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martedì 1 ottobre 2024

TIANXIA O NON TIANXIA QUESTO E' IL PROBLEMA

 

UNA FEROCE FORZA POSSIEDE IL MONDO E LA CHIAMA DIRITTO[1]

Mappamondo borgiano
 

Questo scritto nasce dalla riflessione sulla pertinenza di alcune categorie del pensiero del grande antropologo e filosofo Ernesto de Martino, categorie desunte sia da una vasta analisi di varie ricerche etnografiche, sia dalle proprie ricerche di campo nel sud Italia, per leggere il presente, interpretare in una cornice plausibile, intellegibile, il caos che sembra sovrastarci. Caos che nasce dal ventre verminoso di mali antichi del mondo ormai bollato occidentale, Europa e America settentrionale, degna filiazione della violenza di Francisco Pizarro e Hernán Cortez, quindi di abomini come la conquista dell’America meridionale e l’azzeramento delle grandi civiltà autoctone, lo sterminio delle rispettive popolazioni, la tratta atlantica degli schiavi e lo schiavismo, il colonialismo, l’Inquisizione, i nazionalismi, il nazismo, il fascismo, la persecuzione secolare delle minoranze. L’impresa delle Crociate aveva inaugurato la serie delle spedizioni prevaricatrici all’insegna di un cristianesimo armato. Forse le radici di questa vera e propria furia conquistatrice ed espansionista si possono far risalire all’Impero romano, ma non essendo storica mi fermo qui, però non può non colpire il divario netto rispetto alle pur antichissime e dispotiche civiltà orientali, che si accontentavano di guerre locali.

Il XXI secolo, l’inizio dello strombazzato terzo millennio è già vecchio, e rischia di imitare in peggio il XX.

L’ultimo libro di De Martino, uscito in due edizioni ambedue postume, La fine del mondo, sottotitolo, Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, è un’opera complessa  di larghissimo respiro, nella quale confluiscono e si articolano ulteriormente speculazioni e concetti che mi sembrano utili strumenti per tentare di comprendere meglio l’attualità e le nostre reazioni di fronte ad essa, attenuando il mal-essere, le paure, lo sgomento che provoca la visione di un disordine mondiale crescente, di distruzioni apocalittiche, di montagne di morti di civili inermi che non trovano argini né limiti in nessuna istanza giuridica, politica, umanitaria sovranazionale.

Viene in mente la pagina di Dostoevskij de “I Fratelli Karamazov”: “Se Dio non c’è tutto è permesso…tutto si rinnoverà. Gli uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio titanico e apparirà l’uomo-dio.” Vivendo in società secolarizzate, possiamo sostituire la parola Dio con diritto internazionale umanitario, leggi di convivenza civile, ethos universale, corpus giuridico universalmente valido, ma abbiamo non l’apollinea visione di felicità e armonia di in uomo-dio di Ivan Karamazov, ma una giungla popolata di belve feroci in cui il concetto stesso di umanità è sommerso dalla violenza pura, indiscriminata. E’ il panorama offerto dall’attualità in cui uno stato microscopico come Israele si arroga il ruolo di mosca cocchiera dei potenti Stati Uniti, gode di una impunità totale mentre compie stragi infinite con lo scopo neanche tanto camuffato di annientare popolazioni intere, non eserciti nemici. Una risibile “comunità internazionale” che dopo l’invasione dell’Ucraina da parte russa si era affrettata a comminare sanzioni, emettere mandati d’arresto esecutivi, isolare in ogni modo la Russia, continua ad avallare una narrazione israeliana menzognera quanto diabolica, di “guerra di difesa”. Ma possiamo risalire nel tempo, in quanto a sgretolamento di ogni remora del diritto internazionale post-1945, con la guerra al terrorismo di Bush figlio, l’istituzione del campo di Guantanamo, le extraordinary renditions, l’invasione dell’Iraq. Da qui la sensazione di un “nessuno ci salva”. 


