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venerdì 18 dicembre 2015

LA FABBRICA DEL JIHAD GLOBALE

LA FABBRICA DEL JIHAD GLOBALE OVVERO
COME DIROTTARE LE LOTTE DI CLASSE
Terza parte

Terra vista dallo spazio

“La guerra è quello che facciamo per vivere”: è quanto dichiarava un combattente somalo dell’Alleanza del Nord in Afghanistan[1]. Echeggia un’altra frase contenuta in un raccapricciante reportage sulle torture inflitte ai migranti dai “boia del Sinai”: “Dopo gli attentati del 2005 (di Charm El Cheick, 88 morti) ho perso il mio impiego nel turismo. Allora ho scelto questo lavoro. All’inizio gli africani pagavano solo 1000 $ e li facevo passare in Israele senza far loro niente. Nel 2008 sono arrivati gli Eritrei. Sapevamo che erano disperati. E’ stato a quel punto che è cominciato il” lavoro”. Gli autori del reportage aggiungono per chiarimento che il termine “lavoro” sta per “sequestro e tortura[2]”. La lettura delle vicende rwandesi e non solo ci ha abituato a questo lessico: anche gli hutu assassini andavano al “lavoro” il mattino presto e smontavano la sera, stanchi ma paghi del dovere compiuto. Ma la questione qui non è la degenerazione dell’umano o di ciò che si intende per tale, bensì ciò che per molti versi ne è la causa primaria. La disponibilità di una manovalanza pronta a tutto per sopravvivere è infatti conseguenza di un perverso circolo vizioso: miseria, disoccupazione, diseguaglianze e corruzione generano conflitti e guerra; conflitti e guerra generano più povertà, più disoccupazione, la perdita di orizzonti di significato e crescente disumanità, da cui derivano altri conflitti. 

La disponibilità di manovalanza all’infinito è quella che alimenta quasi tutte le guerriglie jihadiste, tra cui il dilagare degli attacchi di Boko Haram nel nord della Nigeria, che ha ritenuto opportuno nel 2014, dopo la proclamazione del califfato da parte di al Baghdadi, di apporre l’etichetta ISIS sugli scempi perpetrati: più di 6000 morti e centinaia di migliaia di rifugiati nel corso del 2015, che non è finito. 

La storia di come una setta locale non eccessivamente pericolosa abbia potuto trasformarsi in un disastro che dal nord della Nigeria è dilagato in tutto il bacino del Lago Ciad è una vicenda intessuta di stoltezza politica, corruzione immane, repressione e impunità delle forze di sicurezza e ovviamente di disoccupazione e povertà. Non a caso la ribellione ha avuto il suo baricentro in uno dei più poveri tra i 36 stati nigeriani, a Maiduguri, nel Borno[3]. Il leader leggendario del gruppo, Mohammed Yusuf, fu arrestato a fine luglio 2009 in seguito a scontri violenti e assalti contro stazioni di polizia e non uscì vivo di prigione. Era un oratore eccezionale, possedeva grandi capacità di convinzione e denunciava il sistema scolastico nigeriano (sinonimo di Occidente) in quanto fucina delle carriere della classe politica nigeriana marcia fino al midollo, una scuola (boko=libro) che funzionava come sistema discriminatorio produttore di privilegi da un lato e miseria senza scampo dall’altro.

Abubakar Umar Gada, senatore di Sokoto, altro stato del nord della Nigeria, diceva già nel 2009 a proposito di Boko Haram che “aveva tratto vantaggio dal grande numero di disoccupati[4]. E la rivista Nigrizia (febbraio 2012) ricorda che, una settimana dopo l’uccisione di Yusuf crivellato di colpi di pistola dentro la stazione di polizia, il suocero si recò in caserma per chiedere ragione della distruzione della propria abitazione e anche lui fece la stessa fine del genero. Abba Aji Kalli  [5] intervistato da Libération, ricorda che Yusuf ripeteva “Boko is haram ! Boko is haram![6] E aggiunge: " Lui si batteva contro l’ingiustizia sociale, voleva una società basata sull’islam rigoroso, ma non parlava di jihad” (http://www.liberation.fr/planete/2015/02/26/aux-sources-de-boko-haram_1210555). 

 Una delle ragazze di Chibok

Di pasta diversa era però il suo secondo in armi, Abubakar Shekau, fautore di un jihad aggressivo in opposizione al suo mentore. Dopo la morte di Yusuf, Shekau fece pubblicare un pamphlet in cui minacciava di “rendere il paese ingovernabile e di vendicare la morte del suo leader” (ibid.). Sparì per circa un anno, non si sa dove, verosimilmente per cercare appoggi, soldi, e armi e quando tornò, è sempre Abba Aji Kalli che parla: “I fedeli di BH cominciarno a indossare uniformi, con colori diversi sulle maniche, come se avessero dei gradi. A quel punto ci si rese conto che quest’uomo aveva un progetto” (ibid.). Nel 2010 il movimento cominciò a finanziarsi assaltando banche e sequestrando ostaggi. Da notare che la Nigeria aveva già avuto a che fare con movimenti radicali islamisti negli anni ’80. E ben prima, a fine ‘800, il mahdismo rivoluzionario era fiorito nel Califfato di Sokoto: il Mahdi è il Messia dell’escatologia islamica, letteralmente “colui che va per la retta via” e instaurerà il regno della giustizia convertendo l’umanità intera all’islam. Una violenta rivolta aveva sconvolto il nord della Nigeria e del Niger tra il 1897 e il 1906, epoca della conquista coloniale. Non a caso lo studioso Thomas Hodgkin accosta nel contesto nigeriano il mahdismo, il messianismo e il marxismo come espressioni di anticolonialismo.[7]
 
