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martedì 1 ottobre 2024

TIANXIA O NON TIANXIA QUESTO E' IL PROBLEMA

 

UNA FEROCE FORZA POSSIEDE IL MONDO E LA CHIAMA DIRITTO[1]

Mappamondo borgiano
 

Questo scritto nasce dalla riflessione sulla pertinenza di alcune categorie del pensiero del grande antropologo e filosofo Ernesto de Martino, categorie desunte sia da una vasta analisi di varie ricerche etnografiche, sia dalle proprie ricerche di campo nel sud Italia, per leggere il presente, interpretare in una cornice plausibile, intellegibile, il caos che sembra sovrastarci. Caos che nasce dal ventre verminoso di mali antichi del mondo ormai bollato occidentale, Europa e America settentrionale, degna filiazione della violenza di Francisco Pizarro e Hernán Cortez, quindi di abomini come la conquista dell’America meridionale e l’azzeramento delle grandi civiltà autoctone, lo sterminio delle rispettive popolazioni, la tratta atlantica degli schiavi e lo schiavismo, il colonialismo, l’Inquisizione, i nazionalismi, il nazismo, il fascismo, la persecuzione secolare delle minoranze. L’impresa delle Crociate aveva inaugurato la serie delle spedizioni prevaricatrici all’insegna di un cristianesimo armato. Forse le radici di questa vera e propria furia conquistatrice ed espansionista si possono far risalire all’Impero romano, ma non essendo storica mi fermo qui, però non può non colpire il divario netto rispetto alle pur antichissime e dispotiche civiltà orientali, che si accontentavano di guerre locali.

Il XXI secolo, l’inizio dello strombazzato terzo millennio è già vecchio, e rischia di imitare in peggio il XX.

L’ultimo libro di De Martino, uscito in due edizioni ambedue postume, La fine del mondo, sottotitolo, Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, è un’opera complessa  di larghissimo respiro, nella quale confluiscono e si articolano ulteriormente speculazioni e concetti che mi sembrano utili strumenti per tentare di comprendere meglio l’attualità e le nostre reazioni di fronte ad essa, attenuando il mal-essere, le paure, lo sgomento che provoca la visione di un disordine mondiale crescente, di distruzioni apocalittiche, di montagne di morti di civili inermi che non trovano argini né limiti in nessuna istanza giuridica, politica, umanitaria sovranazionale.

Viene in mente la pagina di Dostoevskij de “I Fratelli Karamazov”: “Se Dio non c’è tutto è permesso…tutto si rinnoverà. Gli uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio titanico e apparirà l’uomo-dio.” Vivendo in società secolarizzate, possiamo sostituire la parola Dio con diritto internazionale umanitario, leggi di convivenza civile, ethos universale, corpus giuridico universalmente valido, ma abbiamo non l’apollinea visione di felicità e armonia di in uomo-dio di Ivan Karamazov, ma una giungla popolata di belve feroci in cui il concetto stesso di umanità è sommerso dalla violenza pura, indiscriminata. E’ il panorama offerto dall’attualità in cui uno stato microscopico come Israele si arroga il ruolo di mosca cocchiera dei potenti Stati Uniti, gode di una impunità totale mentre compie stragi infinite con lo scopo neanche tanto camuffato di annientare popolazioni intere, non eserciti nemici. Una risibile “comunità internazionale” che dopo l’invasione dell’Ucraina da parte russa si era affrettata a comminare sanzioni, emettere mandati d’arresto esecutivi, isolare in ogni modo la Russia, continua ad avallare una narrazione israeliana menzognera quanto diabolica, di “guerra di difesa”. Ma possiamo risalire nel tempo, in quanto a sgretolamento di ogni remora del diritto internazionale post-1945, con la guerra al terrorismo di Bush figlio, l’istituzione del campo di Guantanamo, le extraordinary renditions, l’invasione dell’Iraq. Da qui la sensazione di un “nessuno ci salva”. 


Se aggiungiamo a questo scenario lo sconvolgimento di un clima alterato dalla dissennatezza e dalla irresponsabilità umane, il ricorso sempre più frequente alla guerra per dirimere la conflittualità inter-statale, la diplomazia considerata un arnese antiquato e ingombrante, il crollo di tutto l’edificio normativo internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale e la violazione noncurante di diritti che sembravano scolpiti nella pietra, avremo davanti il “panorama scheletrico del mondo”, espressione del poeta Dino Campana. Alla possibile futura apocalissi climatica si affiancano tante apocalissi culturali specifiche, e l’Occidente è la prima responsabile. Il pianeta rischia di esserne travolto. Nella prefazione a La fine del mondo, nella conversazione con Cesare Cases, De Martino esclama: “La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?” [2]


Ti svegli di notte, o un mattino, e il tetto della tua casa non esiste più, o una bomba distrugge la casa di fronte alla tua finestra. Da un momento all’altro devi fare fagotto, scappare per non farti ammazzare, senza riuscire a prendere nulla. Diventi un profugo, un rifugiato, un mendicante. Questo è un esempio estremo, ma è anche l’esperienza di milioni di persone, di un numero crescente di persone, come testimoniano le statistiche dell’UNHCR, il Consiglio dell’ONU per i rifugiati. Allora è non solo l’incolumità fisica che è in gioco, è una mutazione esistenziale catastrofica, la perdita del proprio “esserci” nel mondo, della propria “presenza” in quanto soggetto sociale e politico che si proietta in un futuro plasmabile, prefigurabile, che dipende dal proprio operare. Il soggetto si sente in balia di forze esterne che non riesce a controllare, di avvenimenti contingenti, non esistono più i punti di riferimento abituali, il mondo perde senso e direzione intellegibile. Viene in mente il libro di Chinua Achebe sull’arrivo degli coloni inglesi in un villaggio della Nigeria all’inizio della conquista coloniale, terminata il 1° gennaio del 1900: Things fall apart (il mondo si sbriciola), nella edizione in francese che ho: Le monde s’effondre, il mondo crolla. La problematica diviene ontologica. E’ il proprio io che barcolla.