Se aggiungiamo a questo scenario lo sconvolgimento di un clima alterato dalla dissennatezza e dalla irresponsabilità umane, il ricorso sempre più frequente alla guerra per dirimere la conflittualità inter-statale, la diplomazia considerata un arnese antiquato e ingombrante, il crollo di tutto l’edificio normativo internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale e la violazione noncurante di diritti che sembravano scolpiti nella pietra, avremo davanti il “panorama scheletrico del mondo”, espressione del poeta Dino Campana. Alla possibile futura apocalissi climatica si affiancano tante apocalissi culturali specifiche, e l’Occidente è la prima responsabile. Il pianeta rischia di esserne travolto. Nella prefazione a La fine del mondo, nella conversazione con Cesare Cases, De Martino esclama: “La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?” [2]


Ti svegli di notte, o un mattino, e il tetto della tua casa non esiste più, o una bomba distrugge la casa di fronte alla tua finestra. Da un momento all’altro devi fare fagotto, scappare per non farti ammazzare, senza riuscire a prendere nulla. Diventi un profugo, un rifugiato, un mendicante. Questo è un esempio estremo, ma è anche l’esperienza di milioni di persone, di un numero crescente di persone, come testimoniano le statistiche dell’UNHCR, il Consiglio dell’ONU per i rifugiati. Allora è non solo l’incolumità fisica che è in gioco, è una mutazione esistenziale catastrofica, la perdita del proprio “esserci” nel mondo, della propria “presenza” in quanto soggetto sociale e politico che si proietta in un futuro plasmabile, prefigurabile, che dipende dal proprio operare. Il soggetto si sente in balia di forze esterne che non riesce a controllare, di avvenimenti contingenti, non esistono più i punti di riferimento abituali, il mondo perde senso e direzione intellegibile. Viene in mente il libro di Chinua Achebe sull’arrivo degli coloni inglesi in un villaggio della Nigeria all’inizio della conquista coloniale, terminata il 1° gennaio del 1900: Things fall apart (il mondo si sbriciola), nella edizione in francese che ho: Le monde s’effondre, il mondo crolla. La problematica diviene ontologica. E’ il proprio io che barcolla.

La nozione di “crisi della presenza” è elaborata da De Martino ne Il Mondo Magico, ma diventa uno dei più originali strumenti interpretativi attraverso tutta la sua speculazione teorica successiva. “Nel mondo magico noi siamo introdotti in un’epoca storica in cui l’esserci non è ancora deciso e garantito, e in cui la difesa dal rischio di non esserci mette capo a una creazione culturale che realizza effettivamente il riscatto da questo rischio. Il “non esserci” significa l’impossibilità dell’individuo di agire in una situazione data, specialmente di crisi, per risolverla, una posizione di incertezza e precarietà esistenziale che mettono in forse il suo essere nel mondo, il suo mondo.  La presenza in senso antropologico, è intesa come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica, attivamente attraverso l'iniziativa personale e andandovi oltre attraverso l'azione Allora, dice De Martino, in questo spaesamento, smarrimento di sé, in società prevalentemente agrarie o pastorali, ci si salva dal baratro ricorrendo a pratiche culturali rituali che riescono a esorcizzare la crisi, che può coinvolgere un singolo, o attanagliare un intero gruppo sociale. Il rito sanzionato dalla tradizione in cui tutta la comunità si riconosce restituisce senso e significato alla crisi, c’è il riscatto sia individuale che collettivo a seconda delle circostanze. Pensiamo al ruolo svolto dai canti e riti notturni degli schiavi americani, dal tramonto all’alba, al candomblé e alla santeria brasiliani. E al rito coreutico- musicale nel tarantismo pugliese.

Rito coreutico-musicale in Puglia per una tarantata

 

Nel nostro mondo secolarizzato, individualistico, atomizzato, nel quale si sono allentati anche i legami familiari e di gruppo, non ci sono miti né riti, l’individuo è scaraventato nelle crisi senza reti di protezione, la realtà una volta familiare improvvisamente appare indecifrabile e inconsulta. E l’apocalissi culturale, la sensazione di crollo di ogni regola del viver civile può provocare, sul piano individuale, quelle che De Martino chiama apocalissi psicopatologiche. Non si è più “appaesati”, ma spaesati.

