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lunedì 27 aprile 2015

VIAGGIO IN SUDAMERICA : PARAGUAY



SCAGLIE DI SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (2)



Paraguay


Sul Paraguay, seconda tappa del viaggio, avevo letto ben poco, a parte la presentazione del solito Lonely Planet: ai tempi dell’Università, un saggio sulla lingua guaraní  che mi era rimasto impresso: il guaranì era (ed è)  ancora usato abitualmente non solo  nella vita quotidiana ma anche in sede istituzionale, il che costituiva un’ eccezione socio-linguistica nella regione[1]; poi  articoli sulla longevità del dominio del dittatore Stroessner, al potere dal 1954 al 1989, senza interruzioni e soprattutto senza grosse contestazioni di piazza, nemmeno durante il periodo caldo dei focolai di guerriglia (anche se varie migliaia di oppositori politici furono arrestati, torturati e uccisi); infine,  il più recente capitolo sul breve mandato presidenziale  dell’amato (dal popolo)  e altrettanto odiato(dalle oligarchie del Partido Colorado) Fernando Lugo, ex religioso. Che, eletto quasi per sbaglio, riuscì a resistere quattro anni, dal 2008 al 2012, e prima della scadenza costituzionale fu costretto alle dimissioni da una mozione di impeachment votata a grande maggioranza dal Parlamento sulla base di fatti che hanno costituito dei pretesti, salutati con sollievo da latifondisti, militari e dagli altri poteri forti. Tutti notabili che mal sopportavano i tentativi di  realizzare la promessa elettorale di riforma agraria dell’ex vescovo: il 2% della popolazione possiede l’85% della terra (www.oxfam.org). 
 Ricordavo poi di aver ascoltato un reportage della BBC nel 2011 sull’esproprio delle terre dei campesinos  a vantaggio delle multinazionali della soia, una denuncia bruciante dell’accaparramento di terre che impazza da almeno dieci anni e dilaga sempre più in Africa e in America del Sud.  Sulle piantagioni di soia si veda, tra le tante possibili  fonti : http://www.coha.org/soybean-wars/.

L’impatto che  ricevo entrando nel paese via terra non è dei migliori, anche se mi ritengo non una turista ma una viaggiatrice pronta alle incognite: in primis, autobus sgangherato, che allontanandosi dal terminal di Posadas e raccogliendo via via passeggeri alla volta del Puente San Roque sul Paranà, che segna la frontiera tra Argentina e Paraguay, si riempie in modo disumano, anche  tenendo conto  del caldo canicolare; giunti all’ufficio di frontiera, tutti giù dall’autobus e fila interminabile sotto il sole a picco del solstizio estivo (23 dicembre) fino a ottenere il timbro di uscita; poi  di nuovo tutti sull’autobus (ma attenzione, non è lo stesso di prima, il flusso di gente e di mezzi é continuo, quindi ci si pigia dentro il primo veicolo che arriva  fino a che questo non parte schiacciando l’ultimo grappolo di gente contro le portiere. (Nella foto, l'autobus é ancora semivuoto, impossibile fotografare nella calca). 

Si giunge all’altro capo del ponte, dove si scende di nuovo e si riforma la fila per ottenere il visto di ingresso. Intanto è sempre più caldo, i pendolari paraguayos che tornano a casa per le feste hanno fardelli di proporzioni gigantesche che vanno controllati, quindi disfatti e ricomposti; insomma, un martirio. Ovviamente il contrabbando transfrontaliero nutre molte bocche, e immagino che vari bigliettoni di guaraní ( si chiama così la valuta locale) scivolino sottobanco tra le pile di scartoffie. Beh, questo è il contrabbando di terz’ordine dei poveracci: il narcotraffico è fiorente ma soprattutto attraverso Ciudad del Este, a nord, e certo ha ben altri mezzi dei fagotti dei pendolari. Intanto tutti chiacchierano facendo la fila, nessuno si arrabbia, l’atmosfera è festosa, il che mi solleva lo spirito. A mezzogiorno circa si arriva al terminal di Encarnación, anche questo scalcinato e senza servizi igienici degni di questo nome. Sembra l’Italia, mi dico! Ma il Paranà è bellissimo, scintilla e sfavilla, e il cielo si apre come un ventaglio blu metallico. Qui accanto, un Paranà serale.



In pochi minuti trovo un hotel decente al modico prezzo di 9 euro  dove incredibilmente accettano il Bancomat e c’è un ottimo wi-fi, tutti sono gentilissimi e scopro che ci sono bus frequenti per  arrivare alle Reducciones Jesuíticas, una delle mete principali del viaggio.


