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mercoledì 7 maggio 2025

I LUOGHI DELL' ANIMA: TANGLEWOOD

 

TANGLEWOOD

 

Il Vaso di Pandora *

Per molti anni durante la mia infanzia, ma anche oltre, avevo cercato di immaginarmi Tanglewood.

Era il luogo che Nathaniel Hawthorne[1] aveva scelto come sfondo per il suo libro di storie meravigliose, intitolato (in italiano beninteso) appunto Storie Meravigliose dell’Istituto Editoriale Italiano, nella collana Biblioteca dei ragazzi. Era un libro di mia madre, che ho conservato in tutti gli innumerevoli traslochi, sfuggito anche a un forte terremoto, che ora avrà più di cent’anni. La bella rilegatura argentata ha un po’ ceduto, ma le pagine un dì cucite ci sono tutte, pur ballerine alcune.

Sono i miti greci, rivisti e rinarrati in salsa New England nel 1851, il cui titolo inglese apprendo ora consultando Wikipedia, è: A wonder-book for girls and boys, libro che in me scatenava l'immaginazione con avventure e personaggi così favolosi, così straordinari, che non mi stancavo mai di riascoltare quelle storie, prima lette al nostro capezzale da mia madre durante le benedette influenze che mi costringevano a letto (senza dover andare a scuola), e poi per anni sfogliate e rilette fino a saperle quasi a memoria. Giasone e il Vello d’Oro, i Denti del Drago che seminati da Cadmo in un campo si tramutavano in temibili guerrieri armati di tutto punto, Perseo e la Gorgone Medusa dai capelli di serpemti che trasformava in pietra chiunque la guardasse, il Labirinto dove scalpitava il Minotauro che annualmente divorava una fanciulla cretese, l’albero dalle mele d’oro, il vaso di Pandora e la Chimera. E poi c'erano i cattivi re che usurpavano il trono dei legittimi eredi cui spettava il compito sacrosanto di riconquistarlo attraverso imprese di immani difficoltà. Quando poi a scuola incontrai i miti greci spogliati di quella vernice di disinvolti ricami fantasiosi mi sentii quasi defraudata. La cornice delle narrazioni, il bosco di Tanglewood, in cui le belle favole erano ambientate, era diventata per me inscindibile dalle storie. Tanglewood, letteralmente “bosco intricato”, era un luogo fantastico e affascinante che credevo inventato, inesistente. Anche il nome pronunciato aveva un che di magico.

La Chimera

E così quale fu la mia gioia quando scoprii che, lungi dal trovarsi nell’iperuranio della fantasia di Hawthorne, Tanglewood era un luogo ben piantato sulla terra, e si trovava a poca distanza da Amherst dove abitavo, nel New England, ed era raggiungibile in poche ore con un autobus la cui fermata era quasi sotto casa e non volando verso l’isola che non c’è. Lo raggiunsi inaspettatamente la sera di Natale del 1983. Fu così che accadde.

La Maga Circe

Mi trovavo a Amherst per un Master all’Università del Massachusetts con mio figlio allora tredicenne. Stavo finendo il primo Fall semester (che poi durava meno di 4 mesi, da settembre a dicembre) e per tutta la notte del 23 dicembre avevo battuto a macchina l’ultima tesina per il quarto corso frequentato, prima delle vacanze di Natale che poi si protraevano fino al semestre di primavera che iniziava in febbraio. Una tesina ambiziosa, in cui volevo dimostrare la superiorità del regime socialista di Nyerere in Tanzania rispetto a quello “capitalista” di Kenyatta in Kenya. Di fatti si trattava di tirare un po’ per i capelli, per così dire, la realtà storica. Le Ujamaa tanzaniane, cioè le fattorie collettive, già a fine anni 1970 avevano rivelato un bilancio deludente; l’ideologia socialista che aveva già fallito nelle campagne sovietiche con i kolchoz, le aziende agrarie collettive, non aveva avuto molto miglior sorte nelle campagne africane, nonostante tutta la buona volontà, l’impegno, l’onestà intellettuale e la drittura morale dei dirigenti, in primis di Julius Nyerere, ben diversamente che in Kenya. E poi la Tanzania era parte della cosiddetta “Linha da Frente”, cioè i paesi che lottavano contro il Sudafrica dell’apartheid e, prima che cadesse, il regime di Smith in Rhodesia spalleggiati (ovviamente) dagli Stati Uniti. Solo un anno prima avevo lasciato il Mozambico, anch’esso punta di lancia della Linha da Frente.  Quindi ci tenevo proprio ad arguire la mia tesi adducendo tutte le prove reperibili.

