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martedì 25 giugno 2013

Mozambico 1978: il clitoride come una penna biro



Il clitoride come una penna biro

( da Lotta Continua, p.9, 5-6 marzo 1979)


 Dicembre 1978.



Sono quattro mesi che vivo in Mozambico e il bisogno che ormai mi urge dentro di  razionalizzare e motivare il profondo coinvolgimento che provo nei confronti di questa rivoluzione, come donna e come comunista, cozza in modo angosciante con la consapevolezza della difficoltà di individuare canali reali attraverso i quali far comunicare esperienze di vita e di lotta  così diverse, radicate in strutture socio-economiche così distanti.
Ogni ricostruzione  di vicende che riguardano altre donne oppresse, di qualsiasi paese, non può che essere fatta empaticamente: la conoscenza dei presupposti di questa oppressione diventa immediatamente ricerca della ricomposizione di un mosaico dove, tra le tante tessere, ci sei anche tu.
Ma è un disegno tutto da inventare,  questo incastro dei frammenti di storie  singole di donne di continenti lontani  le une sulle altre, perché quando si arriva qui, nel Mozambico del 3° anno dall’Indipendenza  e dall’inizio del percorso rivoluzionario socialista, è difficilissimo un rapporto intersoggettivo tra  donne  dei paesi occidentali, laureate, politicizzate, che vengono a dare il loro contributo allo sviluppo della rivoluzione da “tecniche” ma anche da militanti, e le donne mozambicane.
Cerchi di aiutarti leggendo i documenti ufficiali, as directivas , la cui conoscenza è certamente necessaria, gli articoli di giornale, da ricucire con i discorsi che orecchi e le conversazioni  con altri compagni/e e, da incollare su ciò che osservi  o che ti sembra di intuire. I fuggevoli contatti che hai con le donne che lavorano accanto a te ma con le quali scambi poco più che saluti cortesi e qualche parola sul tempo, sulla famiglia, su circostanze specifiche che riguardano l’ufficio, lasciano aperte domande senza risposta.  Senti che c’è un abisso culturale, linguistico, economico, esistenziale.  Il portoghese ingessato che hai appena imparato  è per loro una lingua straniera, neppure seconda lingua, e la intendono anche meno di te. Poi ci sono le donne che incontri per strada, sempre con infanti sulla schiena, avvolte in capulane [1]stinte o sgargianti, che fanno file interminabili con le tessere del razionamento, file lunghissime di ore, spesso accovacciate a terra, ad aspettare il pane o l’autobus, le donne che danzano in modo meraviglioso. Irraggiungibili?

Maggio 2013.

Ho di quel primo periodo della mia vita mozambicana durata quattro anni due fotografie mentali.
 La prima è di una donna anziana, in fondo alla discesa del viale della Lumumba, che a gambe larghe e tese, alzando un poco il telo che la avvolge dalla vita in giù,  piscia nella concavità terrosa da cui emergono le radici contorte di un albero, forse un’acacia flamboyant[2], o forse un jacaranda. Stavo andando a prendere una medicina per mio figlio che aveva un po’ di influenza,  ero appena arrivata in Mozambico e avevo un biglietto scritto da un amico che mi suggeriva  cosa dire in portoghese al farmacista. Mi sono fermata interdetta per un attimo, e poi mi è venuto da ridere, da sorridere, a quella spontaneità senza ombra di esitazione e così scevra da ogni ingombrante e ipocrita pudore di fronte alla soddisfazione di  un bisogno fisico così naturale.  Certo a Maputo non c’erano servizi igienici pubblici allora, e non ce ne sono molti di più oggi.
La seconda  immagine è di una donna che danza sul palcoscenico fatto di poche assi polverose di un qualche teatro della baixa [3]insieme ad altre compagne di lavoro, quindi uno spettacolo di operaie o donne di quartiere. Un braccio le manca, dalla spalla sbuca un abbozzo di polso e una manina che si contorce.  Appare completamente a suo agio, nella fila c’è anche una donna che ha incollato sulla schiena  come un grosso fagotto un bimbo che sobbalza assicurato alla madre con la capulana  annodata sul petto. Non ho mai più visto una cosa del genere: non ci si sognava di parlare di “diversamente abili”, ma non ce n’era bisogno: ognuno aveva un posto in una società in trasformazione, ciascuno e ciascuna poteva e doveva avere un ruolo sociale ed una vita pubblica.

