volta in cui fu secondo, il compagno cui era toccato il primo premio inciampò nel primo gradino del palco salendo per ricevere il suo premio e si ruppe una gamba. Quando il principe entrò nel convento di Camaldoli per fare il suo noviziato, il giorno dopo il suo ingresso apparve l’ordinanza della Repubblica Partenopea che sopprimeva le istituzioni religiose, e frati e principe dovettero fare fagotto. Divenuto ricco dopo la morte per sua causa del fratello, volle inaugurare la sua vita mondana recandosi a teatro al San Carlo. Quella medesima sera il teatro prese fuoco. Invitato a una festa da una contessa, tutto andò storto: un gran temporale impedì agli invitati di restare in giardino, crollò un lampadario, la prima donna del San Carlo fece una stecca e abbandonò la sala, dicendo di sentirsi dominata “da una forza nefasta superiore al suo talento”. Ma le sue facoltà operarono anche su più vasta scala. Quando era ancora in seminario, fu invitato in rappresentanza della sua classe alla chiesa di S Chiara dove si sarebbero benedette le truppe in partenza contro i francesi. Impartita la benedizione dall’arcivescovo, gli stendardi sfilarono per uscire dalla chiesa. Mentre uno dei portabandiera passava davanti al principino, cadde fulminato da un colpo apoplettico. Il principe uscì dalla fila, si chinò sul malcapitato tentando di rianimarlo senza successo, poi afferrò con uno scatto patriottico lo stendardo dalle mani del cadavere gridando: “Viva il Re!”, grido che la folla riecheggiò. Dopo tre mesi i napoletani furono battuti dai francesi e proprio il vessillo impugnato dal principe cadde in mani nemiche. Recatosi anni dopo il principe a Parigi con la missione di complimentare Carlo X a nome del re di Napoli per la presa di Algeri, il giorno dopo scoppiò a Parigi la rivoluzione del 1830. Sulla via del ritorno, il principe pensò bene di recarsi a Roma per rendere omaggio al Papa Pio VII, fu benevolmente ricevuto e gli baciò devotamente la mano. Il Papa morì tre giorni dopo. Infine, il Dumas descrive un fortunoso viaggio per mare durante il quale la fregata francese che ospitava il principe fu costretta ad accettare un combattimento con forze inglesi in posizione di svantaggio. Il vento aveva infatti invertito direzione appena il principe aveva rassicurato il capitano che il vento avrebbe continuato a soffiare nella stessa direzione favorevole. Nella biografia romanzata del Dumas, conclude De Martino, il principe di*** incarna l’irrazionalità dell’inconscio e la casualità delle occorrenze avverse. La jettatura napoletana conosce soltanto eroi volutamente grotteschi, nello spirito scanzonato con un pizzico di cinismo che lo caratterizza, nutrito da esperienze secolari di vicende storiche travagliate e rivolgimenti improvvisi. Alla De Martino, un destino storicamente determinato.

La "via Grande" di Ferrandina

 

 

 

 

 

 



[1] Concetto desunto da Heidegger, il Dasein

[2] De Martino usa spesso l’espressione latina ”illo tempore”

[3] Dalla prefazione all’edizione 2024 Einaudi, a cura di Marcello Massenzio e Fabio Dei.