Gli Argonauti

 A questo scopo avevo tesaurizzato una serie di argomentazioni ricavate da letture di autorevoli critici e mi ero sforzata di non trascurarne nessuno. Per cui mi ritrovai con le mani rattrappite dal freddo a battere sui tasti della mia Lettera 32 Olivetti ora dopo ora dalle 11 di sera alle 7 della mattina, quando esausta conclusi, misi insieme i numerosi fogli e li sbattei in una cartellina colorata. Finito. Dopo colazione mi precipitai a consegnare il plico alla segreteria della facoltà, miracolosamente aperta per tutta la mattina, e cominciai a sentirmi non solo molto leggera, ma anche in vacanza. Cosa facciamo, dopo tutto è Natale. E miracolosamente, non ricordo come, appresi che nel primo pomeriggio ci sarebbe stata una corriera per…Tanglewood, piccolo centro del Massachusetts occidentale, contea di Lenox, a circa 84 km da Amherst. Fu un colpo di fulmine: ecco dove passeremo il Natale, nel luogo incantato dei ricordi della mia infanzia.

 In fretta e furia preparammo il bagaglio, con mio figlio allegro per la prospettiva di poter sciare, io raggranellai le nostre finanze sperando di poterci permettere almeno due o tre notti d’albergo, e filammo di corsa alla fermata d’autobus, in mezzo alla neve che cadeva abbondante. Arrivammo ad un albergo la sera e trovammo una stanza libera: ancora ricordo, costava 70 dollari, una piccola fortuna, ma mi rassicurai, mi bastavano i soldi per almeno due notti. Già si stava cenando, ci affrettammo a sederci anche noi, e ricordo (anche) che come entrée ci servirono una alquanto inaspettata minestra di cranberries (mirtilli rossi) o altre bacche simili, acidule, deludente per una fantastica cena di Natale al tanto agognato Tanglewood.[2]

Ma per me si era avverata un perfetta magia: nel biancore perlaceo del paesaggio, tra gli abeti carichi di morbida spuma nevosa che troneggiavano nella notte, mi sembrava di entrare nel libro della mia infanzia e saltare di pagina in pagina, ritrovando la nave degli Argonauti e lo specchio di Perseo: annegai in un sonno totale dimenticando le fatiche della notte precedente. Avevo fatto tana, come a nascondino.

 

Le Gorgoni

 * Tutte le immagini sono tratte dal libro di Hawthorne.

 

 

 

 

 

 

 



[1] Grande scrittore del puritanesimo protestante americano, conosciuto soprattutto per La lettera scarlatta e La casa dai sette frontoni

[2] Quanto ai gusti anglosassoni, rievoco anche un’altra cena di Natale e un’altra sorpresa: in Sud Sudan: una suora credo neozelandese o australiana aveva preparato una minestra a base di burro di arachidi. No comment.

martedì 1 aprile 2025

DIVAGAZIONI SUL VIAGGIO

 