Le Reducciones sono così designate perché  la Compagnia di Gesù si stabilisce in Paraguay per realizzare la “reducción a la vida política y humana del indio aguaran” (www.ifch.unicamp.br/ihb/estudos/), e fonda delle vere e proprie enclaves fortificate per difendere gli indigeni dallo sfruttamento cui erano sottoposti dai cosiddetti Paulistas,  i proprietari di terre di San Paolo in Brasile, che ne andavano a caccia per venderli come schiavi o sfruttarli essi stessi nelle  encomiendas, le  loro piantagioni. I Gesuiti stabiliscono quindi delle cittadelle dove si rifugiano centinaia di migliaia di indiani che vengono naturalmente anche evangelizzati, oltre che addestrati militarmente per difendersi, e questo in un Paraguay che tra l’inizio del 1600 e la seconda metà del 1700[2] comprendeva anche parti dell’attuale Argentina, della Bolivia, del Brasile e dell’Uruguay, un territorio grande quasi come l’attuale Europa occidentale.


Vicino a Encarnación ci sono le rovine magnifiche di due Reducciones:  SS. Trinidad del Paranà e  Jesus del Tavarangues. Le visito tra il 24 e il 28 dicembre: soprattutto SS. Trinidad mi incanta con il suo silenzio sovrano, il cielo azzurro e la maestosità della chiesa principale,  navate, pulpiti, portali e colonnati, il tutto tra il verde sfolgorante del prato e rare palme svettanti, con condimento  di cinguettii  e gorgheggi esotici. Le volte non esistono più:  in una notte crolla la cupola principale, i cementi non sono sufficienti per sopportarne il peso soverchio  e la riparazione abborracciata  con mattoni non riesce a frenare il progressivo sfacelo, soprattutto una volta che i gesuiti sono stati espulsi. A poco a poco alcune parti sono utilizzate in altre costruzioni e il disfacimento è ormai progressivo. Nel piccolo museo c’è la maquette che mostra la basilica come era nell’epoca del suo fulgore e ricostruisce le tappe della fondazione della Reduccion e le caratteristiche  di questo capitolo così originale della storia del Sudamerica.  L’architetto era un  italiano, Gianbattista Primoli, che la progetta nel 1745, con ardite cupole che si inarcano sulle navate immense e disegna capitelli, fregi, statue, pulpiti e fonte battesimale di un barocco sobrio, il tutto realizzato  in una pietra rosata, intagliata squisitamente da artigiani locali. Le cave sono a pochi km.


Oltre alle rovine della chiesa  principale e di altre cappelle si vedono ancora i colonnati della scuola, le fondamenta delle case dei padri e degli indigeni, le delimitazioni degli appezzamenti da lavorare, i magazzini, il cimitero. Le tupa-mbaes, le “haciendas de Dios” producevano i beni  collettivi, mentre le aba-mbaes costituivano le piccole proprietà private ad uso delle famiglie. Il sistema di governo di queste comunità contemplava  una gerarchia solida ma flessibile e passava dalla base attraverso le filiere di comando indigene dei caciques fino al vertice dei padri gesuiti. . E’ una città che si cerca di indovinare, di rievocare, facendola risorgere con l’immaginazione dalle tracce lasciate, dalle pietre annerite, dalla quiete assolata.  Vicino alla chiesa c’è un lapidario  assai ricco. Per fortuna i frammenti erano rimasti sepolti dalle macerie e non sono stati saccheggiati: sono stati anche realizzati restauri parziali recenti.


Jesus de Tavarangues è egualmente bella ma meno estesa, ciò che resta della chiesa appare meno imponente, ma spicca l’arco moresco, unico nel suo genere. Più difficile da raggiungere, occorrono due autobus e il secondo non ha orari certi, ci arrivo in autostop sulla motocicletta di un cortese giornalista. Ecco l’arco moresco.

 
Al ritorno, perdo per un attimo il bus e aspetto un bel po’ di tempo, ma per fortuna chiacchiero con una mamma che ha una bambina deliziosa.Nell’autobus del ritorno un anziano si lamenta del fatto che il “loro” presidente sia stato silurato: ora predominano politiche super-liberiste. Sfoglio qualche giornale nell’albergo: soprattutto vedo celebrare tassi di crescita intorno al 5-6% e previsioni mirabolanti per il 2015: viva la crescita dei profitti.