La nozione di “crisi della presenza” è elaborata da De Martino ne Il Mondo Magico, ma diventa uno dei più originali strumenti interpretativi attraverso tutta la sua speculazione teorica successiva. “Nel mondo magico noi siamo introdotti in un’epoca storica in cui l’esserci non è ancora deciso e garantito, e in cui la difesa dal rischio di non esserci mette capo a una creazione culturale che realizza effettivamente il riscatto da questo rischio. Il “non esserci” significa l’impossibilità dell’individuo di agire in una situazione data, specialmente di crisi, per risolverla, una posizione di incertezza e precarietà esistenziale che mettono in forse il suo essere nel mondo, il suo mondo.  La presenza in senso antropologico, è intesa come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica, attivamente attraverso l'iniziativa personale e andandovi oltre attraverso l'azione Allora, dice De Martino, in questo spaesamento, smarrimento di sé, in società prevalentemente agrarie o pastorali, ci si salva dal baratro ricorrendo a pratiche culturali rituali che riescono a esorcizzare la crisi, che può coinvolgere un singolo, o attanagliare un intero gruppo sociale. Il rito sanzionato dalla tradizione in cui tutta la comunità si riconosce restituisce senso e significato alla crisi, c’è il riscatto sia individuale che collettivo a seconda delle circostanze. Pensiamo al ruolo svolto dai canti e riti notturni degli schiavi americani, dal tramonto all’alba, al candomblé e alla santeria brasiliani. E al rito coreutico- musicale nel tarantismo pugliese.

Rito coreutico-musicale in Puglia per una tarantata

 

Nel nostro mondo secolarizzato, individualistico, atomizzato, nel quale si sono allentati anche i legami familiari e di gruppo, non ci sono miti né riti, l’individuo è scaraventato nelle crisi senza reti di protezione, la realtà una volta familiare improvvisamente appare indecifrabile e inconsulta. E l’apocalissi culturale, la sensazione di crollo di ogni regola del viver civile può provocare, sul piano individuale, quelle che De Martino chiama apocalissi psicopatologiche. Non si è più “appaesati”, ma spaesati.

La “crisi della presenza” come accennata succintamente più sopra si riallaccia a un’altra nozione chiave demartiniana che mi sembra adatta a interpretare la sensazione di impotenza che proviamo di fronte ad una realtà ostile e minacciosa che ci sovrasta e mina la nostra capacità di “esserci”, di agire di conseguenza: l’operabilità di una presenza che “sta garantita in cospetto di un mondo trattenuto nei suoi cardini”. Quando il mondo esce dai suoi cardini e ci appare come una entità mostruosa e divorante, irriconoscibile, la sensazione di incapacità di modificare quella realtà, ci opprime e paralizza. Oppure, pur agendo o cercando di agire, abbiamo l’impressione di un affannarsi sconclusionato che non incide, che non riesce a cambiare nulla rispetto alla propria volontà. La realtà non si lascia intaccare, la situazione che vorremmo cambiare permane inalterata o peggiora. L’individuo si trova in balia degli avvenimenti esteriori, travolto, cerca solo di restare a galla. E non solo la capacità di agire consapevolmente e con efficacia, in una collettività consenziente e accogliente, viene a mancare, ma talvolta anche la capacità di decifrare la stessa realtà, di capacitarsi del perché e percome “quegli” avvenimenti si susseguono. E’ possibile allora il naufragio, la resa psicopatologica.