LA FINE DEL VIAGGIO VAGABONDAGGIO

Punta del Diavolo, Uruguay *
 

C’è una parola della lingua tedesca che amo particolarmente, Sehnsucht, il cui significato letterale, un amalgama tronco di due lemmi, sarebbe “ricerca di (qualcosa) da vedere, implicitamente, di nuovo, di conoscere quindi. Ma la Sehnsucht contiene anche una sfumatura diversa, che allude a qualcosa di simile alla nostalgia, quindi un tendere al passato più che e oltre che al futuro. E’ nostalgia, desiderio di qualcosa di indefinito, di impalpabile e forse indescrivibile, di cui si sente la mancanza, un vuoto che si vorrebbe colmare. Come se una nuova conoscenza potesse essere mnemosine, conoscenza di qualcosa di già visto e appreso nel mondo delle idee perfette platoniche, prima di nascere, cui tendere per realizzarsi. Io collego la mia Sehnsucht all’idea di viaggio, al desiderio di viaggio come ricerca. Penso che la tendenza al nomadismo sia innata, tendenza che le esperienze possono rafforzare o indebolire, propensione poco resistibile ad un altrove, desiderio contraddittorio di radici rizomatiche, ambulanti. A Sehnsucht associo un termine francese legato agli studi (purtroppo brevi) di filologia romanza, la quête, la ricerca, nel ciclo bretone delle chansons de geste[1]. “La” ricerca per eccellenza, culmine e significato di tutta una vita, è quella del santo Graal, la coppa che ha contenuto il sangue di Cristo. E il simbolo più pregnante nella cultura occidentale della ricerca di verità e di supremo compimento è il “Fermati sei bello!” del Faust. 

Se pur avevo innate potenzialità nomadiche, ci furono due fattori già a fine infanzia che fecero sbocciare la mia Sehnsucht. Nella biblioteca di casa un libro brochure, pesante, dalla copertina verde pallido aveva un titolo che mi ammaliò: “Vento di terre lontane”. Non ricordo neppure l’autore, se lo sfogliai soltanto o lo lessi, forse avevo nove o dieci anni, ma quel titolo evocatore mi rimase fisso in mente per decenni, suscitando desideri di varchi sconosciuti e orizzonti semoventi di terre ignote. Sempre nello stesso periodo, verso i dieci anni, feci il primo viaggio in Umbria con mio padre che era rappresentante di commercio e viaggiava abitualmente con la sua millecento ogni settimana almeno per tre giorni. Fu la prima ebbrezza dell’altrove, paesaggi diversi, incontri, alberghi e ristoranti dove potevi scegliere cosa mangiare e prendere anche il dolce alla fine del pasto. Era settembre e l’Umbria verdeggiava. Appena arrivati nel primo albergo ormai a sera, lasciata sola per un impegno di papà, mi dedicai molto giudiziosamente secondo me a svuotare le due valigette e a mettere ben piegate camicie, pantaloni, gonne e biancheria nei cassetti. Quando arrivò mio padre per andare a cena, gli mostrai orgogliosa la mia fatica, e rimasi malissimo quando mi disse: “Brava, peccato che sia stato inutile perché domattina presto dobbiamo rimettere tutto nelle valigie.” Già, che stupida.

