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giovedì 25 marzo 2021

SOMALIA IL PAESE DELL'INCENSO E DEI MILLE CLAN

 

ESSERE A BOSASO, PUNTLAND, SOMALIA, NEL 2000

Donne somale a Bosaso, 2000, foto mia
 

“In Somalia, la politica è nelle mani dei clan”, dice Robert Kluijver, esperto di Somalia, intervistato da Radio France International (RFI) il 19 febbraio scorso[1].

Tutta la popolazione somala appartiene allo stesso gruppo etnico e parla la stessa lingua, il che è cosa rara in Africa, ma è divisa in clan in modo gerarchico secondo complicati criteri di lignaggio, dai quattro maggiori clan in giù, di sotto-clan in sotto-sotto-clan e via di seguito. I clan minori sono svantaggiati e con poco potere rispetto ai maggiori e allacciano alleanze per contare di più; le reti di solidarietà e le relazioni clientelistiche corrono attraverso queste maglie che attraversano tutta la società e la ingabbiano secondo regole non scritte che ogni somalo conosce. 

Cartina scaricata da D. W.

Sostanzialmente è un paese in maggioranza di pastori nomadi, con una lingua che da sempre è stata solo orale, ricca di poemi epici, poesie d’amore e racconti, che non avevano translitterazione. Cultura puramente orale che faceva affidamento sulla memoria. Ancora oggi ciascuno conosce i nomi dei propri antenati e risale di generazione in generazione anche fino alla ventesima ed oltre. Ricordo il mio stupore quando Issa, il mio fidato collaboratore dall’italiano perfetto, me lo confidò e snocciolò una sfilza di nomi del suo lignaggio; mi vergognai di conoscere a malapena i cognomi dei miei bisnonni. La lingua somala ebbe una trascrizione concordata e quindi un’ortografia ufficiale solo a partire dal 1973, ad opera di un Comitato ad hoc (con la consulenza scientifica di vari linguisti tra i quali il principale fu B.W. Andrzejewski)[2] che scelse di adottare i caratteri latini piuttosto che quelli arabi o quelli inventati di sana pianta negli anni 20 del ‘900 da un fantasioso linguista Somalo, Osman Yusuf Kenadid[3]. Dall’indipendenza nel 1960 (colonizzazione italiana, inglese e francese) al 1972 le lingue usate dall’amministrazione statale e nella corrispondenza ufficiale erano state l’arabo, l’inglese e l’italiano.

Foto da sito ONU Stuart Price

Ho lavorato a Bosaso, nello stato federale del Puntland situato a nord, esattamente vicino alla punta del Corno d’Africa, nel 2000, come direttrice di un progetto educativo che mirava a costruire e far funzionare scuole elementari in tutta la provincia, con la collaborazione di comitati di genitori chiamati a essere la controparte e il perno essenziale di tutto l’intervento. I soldi, attraverso una ONG internazionale, erano della Commissione Europea. Non esisteva più nessuna amministrazione centrale a Mogadiscio e il presidente del Puntland era riuscito a domare localmente la guerra guerreggiata e perpetua tra clan scoppiata dopo la cacciata del presidente (e dal 1978 dittatore) pseudo-socialista Siad Barre nel 1991.[4] Siad Barre era stato appoggiato per molti anni dal governo italiano, soprattutto dall’entourage socialista, che aveva finanziato non solo l’Università (dove si parlava italiano) ma anche numerosi e costosi progetti, per esempio contro l’infibulazione. Nel 2000, tornata una certa calma almeno a nord, era stata rimessa in moto la cooperazione internazionale ma gli uffici di riferimento erano in Kenya, a Nairobi. Si viaggiava in piccoli aerei umanitari (senza bagni) che facevano la spola tra Kenya, Somaliland (stato federale a ovest del Puntland che aveva dichiarato unilateralmente l’indipendenza da Mogadiscio dopo il colpo di stato del 1991) e Bosaso. Un volo di 4 ore; lo scalo a Hargeisa, Somaliland, prevedeva un’attesa per l’uso di latrine aeroportuali che ricordo con orrore.

Foto mia

A Bosaso ero alloggiata in una stanza con bagno dentro un compound, al cui ingresso sostavano guardie armate dall’aspetto rilassato ma protetto da alte mura; la mensa era condivisa con vari cooperanti di nazionalità diverse. Bosaso diventerà poi, negli anni d’oro della pirateria, la centrale operativa delle spedizioni piratesche. Pescatori riciclati.