Dicembre 1978.

 L’interferenza dissonante si crea quando si percepisce con chiarezza che tutte le esperienze di lotta che abbiamo dietro come movimento, in base alle quali abbiamo negli ultimi anni compiuto scelte importanti , fa corto circuito con l’impostazione che il partito Frelimo[4] o l’O.M.M. (Organizzazione della donna mozambicana) danno alla lotta per l’emancipazione della donna. E quando questo corto circuito avviene in una situazione di coinvolgimento ideologico ed emotivo, si avverte una dolorosa contraddizione tra il riconoscimento della plausibilità delle posizioni ufficiali di questi due pilastri dello Stato e del partito (disciplina di partito, struttura piramidale  e rispetto della gerarchia, affermazione della validità della famiglia nucleare contro la poligamia, ecc..) e la impossibilità di accantonare, pur riconoscendole impraticabili in questo contesto, acquisizioni che per noi sono irrinunciabili, divenute una cosa sola con il nostro corpo e il nostro cervello: autonomia del movimento femminista, autodecisione circa la nostra sessualità, maternità come libera scelta, critica della famiglia  come struttura oppressiva. (..... qui la redazione aveva tagliato e io non ho più il mio testo originale).

...Far capire in quale contesto si inserisce il corto circuito di cui parlo è molto difficile, anche perché ovviamente la conoscenza  della struttura socio-economica e del ruolo in essa della donna, una conoscenza “dal di dentro”, presuppone una permanenza qui non di mesi, ma di anni.
Tuttavia i problemi più gravi, gli ostacoli maggiori sulla via della liberazione, sono così palesi e macroscopici che non ci possono essere dubbi sulla urgenza di spazzarli via per creare i presupposti di qualsiasi discorso  sulla emancipazione, o  liberazione, qui i termini sono intercambiabili : la superstizione e l’ “oscurantismo” alimentano il sistema di schiavizzazione della donna, che fa parte dei mezzi di produzione dell’uomo. Un uomo con molte mogli è un uomo molto ricco....( e qui il testo è di nuovo troncato).

Maggio 2013: oscurantismo.

Qui mi intoppo. Questo termine, così frequente nei discorsi del presidente di allora, Samora Machel, -morto (o piuttosto ucciso) in uno strano incidente aereo con altri ministri e dirigenti della Frelimo il 19 ottobre 1976, incidente  nel quale il regime dell’apartheid sudafricano fu fortemente sospettato di aver avuto pesanti responsabilità -   mi suscita  pesanti interrogativi, mentre allora non avevo neppure ritenuto necessario  spiegarne il significato ai lettori e lettrici di Lotta Continua.
 Con il termine “oscurantismo” si stigmatizzava gran parte della cosiddetta “cultura tradizionale” delle varie etnie mozambicane, che era fatta sì di superstizioni deleterie in campo sanitario, di oppressione della donna, dei bambini e soprattutto bambine, di introiezione del ruolo di colonizzato e quindi di auto-denigrazione e di sfiducia nelle proprie capacità di emancipazione, di feticci, ma anche di rapporti e legami antichissimi radicati nelle abitudini e nella coscienza della stragrande maggioranza della popolazione, di cultura orale tramandata di generazione in generazione, di conoscenze  che avevano permesso di resistere in circostanze  difficilissime, e infine di rispetto per le autorità “tradizionali”, i regulos,  che invece venivano stroncate e additate a pubblico ludibrio dalla Frelimo come strumenti del dominio dell’antica potenza coloniale, il Portogallo. Era insomma tutto il vissuto del 99% della gente che non veniva   riconosciuto come valore.
In un libro molto bello del 1990 [5]un antropologo francese, Christian Geffray, spiega con una indagine accurata e innovativa - svolta in una zona del paese (Nampula) che fu il fulcro della guerra civile che sconquassò il Mozambico dal 1983 al 1992 - la genesi della dissidenza e della ribellione armata contro il partito di governo, e individua in questo disprezzo sostanziale nei confronti della cultura tradizionale bollata in blocco come “oscurantista” e quindi da spazzare via, la mala radice dell’avversione nei confronti della dirigenza marxista del Frelimo, distante le mille miglia dal popolo che diceva di voler servire.
Tutti noi eravamo vittime di quella  illusione illuminista e marxianamente ingenua: certo non si trattava di assecondare ciecamente, ma di comprendere e relazionarsi, di analizzare e cercare insieme vie per avanzare, con umiltà intellettuale e perspicacia, riconoscendo il primato della realtà storica e antropologica. Ciò che non si fece, e che il Mozambico pagò con un milione di morti. Certo la guerra ebbe molte altre motivazioni, e fu soprattutto scatenata a partire dal Sudafrica dell’apartheid e appoggiata dagli Stati Uniti dietro di esso, ma  la cecità illuminista contribuì ad accenderla e a prolungarla.

