TYPEE, LA VALLE DEGLI ANTROPOFAGI **
Foto di Nuku Hiva trovata su Google Maps
Typee, il secondo
libro scritto da Herman Melville, è il racconto autobiografico delle sue
avventure come marinaio-disertore nei Mari del Sud Pacifico. Nukuheva è il nome
dell’isola del gruppo delle Isole Marchesi, odierna Polinesia,
dove si svolge il racconto. Il nome immaginario della nave Dolly, dalla quale Melville
fugge insieme a un altro marinaio ribelle chiamato Toby nel libro, è la reale
baleniera Acushnet, dalla quale i due marinai decisero di allontanarsi, disgustati
dal cattivo trattamento riservato all’equipaggio dal comandante e
dall’imperizia di quest’ultimo. Cogliendo l’occasione di una giornata di
libertà sull’isola, ambedue sono risoluti a sfidare i possibili pericoli di un
ambiente sconosciuto, ambiente sul quale circolano a bordo storie turpi di
cannibalismo nei confronti degli importuni europei (i Francesi erano già
arrivati con mire di conquistatori). I cruenti gusti gastronomici erano attribuiti
ad uno in particolare dei gruppi di “selvaggi” abitanti dell’isola, appunto i
Typee, tra i quali Melville trascorrerà alcuni mesi, prima di una inaspettata e
benedetta liberazione. Pur oggetto di ogni attenzione contrariamente alle
terrificanti aspettative, si sentiva di fatto un prezioso prigioniero; gli era
precluso di allontanarsi da solo e soprattutto gli era proibito anche solo
avvicinarsi alla spiaggia, come avrebbe desiderato, nella speranza di avvistare
una nave. E la sua fuga sarà frutto di fortuna e di grande audacia. Toby, il
sodale dell’evasione dalla baleniera, che era riuscito ad allontanarsi e sul
quale il riluttante prigioniero puntava per poter lasciare la “valle felice”,
come nonostante tutto la ricorderà, era sparito senza lasciare tracce.
Selvaggi,
“savages”, è il termine usato lungo tutto il racconto da Melville, chiaramente
non in senso spregiativo, ma come correlato oggettivo, anche quando, ormai
acclimatato e inserito per quanto possibile tra i suoi accoglienti ospiti, ne
apprezzerà sinceramente la maniera semplice di vivere e l’estrema cura nei suoi
confronti. All’epoca, siamo negli anni ’40 dell’’800, chi poteva sospettare che
i cosiddetti popoli civili fossero i veri selvaggi, i veri cannibali, coloro
che annientarono decine, centinaia di civiltà e milioni e milioni di esseri
umani che, vivendo una vita in armonia con la natura e utilizzando le risorse a
loro disposizione con equilibrio, erano i veri saggi, i veri popoli civili?
Melville tuttavia, durante la sua esperienza, fu tra i primi a capirlo. Ecco un
estratto del suo giudizio:”
La diabolica abilità che dispieghiamo inventando ogni genere di macchinari
mortiferi, la perversa vendicatività delle nostre guerre e la desolazione e i
lutti che ne conseguono, bastano da soli a identificare l’uomo bianco
civilizzato come l’essere più feroce sulla faccia della terra.” Colpisce la
perfetta analogia con il giudizio di Varlam
Tichonovič Šalamov, prigioniero politico per anni nei gulag staliniani,
scrittore e poeta: l’uomo è la bestia più feroce che esista, e se ci guardiamo
intorno oggi siamo tentati di confermarlo. Forse potremmo aggiungere l’aggettivo
stolto. Ma torniamo al 1800.

La prefazione a
Typee, scritta da Melville nel 1846, esordisce in tali termini: “Sono passati più
di tre anni dagli avvenimenti narrati in questo libro. Questo periodo, a parte
gli ultimi mesi, l’autore l’ha trascorso quasi completamente cavalcando i
marosi del vasto oceano. …Nonostante il fatto che i marinai siano abituati a
ogni sorta di strane avventure, i fatti narrati nelle pagine che seguono sono
spesso serviti, raccontati durante notti di guardia in mare, non solo ad
alleviare la stanchezza, ma anche a destare la più calorosa solidarietà tra i
compagni di bordo.” E l’incanto e l’interesse per le avventure del nostro eroe
nell’isola dei cannibali, la suspense e il sollievo provati nella lettura, sono
tanto più preziosi oggi in un mondo realmente cannibale e omogeneizzato, più
che omologato, dove il cartello “hic sunt leones” dovrebbe essere esposto in
centinaia se non migliaia di luoghi.
I due disertori
si allontanano alla chetichella dal resto dell’equipaggio con ben poche
provviste alimentari nascoste in tasca, in modo da non destare sospetti, e si
arrampicano con qualche difficoltà su una vera e propria montagna che divide
due valli. Qui nasce la suspense, perché ambedue sanno (o meglio credono di
sapere) che in una valle vive un gruppo chiamato Happar che ha fama di essere
accogliente e pacifico, mentre nell’altra il gruppo denominato Typee passa per
essere non solo ostile ma antropofago. Tra i due gruppi non corre buon sangue.