Tianxia, unico rimedio possibile al male del mondo

Pensiamo a quel che hanno vissuto e vivono gli abitanti di Gaza nell’ultimo anno, vagando di fuga in fuga, sotto le bombe giorno e notte incessantemente, perdendo la casa, i propri cari, figli, genitori, parenti e amici, in una società tradizionalista dove ancora una famiglia conta decine di membri abitualmente, perdendo tutto il proprio passato: è la perdita di sé, la riduzione alla pura sopravvivenza biologica, se si riesce a sopravvivere di ora in ora, di minuto in minuto. In ogni secondo si può morire. La sequela di risoluzioni delle più alte istanze internazionali non ha scalfito minimamente il progredire dell’aggressione. Pochi giorni fa l’ennesimo chiacchiericcio sulla proposta di un cessate il fuoco in Palestina all’ Assemblea delle Nazioni Unite ha preceduto di un’ora l’ok al bombardamento di un quartiere della capitale, Beirut, di uno stato sovrano, il Libano, bombe che miravano a colpire principalmente un uomo, Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah. Mentre il Presidente degli Stati Uniti assicurava di stare lavorando per raggiungere un accordo tra Israele e Hamas, per fermare l’aggressione in Libano, Israele usava due super-bombe gentilmente fornite dallo stesso Presidente per aizzare la guerra sui due fronti, Palestina e Libano. E’ il dileggio più abietto dell’ONU, che ormai conta come il proverbiale due di picche, una politica delirante. Per concludere questo triste excursus torno al titolo e al concetto cinese di Tianxia, che significa “sotto un unico cielo”. Ho scoperto Tianxia grazie al libro del fisico Carlo Rovelli Lo sapevo, qui sopra il fiume Hao. Carlo Rovelli cita a sua volta il libro del filosofo politico cinese Zhao Tingyang Il sistema Tianxia, una filosofia per le istituzioni mondiali. Si suggerisce, in poche parole, che in campo internazionale la collaborazione e l’inclusione sono più vantaggiose che non la competizione e l’esclusione. In un pianeta che deve fronteggiare il pericolo di un collasso della vivibilità grazie al riscaldamento del clima, come dimostrato da siccità e inondazioni via via più violente e distruttive, una politica aggressiva di competizione e di riarmo è la migliore ricetta per l’implosione. Il minuscolo atomo del male che galleggia in un universo smisurato di milioni di miliardi di stelle potrebbe rendersene conto. Sotto un unico cielo c’è un’unica via da percorrere: collaborare per evitare il collasso. Se i dinosauri sono stati cancellati da una meteorite, noi non ne avremo bisogno per sparire.



[1] Chiaramente, da Adelchi

[2] Grassetto mio

giovedì 15 agosto 2024

L 'ANTICO ANIMALE UMANO

 

PER CHI SUONA LA CAMPANA

 

Agosto 2024: Israele non sta perdendo la sua guerra sciagurata nominalmente contro Hamas, di fatto contro una popolazione intera, ma contro se stesso in quanto entità statuale, persona giuridica e persona morale. Sta cancellando il proprio diritto a continuare ad esistere in quanto Stato, non certo democratico ma di apartheid. Nel 1945 la Germania di Hitler aveva perso non solo la guerra ma il diritto ad esistere come entità nazista, così il Rwanda di Habyarimana e dell’Hutupower è stato cancellato, dopo il genocidio perpetrato nel 1994, dalla vittoria del Fronte di Kagame. L’Africa del Sud di Botha e dell’apartheid è stato cancellato dal Sudafrica di Mandela. Ciò vale (o varrebbe?) se pensiamo a una comunità internazionale che ancora possa dirsi civile. E’ impossibile al momento capire se, e per quanti anni, Israele trascinerà la sua esistenza come Stato zombie, puntellato da chi lo arma e sostiene a occhi chiusi, morto che cammina.

Da dieci mesi siamo atterriti testimoni oculari virtuali del tentativo di cancellare un popolo, una storia millenaria, una cultura in Palestina. Un altro genocidio: le profetiche parole di Primo Levi: " è successo una volta, si può ripetere”, che mai chi le ha formulate avrebbe pensato si potessero concretizzare con le ex vittime di default dell’Occidente nel ruolo di carnefici, non possono non rimbombarci dentro. Tanto più dolorose per chi, appartenendo genealogicamente all’ebraismo, non può strapparsi di dosso qualcosa che è parte di sé, e sente che gli schizzi di sangue palestinese gli arrivano addosso, nonostante l’opposizione soggettiva militante alle politiche di Israele, da sempre.

Quel che segue è un collage che spero trasmetta tutto il raccapriccio che provo da mesi e aumenta sempre più di fronte alla totale impotenza dimostrata finora da tutto l’armamentario giuridico internazionale creato nei decenni trascorsi dal 1945 per governare i conflitti e impedire che si ripetessero in peggio le catastrofi novecentesche. Un’impotenza operativa. Ho provato a fare un collage che oscilla tra la storia centenaria delle persecuzioni antigiudaiche e antisemite e il presente in cui le ex vittime diventano implacabili boia. Non avendo a disposizione biblioteche pubbliche, attingo ai libri e documenti che ho in casa e, per il presente più immediato, al Rapporto recente di una organizzazione ebraica israeliana, B’Tselem Welcome to Hell (Benvenuti all’Inferno).