Prima di partire avevo cercato come sempre documentazione e libri su un paese del quale avevo letto le vicende tumultuose solo attraverso cronache e reportage. Non avevo trovato molto (il world wide web era agli inizi), solo un libro in inglese di un antropologo esperto di Somalia, Ioan M. Lewis, con saggi etnografici che risalivano agli anni 1950,[5] che però non era molto illuminante sul moderno contesto somalo. Cercai di capire la ramificazione dei vari clan e sotto-clan, ma mi imbattei in un tale intrico di grappoli che ci rinunciai. E partii con molta curiosità, la mia prima volta nel Corno d’Africa[6], un’area con tematiche (e geografia fisica e umana) tutte molto peculiari.

Paesaggio vicino a Bosaso (foto mia)

I Somali in genere si credono ben distinti e superiori rispetto alle popolazioni bantu che trattano con condiscendenza, a partire dalla loro appartenenza al ramo cuscita sud-orientale e al loro credo islamico con forti influssi sufi, indenne da sincretismi animisti. Nel Puntland l’influenza dei paesi del Golfo Persico è forte; dato un antico e intenso commercio di bestiame e khat[7] con lo Yemen, anche l’arabo (o meglio un dialetto arabo) è corrente. Mi colpì l’assenza quasi totale di cani, considerati alla stregua dei maiali animali impuri. Solo una volta colsi la silhouette di un cane (un sopravvissuto) fuori città: eravamo sulla Toyota e il mio autista sputò fuori del finestrino come ad allontanare un influsso malefico. Purtroppo i somali sputano anche durante il Ramadan per non inghiottire neppure la saliva e una volta che sedevo nel sedile dietro in una macchina non mia schivai di poco un getto che per il vento rientrò dietro.

Quanto al clima inteso come meteorologia c’era da abbozzare. Altrove avevo ampiamente sperimentato caldo secco, caldo umido, umidissimo, piogge torrenziali con venti ciclopici, un tifone, ma niente di simile al caldo del Puntland. Scherzando Issa si beffava di me: al mattino, dopo il suo subaa wanexen (buongiorno in somalo) diceva sardonico in italiano “Che bel sole!”. Cioè 45 gradi o più all’ombra. E un altro collega kenyota nell’ufficio senza aria condizionata aggiungeva più tardi: “Di che ti lamenti? Sauna gratis tutti i giorni! Un lusso.”

Bambini in una scuola coranica fuori Bosaso (foto mia)

Il progetto implicava per fortuna frequenti uscite di città nei vari villaggi e la Toyota aveva l’aria condizionata. Il paesaggio era molto aspro, roccioso a volte, con cespugli frequenti di un tipo di acacia con aculei aguzzi lunghi vari centimetri[8], dove spesso si impigliavano sacchetti neri di plastica diffusi anche là. In queste tournées che duravano una giornata usavo jeans, caldi ma pratici. Di animali se ne vedevano pochi, ma ogni tanto appariva qualche dik-dik, delle piccole antilopi che scambiai da lontano per sciacalli. Dei villaggi non ricordo molto, e solo una notte mi fermai a dormirvi. Fu interessante constatare l’enorme differenza tra le notti trascorse nei villaggi in Mali, dove a volte si ballava, e il calore umano e la comunicazione al di là delle difficoltà linguistiche erano forti e sinceri[9], e la mancanza di empatia, forse l’imbarazzo, delle due donne somale cui gli uomini affidarono il compito di occuparsi della mia nottata. Non passai più la notte nei villaggi, tanto fu il mio disagio di fronte a questa freddezza. 

Dik-dik, da wikipedia

L’aspetto interessante del progetto era l’affidamento ai comitati di genitori delle “gare d’appalto” per la costruzione delle scuole in tempi brevissimi, con la responsabilità di seguire i lavori, rispettare il budget consentito e scegliere gli insegnanti. La mia responsabilità era tutta concentrata sulla formazione/aggiornamento degli stessi e sul corretto funzionamento della scuola sulla base dei curriculi e libri di testo anteguerra.  Un grosso problema era moderare se non del tutto eliminare l’abitudine ai metodi correttivi violenti. Molti insegnanti erano dei mullah, dei religiosi, abituati a portare a scuola una specie di bastoncino-frusta di cui amavano servirsi. Erano stati educati nelle madrasah [10]dove il metodo d’insegnamento consiste nell’imparare a memoria e ripetere versetti del Corano. Difficile far loro cambiare mentalità in poco tempo, tanto più seguendo i consigli di una donna. 
Corso di formazione per maestri, foto mia