Il dilemma è: come poter sapere qual è il versante “giusto” in cui farsi
scivolare giù dalla montagna? A parte i problemi di comunicazione che inevitabilmente
si presenteranno, le reazioni fisiche saranno comunque eloquenti. Dopo due o
tre giorni le scarse provviste alimentari, pur centellinate, finiscono,
Melville si ferisce ad una gamba e ha difficoltà a reggersi in piedi, il freddo
e i disagi diventano insopportabili come la fame, ed è giocoforza farsi
scivolare, senza sfracellarsi, lungo il crinale della montagna, sperando di
azzeccare la valle “giusta”, quella degli Happar. Ma, una volta scesi e circondati
dai nativi, apprendono che sono arrivati tra i Typee, che evidentemente, se del
caso, sono ostili e antropofagi con chi li assale e non con inermi e affamati
visitatori. E, pur rimasto solo dopo la separazione da Toby, che riesce ad
allontanarsi e scendere verso il mare, una volta guarita la ferita che contribuiva
a rattristarlo, Melville scopre e comincia ad apprezzare i vantaggi della vita
dei “selvaggi”: “Quando giravo lo sguardo sulle verdi dimore che mi
circondavano da ogni lato (where I was buried) e osservavo le
alte cime che mi racchiudevano, ero inspirato a pensare che mi trovavo nella
“Valle Felice” (lettere maiuscole nel testo). E che al di là di quelle montagne
non c’era altro che un mondo di preoccupazioni e inquietudini. Man mano che
allargavo il raggio dei miei vagabondaggi nella valle e conoscevo meglio le
abitudini dei suoi abitanti, propendevo sempre più ad ammettere che, ad onta degli
svantaggi delle loro condizioni di vita, i selvaggi della Polinesia, circondati
da una profusione di doni della natura lussureggiante, godono di una situazione
infinitamente più felice, pur privi di una vita intellettuale, rispetto agli
europei compiaciuti di sé”.E più avanti: “Ad uno stadio primitivo della struttura
sociale, le gioie della vita, sebbene poche e semplici, sono a portata di mano
in gran numero, e sono pienamente godibili, mentre la Civiltà, per ogni
vantaggio che presenta, implica centinaia di guai, i furori, le gelosie, le
rivalità sociali, i conflitti familiari, e le migliaia di mali che ci
infliggiamo noi stessi con una vita più comoda, il tutto ammonta al pesante
fardello delle miserie umane che sono sconosciute tra i popoli che vivono della
natura”. E ancora, più avanti: “Una peculiarità che attirò la mia attenzione fu
la perpetua allegria che regnava per tutta la valle. Sembrava non ci fossero
preoccupazioni, fastidi, angosce né oppressione tra i Typee. Le ore
trascorrevano liete come le risate che costellano una danza campestre”. Nessuno
ha fame, nessuno mendica, non ci sono prigioni, non ci sono altezzosi nababbi,
non ci sono discordie e avvocati”. Il segreto? “Non esistono i soldi! La radice
di tutti i mali non esisteva nella valle…Tutto era allegria, gioco, e buon
umore, Depressione, ipocondria, malumori fuggivano e si nascondevano nei
crepacci delle rocce,” Anche i bambini non litigano, non si contendono giocattoli,
le ragazze si divertono a adornarsi di ghirlande di fiori. E tutto nasce dalla
perfetta salute di cui sembrano godere i Typee. “Durante tutto il mio soggiorno
ho visto soltanto una persona malata, sul viso e la pelle di tutti gli altri
non si notava alcun segno di malattia.”
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Foto aerea di Nuku Hiva da Wikipedia | | |
E prosegue: “Ma si
obietterà che questi stupefacenti miserabili senza principi sono cannibali.
Vero, e un aspetto piuttosto spiacevole del loro carattere, bisogna ammetterlo.
Ma diventano tali soltanto quando sono indotti a soddisfare la loro ira vendicativa
contro i nemici. E mi chiedo se il consumare carne umana sia un tale atto di
barbarie da superare quell’abitudine che solo fino a pochi anni fa era pratica
corrente nell’ illuminata Inghilterra -
un traditore condannato, magari un uomo ritenuto colpevole di onestà,
patriottismo o di altri simili odiosi crimini, veniva decapitato con una grossa
accetta, poi sventrato, le sue viscere erano gettate nel fuoco, mentre il
corpo, squartato in quattro parti, era insieme alla testa esibito su due
picche, restando così in mezzo alla popolazione a puzzare e marcire!”
Oggi la nostra
civiltà non contempla più orrori simili ad personam, ma fa le cose in grande:
annichila moltitudini in quattro e quattr’otto, grazie al progresso della
tecnologia. E quel che rimane delle valli felici, dei sopravvissuti felici in
reconditi angoli dell’orbe terraqueo, è assediato dalla Civiltà. Meglio i
cannibali delle bombe nucleari, degli F35, dei droni, eccetera?
Ahimé, le perdute
valli felici!
** Non indico
pagine in quanto ho letto il libro in formato elettronico. I brani tradotti
sono principalmente tratti dal capitolo XVII.