Questo primo brano è estratto dal libro dello storico Adriano Prosperi Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici e selvaggi: Granada 1492, Laterza 2011. Siamo in Spagna: “Nell’estate del 1321 fu elaborata e diffusa ad arte l’accusa agli ebrei di tramare contro i cristiani, in accordo segreto coi lebbrosi e con l’alleanza di sovrani musulmani; il nemico interno doveva avvelenare i pozzi aprendo così la strada all’aggressione vittoriosa del nemico esterno. Accusa facile a essere creduta: non era forse l’ebreo l’altro in mezzo a noi, colui che vivendo tra i cristiani rideva di loro…? Da questi inizi prese corpo il nucleo originario della figura del nemico interno e il processo di espulsione degli ebrei dai regni cristiani di Francia e d’Inghilterra. La crisi della peste nera del 1348 sconvolse la società europea. La paura del nemico invisibile e il superstizioso timore di una punizione divina per la presenza di nemici di Dio nella società portarono a scaricare su frange di emarginati e di diversi la violenza accesa dal timore della morte. Meccanismi dello stesso genere dovevano riprodursi ancora nei secoli successivi (pag. 41).” E più avanti, a pag. 46: “Ma intanto in Spagna si venne diffondendo l’idea di una differenza naturale, di sangue, tra cristiani ed ebrei. La tesi trovò una convinta difesa e divulgazione nell’opera del francescano Alonso de Espina, un predicatore che trovò una popolarità straordinaria grazie alla campagna oratoria dai violentissimi toni antigiudaici condotta in Castiglia a partire dal 1454.” Così si arrivò alla cacciata di tutti gli ebrei dalla Spagna dove avevano vissuto da sempre, decretata dai due Re cattolici, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. L’alternativa era il battesimo e la conversione al cattolicesimo. Fu una cesura dolorosa, vissuta come catastrofe da chi partì verso l’Italia, il Portogallo, l’Olanda o l’Africa settentrionale. “Una catastrofe talmente immane, quale quella che colpì una delle più importanti comunità ebraiche, doveva lasciare una traccia assai profonda in tutti i settori della vita ebraica e nel sentimento di quel popolo”. (Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, 1993, pag.257). Molti ebrei profughi trovarono accoglienza proprio nei paesi che facevano parte dell’Impero ottomano, quindi nel mondo musulmano, e divennero ebrei arabi, i Mizrachi. Molti dei loro discendenti, dopo la formazione dello Stato d’Israele nel 1948, emigrarono verso quella che credevano la loro nuova patria ritrovata e furono accolti a pesci in faccia[1]. Furono sbattuti ad abitare in villaggi e centri esposti alle incursioni e rappresaglie dei palestinesi espulsi dalle loro case, furono addetti ai lavori manuali più umili, e divennero facile preda della destra estrema. Alcuni degli attuali ministri nel governo di Netanyahu, feroci nei confronti dei palestinesi, sono Mizrachi, discendenti di ebrei arabi. Ben Gvir ad esempio è di origine irachena. Ironia della storia.

Arriviamo al ‘900 e alla salita al potere di Adolf Hitler nel 1933. Traduco da Breviaire de la Haine [2]di Leon Poliakov, Calmann-Lévy/Complexe, 1986: “Due mesi dopo che il maresciallo Hindenburg aveva affidato a Adolf Hitler la costituzione di un governo, entrarono in vigore le prime misure contro gli ebrei tedeschi. Il preludio fu un boicottaggio mostruoso dei commercianti ebrei, organizzato il 1 aprile 1933 da un comitato ufficioso presieduto da Julius Streicher. Il 7 aprile furono pubblicate due prime leggi che escludevano gli ebrei dalle funzioni pubbliche e dall’ambito giuridico (salvo eccezioni previste per gli ex combattenti e i funzionari e avvocati in carica prima del 1 agosto 1914) …Il 15 settembre 1935 le leggi razziali di Norimberga introducevano nell’antisemitismo tedesco una nuova nota caratteristica.” In Italia le leggi razziali che escludevano gli ebrei dalle funzioni pubbliche e dalle scuole e Università furono emanate nel 1938. Il fratello diciottenne di mia madre non poté iscriversi all’Università e decise di emigrare in Palestina. E arriviamo alla “soluzione finale” vagheggiata dai nazisti tedeschi, l’eliminazione degli ebrei dalla faccia della terra. Poliakov cita un brano dal diario personale di Goebbels, alla data 2 marzo 1943 (ibid, pag. 127): “Noi siamo in particolare talmente coinvolti nella questione ebraica che ci è ormai impossibile indietreggiare. Tanto meglio. Un movimento e un popolo che si sono tagliati i ponti dietro combattono molto più energicamente - l’’esperienza lo prova - di coloro che hanno ancora la possibilità di tirarsene fuori…”.

Delle testimonianze in prima persona dei prigionieri ebrei nei lager citerò il francese Robert Antelme e l’italiano Primo Levi. Da La Specie Umana di Robert Antelme, Einaudi, 1969, pag. 88: “Il regno dell’uomo che agisce e si manifesta non può estinguersi. Le SS non possono cambiare la nostra specie.  Nella stessa specie, nella stessa storia, sono anche loro racchiusi. Tu non devi esistere: una macchina enorme è stata montata su questa derisoria volontà da imbecilli. Hanno bruciato uomini su uomini, vi sono tonnellate di ceneri, veramente, possono pesarla per quintali questa materia neutra. Tu non devi esistere: ma non possono decidere al posto di colui che tra poco sarà cenere, che egli non sia! Debbono tener conto di noi fintanto che viviamo, ed è ancora da noi, dall’accanimento che metteremo nel voler vivere, se subito dopo averci fatto morire, si accorgeranno di essere stati interamente derubati. Né possono arrestare la storia che farà più feconde…queste aride ceneri”.

Primo Levi, 24 anni, è arrivato da poco al Lager di Auschwitz, a fine gennaio 1944, e già si rende conto di quanto sia cambiato. Da Se questo è un uomo, i libri di Repubblica, 2002, pag. 36: “Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso già ho la fame regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio; ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato la sera; qualcuno tra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni stentiamo a riconoscerci l’un l’altro.”