E’ la stagione delle piogge e per qualche giorno l’acqua viene giù a catinelle, non c’è molto da fare, l’unico museo di storia è chiuso, aspetto che ritorni il sole per visitare un parco a qualche decina di km raggiungibile con i mezzi pubblici, il Parco Manantial. Visita deludente: sentieri poco percorribili dato il fango, animali invisibili, sole e pioggia si avvicendano, si è avvolti da tanto verde, solitudine  e una umidità atomica. Per tornare a Encarnación cammino per qualche km, non trovo un segnale di fermata di mezzi collettivi finché non incontro un altro camminante che mi indica dove aspettare l’autobus: si fa una chiacchierata e intanto un furgone arriva da Ciudad del Este. E’ un altro che mi sconsiglia di andarci: anche il Lonely Planet puntualizza che “ a parte Ciudad del Este e certe zone di Asunción, il Paraguay è abbastanza sicuro rispetto ad altri paesi dell’area”.

Mi rendo conto che viaggiare in Paraguay  nel periodo sbagliato e in più con un budget limitato, il che esclude molte escursioni organizzate (care) e noleggio in solitario di 4X4 (carissimo) non è la mia massima aspirazione. Quindi decido che andrò a Iguazú  passando per l’Argentina e non risalendo il Paraguay e che il Chaco si potrà assaggiare più a sud., Il giorno dopo faccio fagotto, rinuncio a Asunción e al Chaco  paraguayo e mi imbarco di nuovo sugli scassatissimi bus alla volta del maledetto Puente San Roque e di Posadas, preparata alle forche caudine del doppio controllo di frontiere.





[1] Una norma costituzionale già nel 1992 decretava che “il Paraguay è un paese bilingue e multiculturale. Le lingue ufficiali sono il castigliano e il guaraní”. Una legge speciale è stata adottata poi nel 2011 per sancire che il guaraní è la seconda lingua ufficiale del Paraguay.


[2] I Gesuiti vengono espulsi dal Paraguay dal re Carlo III di spagna nel 1768.

sabato 18 aprile 2015

VIAGGIO IN SUDAMERICA: URUGUAY

SCAGLIE DI SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (1)

 Buenos Aires vista dal Mar de la Plata

Da novembre 2014 a febbraio  2015 ho percorso varie migliaia di km da Buenos Aires a Lima, in autobus principalmente: solo un tratto del sud della Bolivia l’ho coperto in treno, e un altro tratto in aereo, dato che la strada era danneggiata da piogge e frane  tra Sucre e Cochabamba, sempre in Bolivia. 

Ho toccato cinque paesi: Uruguay, Argentina, Paraguay, Bolivia e Perù. E’ stato un grande privilegio poter andarmene a zonzo disegnando il percorso man mano che avanzavo, correggendo traiettorie  a seconda degli interessi, degli stimoli e delle curiosità, a volte  costretta dalle condizioni metereologiche a modificare la meta. Molti parchi naturali si sono rivelati difficilmente raggiungibili con mezzi pubblici o poco agibili per fango e piogge, come in Paraguay, il paese logisticamente più arduo da negoziare in autobus e a piedi.
Di ogni paese ho conservato impressioni molto diverse: città e paesaggi fortemente caratterizzati, visi persone incontri variegati, musei indimenticabili, e su tutto  dominano nel ricordo  alcune realtà  più dure e sconvolgenti: la “mineria”, la vita nelle miniere di Potosí: Cerro Rico è a 4700 mt di altezza. E ho colto per la prima volta non solo intellettualmente, librescamente, alla lontana come un’eco spenta, ma con il sentimento, quel che può aver significato la Conquista per il sub-continente: l’azzeramento, l’annichilamento, il genocidio non solo di popolazioni intere, di milioni di schiavi africani, ma di culture millenarie, di centinaia di enclaves ricchissime di tradizioni, storia, filosofia, lingue e scritture, tutto finito e trasformato in fossili da archivio, reperti museali. Oppure, e nel migliore dei casi, trasfuso e meticciato  in nuove entità culturali criolle. 
Anche le mummie sembrano urlare la loro protesta.
 Mai ne avevo visto tante, e così icastiche, vocali, dalle bocche contorte dischiuse in un grido muto,  ancora vestite dei brandelli di cinquecento anni fa, capelli pervicacemente attaccati alla testa, sandali ai piedi.  I musei brulicano di una incredibile profusione di strumenti musicali, di oggetti d’arte, di vasi, statue, gioielli, manufatti, tessuti  che rimandano alla  cultura immateriale che li ha generati, a  visioni del mondo: le vene aperte dell’America Latina non sono più solo un libro che hai letto chissà quando, diventano esperienza “vivida” e interiorizzata di una violenza immane, protratta per secoli di spoliazione e di schiavitù. Tanto più palpabile fisicamente  in paesi dove quasi non esistono più né indigeni né meticci, come in Uruguay e Argentina; gli abitanti  sono quasi  tutti di discendenza  europea,  persone con cognomi italiani, baschi, castigliani, portoghesi,  tedeschi, e così  via. Certo, lo si sa anche prima di arrivare, ma ripeto, è una cosa diversa rendersene conto dall’altra parte dell’Atlantico.