Frutta del drago, così la chiamano

 Con questi precedenti, durante la prima estate che trascorsi a Bornemouth, nel sud dell’Inghilterra, iscritta ad un corso di inglese per stranieri universitari, approfittavo dei fine settimana liberi per fare autostop. Nel primo viaggio, a Oxford, fui ammaestrata da una ragazza tedesca ospitata dalla stessa famiglia dov’ero io, già abituata a viaggiare in questo modo. Metti il dito così, cerca di avere un’aria sorridente e simpatica, suscita il desiderio di conoscerti, se ci sono altri autostoppisti devi sorpassarli e andare in fondo. Insomma, l’ABC del perfetto autostoppista. Funzionò piuttosto bene, raggiungemmo Oxford prima di notte. Mi spaventai quando la mia compagna, per risparmiare i pochi soldi di cui disponevamo, propose di provare a infilarci in qualche chiesa e dormire sui banchi di legno della navata. Per fortuna la convinsi a rinunciare all’idea e trovammo un bed & breakfast. Poi lei finì il corso prima di me e partì, ma io avevo assaggiato ormai la sensazione di libertà che dava lo zaino sulle spalle e la visione inebriante della strada dritta davanti a me, verso mete che potevano cambiare a seconda delle circostanze e dei passaggi (spesso in camion), tutto era nuovo e da scoprire. Dappertutto o quasi la sera riuscivo a trovare un ostello della gioventù, dove con una modesta moneta da sixpence si dormiva in camerata e si aveva una colazione a base di fiocchi di granturco e latte, a prezzo di osservare poche regole ferree, tra le quali quella di disfare il letto e stenderci sopra la coperta. Mi è rimasto in seguito impresso indelebilmente un “papà albergatore” dell’ ostello di Colonia, in Germania, che quando stavo uscendo la mattina (sempre prima delle 9.00 per regolamento), mi fermò con cipiglio minaccioso e mi fece tornare in camerata, davanti al letto che avevo occupato e rifatto come dovuto. Lo guardai con aria interrogativa e lui mi disse seccamente: “Gerade!”  In tedesco, “Dritto”!. Guardai meglio e vidi una piegolina nella coperta che copriva il materasso, che andò premurosamente allisciata. Pensai che dovesse essere stato un guardiano in qualche campo di concentramento durante la guerra.  

Per anni ho avuto la tessera internazionale della rete degli ostelli della gioventù, perché per anni durante le vacanze di studio in Inghilterra girai qua e là, allungando sempre più il week-end, fino al mercoledì, quando mancò poco che le mie amiche di Milano non denunciassero la mia sparizione alla polizia.

Da allora si formò nella mia testa il concetto di viaggio che faceva rima con vagabondaggio, con mete via via cangianti, svagate, il viaggio-scoperta inaspettata, tutto il contrario del viaggio pianificato. Il che, convengo, ha qualche volta comportato spiacevoli sorprese che tali non sarebbero state se mi fossi peritata di leggere una guida o chiedere informazioni previe. Una certa improvvisazione però vuol dire anche Il gusto di saltare (con successo) su una barca all’ultimo momento mentre già ha cominciato a staccarsi dalla banchina (a Zanzibar), arrivare su un motorino periclitante su un sentiero sabbioso in un meraviglioso hotel nell’isola di Pemba che aveva stanze che davano sulla spiaggia e sull’oceano, senza la parete verso il mare, di modo che sembrava di dormire sospesi sul mare pur comodi in un letto a due piazze. Purtroppo significa anche perdere il traghetto per un ultimo caffè (isola di Inhaca in Mozambico), dormire sulla spiaggia in Costa Azzurra, o su una panchina a Villahermosa in Messico o a Roma. Beh, questi sono esempi limite, e per fortuna erano altri tempi, in cui non rischiavi di diventare un falò perché dei teppisti si vogliono divertire a vedere una presunta barbona andare a fuoco. 