Un altro testimone dei lager nazisti è Jean Améry, filosofo e scrittore austriaco il cui vero nome era Hans Chaim Mayer, di solo padre ebreo[3], che pur battezzato e allevato come cristiano volle chiamarsi ebreo e fu internato in ben tre lager nazisti. Morì suicida a 65 anni. Non riesco a trovare un suo libro, che ho chissà dove, e traduco una frase trovata su Wikipedia tratta dal suo libro: At the Mind’s Limits pag. 94 (Al limite del pensabile): “Per me, essere ebreo significa sentire la tragedia di ieri come un’intima oppressione. Sul mio avambraccio sinistro porto impresso il numero di Auschwitz[4], è più breve del Pentateuco o del Talmud, eppure fornisce una informazione più completa. E’ anche più perentorio di formule di testimonianza di appartenenza ebraica. Se a me stesso e al mondo dico di essere ebreo…intendo con ciò quelle realtà e possibilità implicite nel numero di Auschwitz.

Jean Améry

La creazione dello Stato di Israele fu un atto di squisita ipocrisia delle potenze occidentali alleate, il postumo risarcimento per l’inazione e l’indifferenza durante il genocidio nei campi nazisti. Un atto di risarcimento che generò un’altra colossale ingiustizia.

La fondazione di Israele il 14 maggio 1948 fu preceduta da una guerra contro i Palestinesi che rifiutarono i termini della partizione della Palestina sancita dalla Risoluzione 181 dell’UNSCOP, la Commissione Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina e dall’Assemblea Generale delle N.U. “Gli arabi lasciarono la sala sostenendo che la risoluzione era senza valore. Non capivano, come scrisse in seguito uno storico palestinese, perché il 37% della popolazione avesse ottenuto il 55% del territorio (del quale aveva posseduto fino a quel momento solo il 7%). In altre parole, i Palestinesi non capivano perché si facesse pagare a loro il conto dell’Olocausto[5]non capivano perché fosse ingiusto che gli ebrei restassero una minoranza in uno Stato palestinese unitario e invece fosse giusto che quasi metà degli arabi palestinesi – la popolazione autoctona, che abitava il paese da secoli – diventasse dalla sera alla mattina una minoranza soggetta a un potere straniero”.[6] Il 15 maggio 1948 è il giorno della catastrofe palestinese, la Nakba, cioè la cacciata di centinaia di migliaia di palestinesi dalla loro case e dai loro campi verso l’esilio in Giordania, in Libano, in Egitto, è lo stesso termine in arabo che in ebraico designa lo sterminio nazista, la Shoah. E anche ridesta il ricordo della cacciata degli ebrei dalla Spagna cattolica del 1492, vissuta dai protagonisti come catastrofe, cesura tra una vita normale e un’altra che si profila come abisso ignoto per gente raminga. Quando ho lavorato in Libano nel 2006, dopo la guerra con Israele, ho scoperto con sgomento che dopo decenni i palestinesi rifugiati a Beirut dal 1948 non hanno documenti regolari, non hanno un passaporto, non frequentano le stesse scuole dei libanesi, non hanno gli stessi diritti degli autoctoni. Abitano in quartieri separati, ancora chiamati “campi”, senza nemmeno i servizi di raccolta della spazzatura.

Copertina del libro/film di Claude Lanzmann

Il complesso di colpa occidentale verso gli ebrei era evidente (ed emblematico, quasi patologico ancora oggi soprattutto in Germania), ma nessuno dei potenti di allora è esente da responsabilità. Sulla voluta cecità di fronte ai campi di sterminio nazisti e il rifiuto di intervenire per tentare di fermare le deportazioni e i massacri, quindi sulla sostanziale complicità degli Alleati “occidentali” di allora nel genocidio di ebrei e zingari, la testimonianza di “un giusto” polacco, Jan Karski, parla chiaro. Il libro La mia testimonianza di fronte al mondo non lascia dubbi: dopo essersi infiltrato nel ghetto di Varsavia ed esserne uscito indenne, testimone dei piani e dei metodi dei nazisti, Karski sconvolto cercò di informare gli Alleati di ciò che stava accadendo agli ebrei, arrivò fino a Roosevelt, ma non ebbe mai risposta. Nel 1944 Jan Karski, disperato, scrisse il suo libro di denuncia. Tragico e cinico parallelismo con il presente; il genocidio a Gaza si dipana giorno per giorno davanti ai nostri occhi ma chi potrebbe fermare l’esercito di Israele, in primis il Presidente degli Stati Uniti, che detiene il potere esecutivo, continua a inviare armi per i massacri, in compenso “è estremamente preoccupato”. Tralascio il quadro più ampio del conflitto che è sull’orlo di una possibile deflagrazione mediorientale. Un mondo perfetto, che impara dalla storia.