Dicembre 1978

Forse, citando alcuni brani degli articoli e delle interviste riportati dal quotidiano  Noticias riuscirò a dare un’idea più chiara della situazione da cui deve partire la lotta per l’emancipazione della donna qui in Mozambico e delle difficoltà di inserimento in essa di “temi occidentali”.

Per quanto riguarda i riti di iniziazione femminili, una pratica assai diffusa consiste nello stiramento (il verbo usato é: esticar) del clitoride. In questo caso si tratta di un training imposto alla bambina sin da piccola. Riporto testualmente la testimonianza di una donna di Mafalala, quartiere periferico di Maputo, citata da Noticias (20 giugno 1978) .
“ Io sono di Chibuto e quando ero bambina mi hanno insegnato a tirare il clitoride fino a farlo diventare più o meno come una penna biro Bic. Bisogna farlo per ottenere maggiore piacere sessuale...Se non lo si fa, l’uomo ci lascia  e va in cerca di un’altra donna migliore di noi. Mia figlia ha 12 anni e sin da quando era molto piccola le insegno a prepararsi al matrimonio”.

Accanto ad una frase come quella relativa al maggior piacere sessuale che, a prescindere dal contesto comunque  costrittivo in cui si attua la pratica, potrebbe far pensare ad una consapevolezza del diritto legittimo a godere del proprio corpo, viene subito una frase che smentisce questa interpretazione “progressista”: altrimenti l’uomo ci lascia e va in cerca di un’altra.
Riporto ancora dallo stesso articolo: “ Questo problema (lo stiramento del clitoride come pratica iniziatica) ha provocato attriti tra le donne, non solo nel quartiere di Mafalala, ma anche in altri quartieri della capitale. Abbiamo parlato con una donna che ha il marito che si è preso una donna con un clitoride prolungato. Ci ha detto: “Mio marito ha per amante una di queste donne di Gaza[6], che ci rubano i nostri mariti perchè affermano di essere meglio di noi”. Ove si nota, invece che la consapevolezza rispetto al proprio corpo, l’uso di esso in funzione del piacere maschile e la rivalità tra donne, tra le più “apprezzate” e le “altre”.
In Mozambico non esistono nè l’ablazione del clitoride né l’infibulazione, ma la valorizzazione per così dire dell’organo sessuale del piacere femminile si traduce in realtà in umiliazione e mortificazione della donna in quanto persona. Inoltre si verifica la contrapposizione tra le donne “di piacere” e le donne di fatica, le produttrici, che forniscono forza lavoro gratis. Nei confronti di queste pratiche che, si noti, sono ancora tabù nel modo più rigoroso per chi le coltiva, l’atteggiamento del giornale è stato coraggioso: pubblicizzandole e smascherandone il senso ha suscitato molte reazioni, anche proteste vivaci, perchè ne ha messo in evidenza il carattere afflittivo nei confronti della donna e il significato reazionario....(altro taglio irrecuperabile).

....La poligamia, dicevo, è ancora diffusa, né potrebbe essere altrimenti, dato che la donna era in epoca coloniale un mezzo di produzione come un altro, che si comprava, e anche questa pratica è dura a scomparire [7]. In fondo, sono solo 3 anni di indipendenza.  Così si esprime un vecchio di Mapulanguene, nel distretto di Magude, a 100 km da Maputo: “ E’ molto tempo che ho pagato il lobolo[8] per mia moglie. Oggi lei è vecchia, ma chissà se i buoi staranno ancora a casa a lavorare nella casa dei suoi genitori?. E un altro, un padre: “Noi ci preoccupiamo che ci rimanga qualcosa in casa in cambio di nostra figlia. Se no, l’uomo se la porta via, per guadagnarci, ed io rimango senza niente” (Noticias, 7 luglio 1978).