Riuscii però ad appassionarli ai lavori di gruppo con il metodo PLA (Participatory learning approach) che implica il partire dalle esperienze dei discenti, condurli a farsi delle domande e comprendere relazioni tra fenomeni o eventi con l’aiuto di mappe, giochi, grafici, racconti, indovinelli. Questo percorso collettivo mi coinvolse molto, riuscii ad imparare varie parole di somalo con le quali lardellavo il mio inglese per avvicinarmi mentalmente ai maestri (e all’unica maestra). Una cosa sulla quale non potevo influire era però l’abbigliamento delle bambine, costrette dentro gonne lunghe già a sei, sette anni, con la testina avvolta da un pesante velo opaco serrato sotto il mento con quel caldo terribile. 

Bambini in una scuola coranica, foto mia

Quanto all’abbigliamento femminile, durante il mio soggiorno ci fu una cambiamento repentino. Al mio arrivo e per varie settimane tutte le donne che incontravo indossavano vesti lunghe dai colori brillanti che fasciavano il corpo lasciando indovinare curve sinuose, mentre il velo sulla testa ricadeva graziosamente in larghe pieghe. Così ero abituata a vedere arrivare la ragazza che faceva le pulizie da noi nel compound. Una mattina rimasi impietrita a fissarla sulla porta. Le chiesi: che hai fatto? Non aveva più corpo né testa: vedevo un triangolo colorato avanzare dal quale emergeva una faccetta che sembrava di bambola, una pupattola, non una donna. Per qualche misteriosa direttiva dal tramonto all’alba sparirono le vesti ondeggianti adagiate su corpi reali, sparirono i veli acconciati con garbo sulle spalle, e comparvero esseri quasi amorfi intubati in campane, stoffe colorate ma rigide, senza vita. Gli abiti erano diventati una prigione. Il Golfo era sempre più vicino.

Lavori di gruppo  degli insegnanti in una scuola, foto mia

Ricevetti pietre sulle caviglie da ragazzini che abitavano vicino al compound perché le mie gonne pur lunghe non lo erano abbastanza; le caviglie dovevano essere invisibili. Mi arrabbiai con il padre dei monelli: “Insegnate a tirare sassi a chi viene qua a lavorare?”, protestai. Si scusò a mezza bocca, non convinto.
Corso di formazione insegnanti, lavori di gruppo, foto mia

L’aggressività ribolliva sotto pelle: un giorno stavo discutendo con un gruppo di insegnanti quando udii grida e rumori di tafferuglio. A pochi metri di distanza il mio caro collega Issa e un energumeno erano venuti alle mani, tirati da una parte e dall’altra dagli astanti; saltò fuori un bastone che colpì il braccio di Issa e glielo spezzò. Fu necessario correre in ospedale. Il pomeriggio seguente mentre stavo percorrendo il corridoio che portava alla stanza dove era ricoverato incontrai un conoscente che aveva un braccio al collo: mi disse che qualcuno per strada lo aveva accoltellato. Un cooperante italiano che abitava nello stesso mio compound mi raccontò che per poco non era rimasto ferito dai vetri del finestrino della sua auto: qualcuno aveva pensato bene di scagliarvi delle pietre. Per finire, una volta riuscii a fatica a trattenere il mio autista dallo scendere dal posto di guida e venire alle mani (prendendo il mitra che aveva sempre sotto il sedile) per un sorpasso irregolare in città. Anche questi sono i traumi delle guerre infinite[11].

La scuola di canne nell'accampamento degli sfollati (I.D.P.'s), foto mia

Infine accadde qualcosa che gettò una lunga ombra sull’ultimo periodo del mio soggiorno.

Ampliando il raggio d’azione del progetto, avevo intavolato rapporti con persone sfollate dalle zone di guerra a sud (in inglese I.D.P’s ,internally displaced people), che vivevano in condizioni pietose in un accampamento di fortuna[12] in una zona vicinissima alla città. Li avevo avvicinati e proposto di cercare di scolarizzare anche lì i bambini o almeno una parte di essi. Si potevano trovare i soldi per i maestri e il materiale scolare, ma per il terreno dove costruire la scuola e la scuola stessa avrebbero dovuto procurarli gli interessati. Si formò un comitato di genitori e uno di essi più dinamico e aggregatore, Nureddin, si offrì di procurare il terreno gratis. Tutto procedeva bene: la scuola fu costruita con canne, non ricordo chi pagò i banchi, forse trovai soldi io, gli insegnanti furono individuati e formati, la scuola cominciò a funzionare. Ero molto soddisfatta. Nureddin era il mio referente e coordinava assai bene le attività. Finché un pomeriggio per strada qualcuno mi disse che Nureddin era stato accoltellato il mattino. Rimasi di sasso. Assassinato. A sera era già stato seppellito, secondo l’uso musulmano. Issa mi spiegò nei giorni successivi cosa era successo.