Dopo la vittoriosa guerra del 1967 contro vari stati arabi, Israele occupò Gerusalemme Est, il Sinai (poi restituito all’Egitto), la Cisgiordania, il Golan siriano e le fattorie di Shebaa libanesi, e si acuì l’attrito perenne di bassa intensità con la popolazione palestinese, fino alla prima Intifada del 1987, la cosiddetta rivolta delle pietre, che lentamente portò a quella che sembrava la tappa decisiva per una pacificazione duratura: l’Accordo di Oslo del 1993. Accordo che si è rivelato una trappola mortale per la Palestina, un “processo di pace” truffaldino trasformato quasi subito in strumento di nuovo accaparramento di terre palestinesi da parte di Israele, patrocinato ormai dagli Stati Uniti di default. Il grande intellettuale palestinese Edward Said lo comprese subito. In un articolo presumibilmente scritto a fine 2000 scriveva: “L’idea di fondo è che, se gli ebrei hanno ogni diritto alla “terra d’Israele”, ne consegue che in quell’area geografica a chi non è ebreo non spetta alcun diritto. Niente di più semplice e di più ideologicamente unanime.”[7]

Michel Warschawski, in A Precipizio, Bollati Boringhieri, 2003, scrive : “L’11 settembre 2001 ha chiaramente permesso alle autorità israeliane di estendere l’uso del concetto di guerra e ha conferito una nuova legittimità ai più brutali metodi repressivi in quanto l’attentato contro le Twin Towers ha offerto all’amministrazione americana l’occasione per creare un nuovo codice giuridico-politico di portata planetaria, nel quale la guerra contro il terrorismo giustifica quasi tutto, dai bombardamenti di popolazioni civili per snidare i terroristi fino alla guerra preventiva, passando per la sospensione dei diritti costituzionali e dei diritti umani, come mostrano gli orrori del campo di Guantanamo.” (pagg. 215/16). E, a proposito di guerra come concepita negli anni post 1990 e tanto più post 2001, Alberto Asor Rosa, nel suo libro La Guerra (Einaudi 2002) presenta una collazione di suoi scritti dal 1991 al 2002, sostanzialmente sul passaggio dalla cosiddetta guerra fredda alla guerra calda. Nel primo saggio sceglie il tema dell’Apocalisse di San Giovanni come filo conduttore della sua riflessione. “In ogni profezia ricorrono questi elementi: c’è una situazione eccezionale, di potenziale, incombente catastrofe; questa situazione è contraddistinta da una straordinaria inabilità complessiva, dalla perdita della capacità di vedere e soprattutto di vedersi[8]…L’Apocalisse-rivelazione diviene la rivelazione-catastrofe, perché Giovanni è persuaso che la legge imponga all’umanità un prezzo – altissimo- per “risarcire” la sanguinosa redenzione….L’apocalissi  ci scorre sotto gli occhi ogni giorno – e non ce ne avvediamo. Tutto, in fondo, è così semplicemente e sovranamente chiaro – e tutto è così indecifrabile e oscuro. Siamo di fronte al caso veramente straordinario di una “rivelazione non rivelata”. Per questo i massacri sono di fronte ai nostri occhi, - e noi non li scorgiamo[9]. Aggiungerei io oggi, li vediamo come automi, le nostre retine registrano le immagini (se gli occhi sfiorano schermi anodini e pudichi), i nostri timpani intendono le notizie (se le odono) ma i cervelli sono come scollegati, non vogliono sapere, non vogliono comprendere. Dal 7 ottobre scorso, è vero, ci sono state proteste, manifestazioni, arresti di dimostranti, persino una immolazione-suicidio. Il venticinquenne Aaron Bushnell, ebreo, militare, ha indossato la sua divisa e si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana di Washington, continuando a gridare Free Palestine, Palestina libera, mentre le fiamme lo avvolgevano. Apprendo che a Jericho i Palestinesi gli hanno dedicato una strada. Ha espresso con il supremo sacrificio della sua giovane vita l’orrore che ogni essere umano degno di questo nome dovrebbe provare, ha espresso il rifiuto di vivere in un mondo immondezzaio.

Concludo con alcune testimonianze raccolte dai giornalisti militanti di B’Tselem tra ex prigionieri delle carceri-lager israeliane negli ultimi mesi. Si noteranno gli echi tra le loro parole e quelle degli ebrei dei lager nazisti citati precedentemente, sinistro controcanto: nei loro aguzzini lo stesso supremo disprezzo per la vita umana, le stesse privazioni, la fame cronica, le botte e le ingiurie. Certo non ci sono le camere a gas e le tonnellate di cenere menzionate da Robert Antelme. Ma ci sono le migliaia di tonnellate di case, scuole, ospedali, università, centri culturali, giardini ridotti in cenere da bombe internazionali, sotto le macerie giacciono migliaia di corpi stritolati, marciti, ci sono i chili di membra spaiate raccolte e seppellite se c’è ancora spazio nei cimiteri di Gaza polverizzata. Colpisci cento civili rifugiati per sperare di uccidere un terrorista, questa la filosofia militare di Israele. I nazisti chiedevano, prima di riempire i vagoni diretti ai lager: Wiefiel Stück? Quanti pezzi? La stessa disumanizzazione impera all’interno delle IDF, l’esercito israeliano. “Sono annoiato e sparo”, dice un soldato.[10] Si uccide una persona per uccidere la noia.

Fouad Hassan

Il Rapporto di B’Tselem ha questo titolo: Welcome to Hell, (Benvenuti all’inferno. Il sistema carcerario israeliano come rete di campi di tortura.). [11] L’organizzazione ha raccolto le parole di 55 detenuti che da quel sistema sono usciti vivi.