La poligamia era un modo per affermare la propria ricchezza, per non lavorare in prima persona: le bestie da soma erano le donne[9]. Ed era incoraggiata dal regime coloniale come elemento di conservazione dell’esistente. In tale contesto, come stupirsi  se nei discorsi ufficiali, nella linea del partito e nella testa dei militanti , la famiglia monogamica, la regolarizzazione di un rapporto, l’eliminazione del cosiddetto libertinaggio sessuale diventano obiettivi rivoluzionari?

Un ultimo accenno all’autonomia delle donne prima di terminare. In Mozambico la linea che conduce alla emancipazione della donna  “deve essere tracciata da una organizzazione  politica rivoluzionaria che, assumendo la totalità degli interessi delle masse popolari sfruttate le guidi nella battaglia contro la vecchia società” (Samora Machel, Discorso introduttivo alla prima conferenza della O.M.M., 1973). E ancora si ribadisce che “ la donna per liberarsi deve assumere e vivere creativamente la linea politica della Frelimo (ibid.)
Difficile da accettare, per noi come femministe di oggi. Ma se pensiamo alla condizione di degradazione in cui vive la maggioranza delle donne, al fatto che queste parole furono pronunciate in un contesto di dura battaglia all’interno della stessa Frelimo, dove nel 1973 c’era chi pensava che la questione della emancipazione della donna fosse di secondaria importanza rispetto alla priorità della lotta contro i portoghesi, se si pensa che la Frelimo condusse una strenua lotta per l’unità di tutti gli sfruttati contro le divisioni interne al fronte di classe (e quindi tra uomini e donne), con quali argomentazioni si può criticare quella che ai nostri occhi non può che apparire “mancanza di autonomia”?  … ( nuovo taglio della redazione …..)

Giugno 2013

Qui terminava l’articolo, o meglio, il mio testo originale continuava con commenti e parole che non saprei certo ritrovare.

Mi pesa oggi l’astrale distanza da quei dilemmi e quelle tematiche, da quelle battaglie così lontane, mi pesa la constatazione di un abisso incolmabile tra quelle aspirazioni e speranze, tra quella tensione tenace che vedeva aperta una via maestra verso il miglioramento delle condizioni di vita e la realizzazione di conquiste sociali collettive e la realtà di oggi, in cui siamo rattrappite in una posizione difensiva . Si lotta contro il femminicidio, contro il mobbing, contro la discriminazione di genere, contro lo strapotere maschile in tutti i campi che contano: tutte lotte contro e non lotte per: per la libera espressione di sé, della propria vita, della propria sessualità, per l’autodeterminazione del rapporto con figli e partner, per  una vita felice, per la libertà dal bisogno, per la liberazione dal patriarcato ancora trionfante. Si lotta per non morire di violenza o di depressione. O di fame.
La speranza è un pertugio stretto, da scavare intorno perché resti  aperto, da forzare con il fiato che ci resta.





[1] Sono le gonne fatte di teli colorati, che oggi si chiamano “pareo”, che servono anche per reggere i bambini sulla schiena, per difendersi dal freddo, o anche come coperte.
[2] A Maputo si chiamano “acacias vermelhas”, acacie rosse.
[3] Il centro commerciale delle città portoghesi, e di colonizzazione portoghese.
3Frente de Libertação del Moçambique, il fronte che condusse la lotta armata di liberazione dal colonialismo portoghese e che si costituì partito con impostazione marxista-leninista nel 1977.
[5] La cause des armes au Mozambique. Anthropologie d’une guerre civile. CREDU-Karthala, Paris-Nairobi, 1990
[6] Una Provincia confinante con quella di Maputo.
[7] Purtroppo ancora oggi dopo 35 anni la poligamia è assai diffusa.
[8] Il prezzo della donna pagato ai genitori della sposa.
[9] Non so quanto sia cambiata la situazione oggi, ma una mia visita nelle zone rurali mozambicane nel 2010 non mi suggerisce ottimismo.