In anni assai più recenti, una volta cessati gli ingaggi di lavoro in giro per il mondo che spesso sono stati abbastanza avventurosi per i miei gusti, e con qualche soldo in più in tasca, ho fatto viaggi che duravano in media tre mesi dove la meta sicura era la prima, dato che un biglietto sia in nave, treno o aereo lo devi pur comprare prima dipartire. Per decenni non ho avuto un’auto privata e ho usato sempre solo trasporti pubblici. Non esistendo ancora internet né cellulari, arrivata alla meta abitualmente verso sera, cercavo e trovavo sempre un ricovero notturno, hotel preferibilmente modesti data la durata dei miei vagabondaggi. Il bello era che non dovevi preoccuparti di prenotare, il che sarebbe stato complicato se non si sa ancora dove e quando arrivare. Mi piaceva scegliere a naso una zona che mi piacesse e un albergo dall’aspetto familiare e accogliente. Viaggiando in periodi dell’anno di stanca turistica, il gioco era fatto. Ma tutto questo è ormai tramontato in pochi anni alla velocità della luce. Aerei pieni come uova, treni e autobus simili a vagoni merci, spariti in treno gli scompartimenti con comodi sedili di pelle dove era un piacere intavolare conversazione, oppure guardare trasognati lo scorrere del paesaggio mentre cambiava la luce, e leggere in pace. Spariti o quasi i treni notturni con cuccette Oggi, frecce o non frecce, trovi vetture con file monotone di sedili scomodi dove la gente parla ad alta voce, o peggio telefona ad alta voce, sedili ciechi affiancati da pareti invece che finestrini, bagni spesso indecenti, lontani o guasti. Se il viaggio comporta traversata aerea transoceanica e dura dodici ore o più, con coincidenze ravvicinate, si atterra stravolti di stanchezza odiando la ressa che impedisce la progressione rapida verso l’agognata uscita. E tralascio le fatiche dell’imbarco, le attese, le cancellazioni, i controlli, lo svuotamento di borracce con preziosa acqua che devi riacquistare a prezzi da latrocinio ai bar della zona partenza. Naturalmente è indispensabile avere già prenotato un alloggio all’arrivo perché ormai i periodi di stanca turistica non esistono più. E così via ad ogni successiva tappa. L’ultimo viaggio in cui ho ancora potuto praticare un vagabondaggio senza prenotazioni è stato quello in Equador, pre-pandemia, a inizio 2020, prima che scoppiassero le restrizioni. Soprattutto rimpiango le belle escursioni nella zona andina.

Dopo la delusione delle spedizioni a Capo Verde e in Suriname, mi sto convincendo che inventarsi nuove mete rischia di comportare frustrazioni sempre peggiori delle precedenti. Recentemente sono contenta di avere rivisto un luogo che mi aveva affascinato più di dieci anni fa, sulla costa nord dell’Uruguay, Punta del Diablo: contenta di avergli detto addio.  Arrivata dopo avere cambiato tre autobus su un strada interminabile con lavori in corso, dopo collasso del motore di uno degli autobus con attesa di due ore di un altro locomotore, con temporale finale al terminal di Punta del Diablo, ho constatato come il luogo intatto, selvaggio del 2014, con alcuni ostelli di buon livello ma nessun albergo né auto circolanti, grandi dune sull’oceano ricoperte di una vegetazione rigogliosa di smeraldo, era caduto preda dell’avidità assatanata di moltitudini di investitori e imprenditori. In ogni riquadro di verde rimasto vedevi un cartello: XY vende. Unica strada principale ingombra di traffico. Davanti a un (unico per fortuna) supermercato un ridicolo cartello avvisava che si era in “Centro”. La spiaggia che ricordavo deserta era affollata da ombrelloni per un lungo tratto, e le belle dune più vicine al “Centro” quasi sparite sotto costruzioni per appartamenti turistici. Per fortuna la spiaggia è molto lunga e, artisticamente punteggiata di massi granitici grigi e rosa, conserva il suo fulgore seducente. Le schiume delle possenti onde erano quasi sempre nivee, camminando poi in fondo su sentieri sabbiosi e tortuosi si poteva godere di un raggio d’azione individuale accettabile: le dune  ocra riapparivano con il loro manto vegetale, il fragore delle onde era l’unico rumore percepibile. E l’alloggio, una “cabaña” con il tetto di spessa paglia intrecciata come un cottage inglese aveva un bel prato davanti fiorito di gigli rosa profumati. E così mi sono fermata lì più di un mese. Viaggio stanziale.

E addio ai lunghi viaggi vagabondi, è stato bello sperimentarli e goderli.

* Tutte le foto sono di Punta del Diavolo, Uruguay

 

 

 

 



[1] Saghe medievali