Testimonianza di Fouad Hassan, 45 anni:

“Vivo con la mia famiglia nel villaggio di Qusrah, a sud-est di Nablus, lavoro nella zona di Jericho, raccolgo datteri. Il 4 novembre 2023 mi sono svegliato alle 2 di notte, sentendo delle voci vicino alla nostra casa. Guardando dalla finestra della camera da letto ho notato dei soldati che cercavano di far saltare la serratura della porta di casa…Hanno fatto irruzione in casa, erano più di 15, hanno puntato i fucili contro mia moglie e i miei figli (15, 13, 10, 2 gemelli, e 6 anni). Hanno frugato dappertutto gettando le cose a terra…poi mi hanno portato fuori e chiesto di mio fratello Ibrahim. Io ho risposto che non sapevo dove fosse. Alcune jeep erano parcheggiate a circa 200 metri dalla casa. Mi hanno messo le manette e sono stato bendato…Dopo circa un’ora sono stato trasferito al campo militare di Huwarah. All’entrata sono stato perquisito, costretto a denudarmi e mi hanno passato su tutto il corpo un metal-detector tenuto a mano, c’erano altri detenuti. Durante questa operazione i soldati ci davano calci, bestemmiavano e ci umiliavano. Ho passato una notte a Huwarah. Il giorno seguente siamo stati portati a Salem. Andando verso l’autobus dovevamo stare curvi in avanti e mettere le mani sulla schiena di chi ci stava davanti. Sull’autobus avevamo mani e piedi legati, i soldati ci picchiavano, bestemmiavano e ci dicevano: “Vediamo quanto vi aiuterà ora la Resistenza”. Siamo stati trasferiti alla prigione di Megiddo. Quando stavamo uscendo dall’autobus un soldato ci ha detto: “Benvenuti all’inferno”.

Fouad Hassan sarà picchiato, avrà tre costole rotte, perché si rifiuta di baciare la bandiera israeliana come gli ordina durante l’interrogatorio il funzionario dello Shin Bet.  In 20 lo picchiano. Sviene e quando recupera i sensi “Ho visto che tutto il mio corpo era coperto di sangue…” Intorno sente che dicono: E’ morto è morto…” In cella eravamo in 12 ma c’erano solo 4 letti, gli altri dormivano a terra su materassi sottili, con coperte leggere. Abbiamo sofferto terribilmente per il freddo, le finestre erano aperte, siamo stati con gli stessi abiti per parecchie settimane”. Quando cercavano di lavarli, occorreva molto tempo perché si asciugassero. “Non potevo dormire perché accendevano la luce dalle 7 di sera alle 5 della mattina. Il cibo era terribile, appena un po’ di risoconfiscavano il cibo che gli stessi prigionieri compravano allo spaccio della prigione”. Hassan ha dolori dappertutto, chiede di essere portato in infermeria ma glielo negano e gli danno una compressa di Tylenol quotidiana, che lui non prende e destina a un compagno prigioniero di Balatah, R.C., che “era seriamente ferito, con piaghe aperte, soffriva terribilmente, ma riceveva soltanto della crema una volta alla settimana che bastava solo per una applicazione… I materassi e le coperte erano sporchi e puzzavano”, cercano di pulire la cella con shampoo e pasta dentifricia. Gli appelli dei prigionieri sono frequenti, punteggiati di violenze. “Eravamo contati tre volte al giorno, le guardie urlavano, ci facevano spogliare e uscire in corridoio mentre perlustravano le celle”. I prigionieri restavano lunghi periodi senza avere accesso a un legale e a un giudice. Quando ciò avveniva, era solo via remoto, attraverso Zoom, e inoltre i prigionieri non potevano parlare liberamente perché una guardia che conosceva l’arabo era sempre presente.

Testimonianza di Firas Hassam, 50 anni, 4 figli, residente di Hindaza, distretto di Betlemme, detenuto nella prigione del Negev. 

Durante l’udienza (su Zoom) l’avvocato mi ha chiesto: “Hai subìto violenze in carcere? Io non ho osato rispondere perché avevo paura che le guardie me l’avrebbero fatta pagare…ogni volta che mi conducevano nella stanza dove si svolgeva la nostra udienza via Zoom sopportavo lo stesso percorso di torture botte e umiliazioni. Per tutti i prigionieri era la stessa cosa. Il 13 ottobre 2023 è stato approvato un nuovo regolamento di emergenza, in seguito prolungato varie volte, che permette di dilazionare la presentazione del prigioniero a un giudice fino a 75 giorni (prima il termine era di 14 giorni) per i “combattenti illegali” durante una guerra o una operazione militare”.

Ashraf al Muhtaseb

Estratto della testimonianza di Ashraf al Muhtaseb, 55 anni, padre di 5 figli, residente nel distretto di Hebron, detenuto nella prigione di Etzion, e successivamente nelle prigioni di Ofer e Negev. “Ci hanno costretto a non dormire per molto tempo. Dopo il 9 ottobre tutti i diritti sono stati aboliti nelle prigioni israeliane.”

“Mi sono appoggiato a una parete. Avevo le costole rotte e la spalla destra, il pollice destro e un dito della mano sinistra feriti. Non sono riuscito a muovermi e a respirare (correttamente) per mezz’ora. Tutti intorno a me urlavano di dolore e alcuni prigionieri piangevano. Molti sanguinavano, era un incubo inesprimibile “.