Lavori di gruppo, formazione insegnanti

Il terreno sul quale era stata costruita la scuola apparteneva a un familiare di Nureddin, mi pare addirittura un fratello, il quale si era arrabbiato moltissimo per l’impegno preso a sua insaputa di donarlo al progetto. Arrabbiato tanto che alla fine gli aveva teso un agguato e lo aveva ucciso; erano implicati anche altri congiunti. Mi sentivo colpevole per aver messo in moto tutta quella storia che aveva provocato la tragedia, mi sentivo malissimo, e non c’era rimedio. Ricevetti anche un biglietto di minacce. Issa mi sostenne molto in tutto quel periodo e seguì il processo che ne scaturì, con kadì secondo l’uso islamico. In Puntland vigeva (e non penso che oggi molto sia cambiato) l’usanza del prezzo del sangue: la parte offesa, in questo caso parte della famiglia, una volta accertata la responsabilità del o dei colpevole(i), può esigere una riparazione in denaro da pattuire, oppure la pena di morte. In questo caso la famiglia scelse la condanna a morte che fu eseguita dopo pochissimi giorni in prigione mediante fucilazione. Fu veramente una storia atroce, che mi rattrista ancora oggi quando ci penso.

La spiaggia che frequentavo a Bosaso al tramonto

Alla mia partenza fioccarono i ringraziamenti e il più bel regalo di congedo fu un pesante involto di incenso, una mercanzia per la quale una volta la Somalia era famosa[13]. Ricevetti solennemente due chili di blocchi profumatissimi, estratti da alberi che intravvidi solo una volta in una zona abbastanza distante da Bosaso. L’incenso si estrae da incisioni nella corteccia di queste piante, credo ogni tot anni. Al mio ritorno ne regalai a destra e a manca e ora mi resta un frammento che ha perso quasi tutta la sua fragranza. 

Quando ripenso alla Somalia che conobbi rivedo le facce dei bambini, le donne ancora fasciate di veli sgargianti, i mullah con i loro frustini, l’ufficietto afoso dove lavoravo, il paesaggio aspro, i babbuini poco amichevoli che scendevano dalle rocce sovrastanti sulla strada al ritorno dal mare, il cielo di cobalto, l’autista Abdi con la guancia gonfia di khat, il volto bonario di Issa e il mare meraviglioso dove nel tardo pomeriggio mi facevo accompagnare per lunghe nuotate fino alla barriera corallina ancora intatta. Nuotando mi trovavo vicino enormi testuggini che emergevano di colpo accanto alla bracciata e guardavo negli occhi splendidi pesciolini colorati che mi guizzavano davanti al vetro della maschera. Rivedo una spiaggia dove una mareggiata aveva deposto una notte un fitto mantello di enormi pezzi di corallo rosso come sangue: non credevo ai miei occhi, la sabbia era invisibile sotto una coltre vermiglia, da non sapere dove camminare. 

Attacco a Mogadiscio, febbraio 2021, Deutsche Welle

Leggo della Somalia oggi. Dopo l’invasione dell’Etiopia nel 2006 istigata dagli USA, che vedevano di mal occhio le Corti Islamiche (I.C.U.)[14] composte da moderati, le uniche che fossero riuscite dopo anni di scontri sanguinosi ad instaurare nel centro-sud un facsimile di pacificazione, da una scheggia rigorista dell’I.C.U. nacque nel 2007 l’insurrezione deglii Al Shabaab, “i ragazzi” in arabo, ben più estremisti delle Corti, che ha fatto ripiombare la Somalia centro-meridionale in un’insicurezza permanente, punteggiata di attentati cruenti. Il più terribile nel 2017 provocò 600 morti a Mogadiscio. Il nord resta ancora meno coinvolto.