Dopo l’assassinio di Yusuf era chiaro che la polveriera era pronta a esplodere: la brutalità dell’esercito e la repressione indiscriminata che penalizza e uccide moltissimi innocenti cittadini saranno la miccia. Nel 2009 dilagano già i movimenti di guerriglia islamista e la moltiplicazione di nuovi focolai offre occasioni d’oro a Shekau, che prima si allea ad al Q’aida e poi opportunisticamente dichiara fedeltà a ISIS, che sembra la pedina vincente. Dopo aver conquistato estese aree di territorio tra il 2010 e il 2014, batte in ritirata dopo la mobilitazione internazionale e l'offensiva della coalizione degli stati circonvicini capeggiati dal Ciad  successive al sequestro delle ragazze di Chibok (hashtag/bringbackourgirls) e cambia ancora strategia: si dà agli attentati suicidi le cui protagoniste sono sempre più spesso donne e bambine, addirittura di 7 anni (a Potiskum, 5 morti e 20 feriti). 



Attualmente sono mesi che queste stragi compiute da minorenni si verificano: impossibile leggere un' inchiesta su come queste ragazze e bambine siano adescate, sulle reazioni delle loro famiglie, su eventuali campagne di informazione e messa in guardia nelle zone interessate, nulla.  Il cupio dissolvi, il nichilismo, è quanto di più estraneo ci sia alla filosofia, alla concezione e al senso della vita in Africa. Come riesce Boko Haram a catturare e obnubilare le menti?  E’ chiaro che per combattere l’ondata jihadista in Africa centrale non ci si può solo affidare alle Civilian Joint Task Force, che affiancano un esercito nazionale sotto-pagato, inefficace, feroce e corrotto. Quali investimenti nel sociale? Quale redistribuzione degli immensi profitti del petrolio? La strada scelta sembra sempre quella della militarizzazione che schiaccia e nulla fa per risolvere le questioni di fondo che sono sociali e politiche.



Questo movimento sanguinario ha un potenziale distruttivo e una capacità di infiltrazione pericolosa verso molti stati della regione più a ovest (Burkina, Guinea, Senegal, Costa d’Avorio), dove può raccordarsi con i gruppi islamisti del Sahel e del Maghreb. Un Sahel in cui il Mali ha avuto a che fare dal 2012 con la rivolta Tuareg, favorita dal colpo di Stato di un militare anomalo, Sanogo, che ha cacciato il Presidente Touré e ha permesso agli insorti di arrivare fino a Sevaré, minacciando direttamente la capitale Bamako. A questo punto è intervenuto il corpo di spedizione francese: altra risposta militare in extremis[8].

Anche questa ribellione era ed è eredità coloniale e post-coloniale. Infatti i Tuareg sono una popolazione ex nomade, costituita da almeno 5 milioni e mezzo di persone (censimento degli anni ’90', presente in cinque stati: Mali, Libia, Niger, Algeria, Burkina Faso. Fanno parte delle nazioni lasciate da parte dalla ricomposizione statuale post-coloniale, come i Kurdi, altra popolazione dispersa tra vari stati. Le loro frustrazioni e rivendicazioni sono ataviche.
Già nel 1990 la rivolta era divampata a nord, e non era certo la prima, con rivendicazioni che andavano dalla richiesta di investimenti sociali e strutturali al diritto ad una spartizione più equa del potere al vertice e nei ranghi della funzione pubblica. Richieste respinte al mittente. Nel 1995 si erano conclusi accordi di pace sempre disattesi. Non stupisce che il conflitto si sia riacceso nel 2006, attizzato dopo la disintegrazione della Libia nel 2011 dal ritorno dei combattenti pro-Gheddafi, molti dei quali erano Tuareg. Che sapevano solo fare la guerra