Testimonianza di Sami Khalili, 41 anni, di Nablus prigioniero dal 2003, detenuto nella prigione del Negev (Ketziot)

Sono stato arrestato il 10 febbraio 2003 e condannato a 22 anni di prigione per ragioni di sicurezza. Il periodo di prigionia è terminato l’8 febbraio 2024. In quegli anni ho cambiato molte prigioni: Ashkelon (Shikma), Shata, Gilboa, Megiddo, Eshel, Ramon, Keidar, Hadarim e Negev (Ketziot). Ne ho viste di tutti i colori. Fino alla guerra[12] sono stato nella prigione del Negev, e le condizioni non erano male. Quando è scoppiata la guerra, sono stato trasferito il 15 ottobre 2023 con gli altri prigionieri in altre celle. E’ stato l’inizio del nostro calvario. Eravamo circa 1050 prigionieri appartenenti a Hamas o a Al Fatah. Sono stato trasferito in un’ala con altri 110 prigionieri. Quella mattina alle 6 abbiamo sentito i prigionieri in altre ali della prigione urlare come se li scannassero. Non era accaduto niente di simile finora. Chi stava nella nostra ala ha cominciato a piangere pensando a quello che ci poteva capitare. Alcuni sedevano in un angolo e piangevano. Sentivo le guardie che maledicevano i prigionieri, le loro madri e sorelle. Sentivo i prigionieri che supplicavano le guardie di smettere: Per amor di Dio, basta!

Sami Khalili

“Tre ore dopo sono arrivate le guardie per farci sgomberare. Sono arrivati rinforzi esterni …che hanno fatto irruzione perquisendo con le armi puntate. Ci hanno fatto uscire dalle celle e siamo stati picchiati, ci hanno portato via i nostri effetti personali, comprese le lettere di mia madre deceduta, documenti e articoli. In prigione io studiavo per un Master’s degree. Hanno gettato fuori tutto il cibo che avevamo, olio per friggere, olio d’oliva, spezie. Ci hanno obbligato a camminare curvi in avanti. All’inizio non capivo perché, poi ho capito che era una provocazione per avere la scusa di attaccarci se avessimo resistito.”

Il rapporto di B’Tselem denuncia che almeno 60 prigionieri sono morti in cella (presumibilmente dal 7 ottobre 2023). “Le testimonianze chiaramente indicano una politica istituzionale sistematica di continue torture e abusi di tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri di Israele”, cito dal Rapporto. 

Nel mio archivio personale trovo un (mio) articolo scritto nel 2002, nel quale cito la frase riportata dal quotidiano ebraico Ha’aretz[13] del 25 gennaio del 2002 per la penna del suo corrispondente militare Amir Oren, che citava un ufficiale israeliano il quale sollecitava l’esercito ad “analizzare e a fare proprie le lezioni su come l’esercito tedesco combatté nel Ghetto di Varsavia”, riferendosi a un rastrellamento a Nablus.  E menzionavo il comportamento di alcuni soldati delle IDF, esercito israeliano, che secondo quanto riportava Amira Hass su Ha’aretz del 18 giugno 2002, sono “persino riusciti a defecare sulla fotocopiatrice” dentro gli uffici del Ministero della Cultura Palestinese di El Bireh. Già allora le IDF avevano dei problemi di galateo militare. Non riesco a immaginare a quale futuro guardino i volenterosi boia locali e i loro complici internazionali che appoggiano e incoraggiano la carneficina a Gaza e in Cisgiordania, e mirano a infiammare tutta l’area medio-orientale. Tanto peggio tanto meglio?

 

Tende a Gaza



[1][1] Ella Shohat, Cesura o ritorno? Un punto di vista Mizrachi sul discorso sionista. In AA.VV. Ebrei arabi: terzo incomodo? a cura di Susanna Sinigaglia, Zambon editore, 2013

[2] Breviario dell’Odio

[3] Per l’ebraismo si è ebrei solo se generati da madre ebrea, l’ebraismo da questo punto di vista è matrilineare.

[4] Ogni prigioniero/prigioniera era marchiato/a con un numero, e solo quel numero denotava la sua identità.

[5] Corsivo mio. Questo fatto è il nucleo fondamentale alla base del conflitto secolare, il tragico paradosso, l’oltraggio fatale. Ci sono stati intellettuali ebrei, come Judah Magnes, primo rettore dell’Università di Gerusalemme e anche Hanna Arendt in seguito, fautori di uno Stato unitario con cittadini con uguali diritti, ipotesi subito completamente archiviata.

[6] W. Khalidi, citato in Benny Morris, Vittime, Rizzoli, 2001, pag. 238.

[7] Edward Said. ”E’ ora di impegnarsi sull’altro fronte”, in Fine del Processo di pace. Palestina/Israele dopo Oslo, Feltrinelli, 2002.

[8] A questo proposito viene in mente che l’etimologia di “vedere” proviene direttamente dal sanscrito, radice sanscrita drs, da cui l’aggettivo darsana significa “che mostra, che insegna, che rivela”. Da cui i libri sacri indiani Veda. Il veggente è colui che vede ciò che gli altri non vedono. Vedere come capire.

[9] La guerra, pag. 64/65.

[10] https://www.972mag.com/israeli-soldiers-gaza-firing-regulations/

[11] https://www.ilpost.it/2024/08/06/btselem-rapporto-abusi-carceri-israeliane-palestinesi/

[12] Chiaramente si riferisce al 7 ottobre 2023

[13] Unico quotidiano sul quale possono scrivere i giornalisti che criticano Israele