Parlamento Somalo 2020, dal web

Dopo l’insediamento di un governo centrale a Mogadiscio nel 2012 e molti miliardi di dollari profusi dalla “comunità internazionale” (principalmente dalla UE)[15], e due mandati di un corrottissimo governo federale[16] centrale basato a Mogadiscio che non controlla quasi nulla del resto del territorio nazionale, si è di nuovo a una impasse. Dopo la scadenza l’8 febbraio scorso del mandato dell’ultimo presidente, soprannominato “Farmajo” data la sua passione per il formaggio italiano, non si riesce ad eleggere il parlamento che ha il compito di designare il presidente federale. I presidenti dei cinque stati di cui si compone la Somalia scalpitano per una autonomia sempre più simile a un’indipendenza. Fioccano di nuovo bombe soprattutto a Mogadiscio.  E l’islamista Al Shabaab, che è riuscita a creare ampie zone dove vige un certo ordine e non esiste corruzione né rivalità tra clan[17], si frega le mani e aspetta il suo turno per entrare nel gioco di trattative mediate dalla “comunità internazionale”. A quando una pace vera?

Marzo 2021,  Mogadiscio?, picture-alliance/dpa/ S. Mohamed


[1] https://www.rfi.fr/fr/afrique/20210219-somalie-un-pays-%C3%A0-l-avenir-toujours-incertain

[2]https://arcadia.sba.uniroma3.it/bitstream/2307/2550/1/The%20introduction%20of%20a%20nattional%20orthography%20for%20somali.pdf

[3] L’ortografia fu battezzata dallo stesso inventore osmanya e il suo autore iniziò ad insegnarla finché non fu arrestato dalle autorità coloniali italiane che fiutarono puzza di nazionalismo. (https://en.wikipedia.org/wiki/Osman_Yusuf_Kenadid)

[4] https://www.meridiano42.it/2021/01/31/27-gennaio-1991-la-caduta-di-siad-barre/

[5] I.M.Lewis, Saints and Somalis, Red Sea Press, 1998.

[6] Precedentemente avevo lavorato in Africa occidentale, in Africa Australe e nelle Filippine.

[7] Il khat è un’erba con larghe foglie verdi che si mastica per ore tenendola in bocca tipicamente in una guancia, con effetti simili alla foglia fresca di coca. Provoca una certa assuefazione, e la maggioranza dei somali almeno a nord ne fa un uso quotidiano, a volte smodato. In Yemen da dove è importato si organizzano nelle prime ore del pomeriggio degli incontri per la masticazione del khat. A Bosaso arrivava fresca a tarda mattinata e si passava al mercato a comprarla. Credo di averne provato una foglia una volta e mi è bastato.

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Boscaglia_e_macchia_di_Acacia-Commiphora_somala

[9] Un aneddoto per far comprendere cosa significa ospitalità in Mali: nei villaggi la sera le donne mi preparavano sempre un secchio pieno di acqua calda in modo che potessi togliermi di dosso la polvere del giorno e a volte uccidevano una capra che si arrostiva sul fuoco, il massimo per delle persone che mangiavano carne raramente. Una mattina in un villaggio seppi che la responsabile del groupement femminile aveva proibito a tutti di attingere acqua dal pozzo la sera precedente perché in stagione secca ce n’era pochissima e l’ospite “doveva” lavarsi.

[10] Così si chiamano le scuole coraniche.

[11] Ebbi modo di constatarlo ampiamente più tardi in Sud Sudan.

[12][12] Per far capire il tipo di tende in cui vivevano, basterà raccontare una mia terribile gaffe: girando insieme ad una “delegazione” istituita per la pulizia e l’eliminazione dei monti di rifiuti disseminati nell’accampamento, un giorno adocchiai quella che mi sembrò una montagna di stracci, pezzi di lamiera e cartoni sporchi e chiesi: e questa roba perché non l’avete eliminata? Mi fu fatto presente che quella “roba” era una futura tenda ancora non eretta.

[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Boswellia_sacra

[14] Islamic Courts Union

[15] Soltanto mantenere la forza di interposizione armata AMISOM, formata da truppe africane, dal 2007 costa almeno 250.milioni di euro all’anno, pagati quasi interamente dalla UE (Robert Kluijver, intervista citata). Durante ogni elezione i dollari fioccano a destra e a manca.

[16] Secondo la graduatoria di Transparency International, la Somalia è il paese più corrotto del mondo, preceduto dal Sud-Sudan.

[17] Un libro molto interessante su Al Shabaab è: Everything you have told me iis true. The many faces of Al Shabaab, di Mary Halper. Hurst and Company, London, 2019. Si veda anche in italiano https://www.cespi.it/it/ricerche/sviluppo-sostenibilita-sicurezza-litalia-e-le-sfide-del-corno-dafrica-0, anche se è del 2017.