E soffiando ormai il vento jihadista, quella che era una questione interna maliana è stata dirottata dagli islamisti. Anche qui, occupazione di territorio, morte e distruzione, lapidazioni e profughi, interessi internazionali che si intrecciano convulsamente e sovrappongono ad antiche oppressioni e ingiustizie sociali provocate dall’ inettitudine, dalla corruzione, dalla incapacità di stati post-coloniali di sanare le piaghe ereditate dal colonialismo. Gli accordi di Algeri del giugno 2015 a regia francese sono stati firmati dal Presidente maliano Boubakar Keita con il Coordinamento dei Movimenti dell’Azawad (l’Azawad comprende propriamente le regioni a nord di Timbuctu). Ma non tutti i problemi sono finiti, come ha dimostrato l’attentato del 20 novembre scorso all’Hotel Radisson Blu rivendicato da due entità, Al Morabitoun  (affiliato ad al Q’aida) e il Front de Libération du Macina (che si richiama ad Ansar Din). Quest’ultima etichetta è eloquente nel suo raccordo ideale a quello che fu l’Impero del Macina nel XIX secolo, da Timbuctu a nord fino a Segou a sud, fondato da un combattente Peul che instaurò la sharia malekita e fu sconfitto dai Toucouleurs nel 1862 (a sua volta sconfitti dai Francesi quasi 30 anni dopo). Imperi che praticavano il jihad. Richiami non casualmente pre-coloniali.

Il 3 dicembre 2015 Abdelmalek Droukdel, leader di Al Q’aida nel Maghreb islamico (AQMI) ha annunciato che Al-Mourabitoun  è confluito nella sua organizzazione, nella quale sono confluiti molti combattenti islamisti figli della sale guerre, una guerra sporchissima, dell’Algeria degli anni ’90, scoppiata dopo la repressione del FIS[9]  e il furto della sua vittoria alle elezioni vinte due volte, prima nel 1990 (locali) e poi nel dicembre 1991 (nazionali).
Dopo il trauma inferto al mondo musulmano dalla prima guerra del Golfo, cui si è accennato nella prima parte di questo scritto, un altro trauma: il risultato delle elezioni nazionali che sanziona la vittoria del partito islamista FIS è scippato dalla reazione del FNL[10] che vede infrangere il monopolio del suo potere ininterrotto dal 1962, data dell’indipendenza. E’ la prima volta che il primato del FLN, partito unico fino al varo della Costituzione del 1989, viene spezzato dal gioco democratico.



All’inizio del 1992 il nuovo presidente Chadli viene costretto alle dimissioni e un veterano del FLN, Mohammed Boudiaf, viene installato in sua vece. Il FIS viene sciolto d’autorità nel marzo 1992. Boudiaf è assassinato nel giugno di quell’anno, e chi lo seguirà non riuscirà a contrastare la marea montante del disordine sociale che trasformerà l’Algeria nel teatro di una guerra atroce, pilotata dall’alto, tra un potere militare screditato e baro e una galassia di gruppi islamisti nati in seguito allo scippo della vittoria elettorale legittima, di cui il principale fu il GIA, Groupes Islamistes Armés. Che fu, in gran parte, creazione dei Servizi di Sicurezza algerini legati al FNL. La guerra in Algeria provocò almeno 200.000 morti e un numero altissimo di desaparecidos. L’intervista rilasciata in Germania a un giornalista di Libération[11] da un agente doppio là rifugiato è circostanziata e precisa, ed è soltanto una tra le tante testimonianze che puntano il dito sulle responsabilità del vecchio potere post-indipendenza algerino. Non a caso gli assassini dei monaci di Tibhirine uccisi nel 1996 non sono mai stati identificati[12]. Anche oggi il baluardo del presidente Bouteflika, malato e quasi muto, è l’esercito. 

Nel 1978 feci un viaggio di un mese in autostop in Algeria, spingendomi a sud fino a Ghardaia, la porta del deserto, indossando jeans e maglietta. Credo che nessuna ragazza potrebbe provarci oggi.


[1] Loretta Napoleoni, ISIS Lo stato del terrore, 2014, p.49
[2] Cécile Allegra, Delphine Deloget. Chez les bourreaux du Sinai. Le Monde, 2 settembre 2014
[3] E’ una regione incuneata tra Niger, Ciad e Camerun, il che spiega come abbia potuto tracimare nei paesi confinati con una certa facilità.
[4] Nigeria’s Boko Haram’s chief killed, Al Jazeera, 31 luglio 2009
[5] Membro delle Civilian Joint Task Forces, milizie civili che cooperano con l’esercito nella lotta contro BH
[6] L’Occidente è peccato: l’educazione è identificata con il sistema scolastico, i libri.
[7] http://www.artsrn.ualberta.ca/amcdouga/Hist347/additional%20rdgs/case%20studies/sokoto/mahdism_sokoto.pdf
[8] Interessante l’intervista a  Jean-Pierre Olivier de Sardan, grande studioso dell’Africa all’EHESS, attualmente in Niger, su Boko Haram a RFI del 10 febbraio 2015: http://www.rfi.fr/emission/20150210-ode-sardan-boko-haram-est-le-receptacle-toutes-frustrations
[9] Front Islamique du Salut, che si richiamava al movimento dei Fratelli Musulmani di origine egiziana.
[10] Front de Libération Nationale
[11] José Garçon, 15 novembre 2003, Libération, Les GIA sont une création des Services de Sécurité algériens.
[12] http://www.lastampa.it/2008/07/06/esteri/i-monaci-in-algeria-uccisi-dai-militari-f2FA69T4HuD4yOWWoV9pdL/pagina.html