La “crisi della presenza” come accennata succintamente più sopra si riallaccia a un’altra nozione chiave demartiniana che mi sembra adatta a interpretare la sensazione di impotenza che proviamo di fronte ad una realtà ostile e minacciosa che ci sovrasta e mina la nostra capacità di “esserci”, di agire di conseguenza: l’operabilità di una presenza che “sta garantita in cospetto di un mondo trattenuto nei suoi cardini”. Quando il mondo esce dai suoi cardini e ci appare come una entità mostruosa e divorante, irriconoscibile, la sensazione di incapacità di modificare quella realtà, ci opprime e paralizza. Oppure, pur agendo o cercando di agire, abbiamo l’impressione di un affannarsi sconclusionato che non incide, che non riesce a cambiare nulla rispetto alla propria volontà. La realtà non si lascia intaccare, la situazione che vorremmo cambiare permane inalterata o peggiora. L’individuo si trova in balia degli avvenimenti esteriori, travolto, cerca solo di restare a galla. E non solo la capacità di agire consapevolmente e con efficacia, in una collettività consenziente e accogliente, viene a mancare, ma talvolta anche la capacità di decifrare la stessa realtà, di capacitarsi del perché e percome “quegli” avvenimenti si susseguono. E’ possibile allora il naufragio, la resa psicopatologica.

Tianxia, unico rimedio possibile al male del mondo

Pensiamo a quel che hanno vissuto e vivono gli abitanti di Gaza nell’ultimo anno, vagando di fuga in fuga, sotto le bombe giorno e notte incessantemente, perdendo la casa, i propri cari, figli, genitori, parenti e amici, in una società tradizionalista dove ancora una famiglia conta decine di membri abitualmente, perdendo tutto il proprio passato: è la perdita di sé, la riduzione alla pura sopravvivenza biologica, se si riesce a sopravvivere di ora in ora, di minuto in minuto. In ogni secondo si può morire. La sequela di risoluzioni delle più alte istanze internazionali non ha scalfito minimamente il progredire dell’aggressione. Pochi giorni fa l’ennesimo chiacchiericcio sulla proposta di un cessate il fuoco in Palestina all’ Assemblea delle Nazioni Unite ha preceduto di un’ora l’ok al bombardamento di un quartiere della capitale, Beirut, di uno stato sovrano, il Libano, bombe che miravano a colpire principalmente un uomo, Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah. Mentre il Presidente degli Stati Uniti assicurava di stare lavorando per raggiungere un accordo tra Israele e Hamas, per fermare l’aggressione in Libano, Israele usava due super-bombe gentilmente fornite dallo stesso Presidente per aizzare la guerra sui due fronti, Palestina e Libano. E’ il dileggio più abietto dell’ONU, che ormai conta come il proverbiale due di picche, una politica delirante. Per concludere questo triste excursus torno al titolo e al concetto cinese di Tianxia, che significa “sotto un unico cielo”. Ho scoperto Tianxia grazie al libro del fisico Carlo Rovelli Lo sapevo, qui sopra il fiume Hao. Carlo Rovelli cita a sua volta il libro del filosofo politico cinese Zhao Tingyang Il sistema Tianxia, una filosofia per le istituzioni mondiali. Si suggerisce, in poche parole, che in campo internazionale la collaborazione e l’inclusione sono più vantaggiose che non la competizione e l’esclusione. In un pianeta che deve fronteggiare il pericolo di un collasso della vivibilità grazie al riscaldamento del clima, come dimostrato da siccità e inondazioni via via più violente e distruttive, una politica aggressiva di competizione e di riarmo è la migliore ricetta per l’implosione. Il minuscolo atomo del male che galleggia in un universo smisurato di milioni di miliardi di stelle potrebbe rendersene conto. Sotto un unico cielo c’è un’unica via da percorrere: collaborare per evitare il collasso. Se i dinosauri sono stati cancellati da una meteorite, noi non ne avremo bisogno per sparire.



[1] Chiaramente, da Adelchi

[2] Grassetto mio

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