Museo Precolombino, Montevideo

In contrasto con i due paesi più europeizzati, Uruguay e Argentina, in Paraguay il 90% della popolazione si dichiara meticcio, il che salta agli occhi dal primo sgangherato autobus paraguayo che prendo a Posadas, sul fiume Paranà,  per attraversare la frontiera e arrivare a Encarnación (Paraguay).  
Anche in Bolivia basta passare il posto di frontiera con l’Argentina a Villazón, a sud, per rendersi conto di entrare in un mondo indio: donne in “pollera”, la gonna lunga e arricciata diffusissima, trecce nerissime e lunghissime dietro la schiena e legate tra di loro in fondo per tenerle ordinatamente parallele, cappello rotondo di paglia o a bombetta (attenzione, ci sono differenti tipi di bombette, quelle di La Paz sono diverse da quelle portate dalle donne del sud), e un immancabile grembiule.
Mi ci è voluto più di un mese per ordinare le foto e gli appunti. Di ogni paese ho selezionato alcuni aspetti. E comincerò seguendo un ordine cronologico dall’Uruguay, dove sono stata quasi un mese, fino a Natale.
  
Uruguay

Ci sono arrivata a ridossso delle elezioni presidenziali: l’amatissimo e popolarissimo Pepe Mujica, ex guerrigliero Tupamaro imprigionato e torturato durante la dittatura (anni ’70-80) aveva terminato il suo mandato durante il quale aveva fortemente contribuito a far conoscere l’Uruguay nel mondo con la sua comunicativa, le sue iniziative democratiche, il suo stile di vita frugale e la sua onestà intellettuale. Si votava il 30 novembre, domenica, il favorito era Tabaré Vasquez, del Frente Amplio, la stessa formazione politica di Mujica. La sera dello stesso giorno gli exit polls davano già certa la vittoria di Vasquez, e il centro di Montevideo esplodeva di gioia: scorribande di auto strombazzanti con bandiere del Frente e dell’Uruguay, una folla di gente in strada che si radunava spontaneamente, si spostava in direzioni diverse, un frastuono di gioia e sollievo, persone che si abbracciavano, volti infiammati di allegria, da molto tempo non avevo visto un tripudio politico così coinvolgente e contagioso. Il mio telefono non era un gran che come fotocamera soprattutto per cogliere il rapido movimento di auto e folla, ma ecco alcune delle foto che sono riuscita a fare.


Mi sono coricata allegrissima, scoppiettante: che differenza tra il nostro clima politico e quella festa! Che invidia! E anche, quanti ricordi di speranze deluse sui nostri lidi. 

Il paesaggio uruguayo ( pronuncia: uruguajo, con j francese) più spettacolare è quello della costa: l’interno offre panorami distesi molto verdi e  ameni di quiete campestre e boschiva, senza scenografie drammatiche, senza contrasti violenti: dolci colline a perdita d’occhio, mandrie al pascolo, cavalli e sentieri bianchi, erbe alte, cactus e cespugli fioriti. L’albero nazionale è il ceibo, dai fiori rosso fiamma (foto non mia).

Le spiagge sono bellissime: chiaramente non le ho potute visitare tutte, ho selezionato alcune tappe saltando Punta del Este, la più rinomata e turistica, quindi la più affollata: ho visto Piriapolis, La Paloma, Cabo Polonio e Punta del Diablo, la mia preferita, selvaggia e immensa, spazzata dal vento, piena di luce anche quando piove.

A La Paloma ho visto uno spettacolo per me meraviglioso e singolare: la spiaggia era disseminata di stranissime uova semitrasparenti, giallognole, grandi come uova di gallina e un po’ ammaccate, alcune piene di un liquido appiccicoso, altre, la maggioranza, ormai vuote. Se piene, la pellicola translucida lasciava intravvedere qualcosa all’interno che non riuscivo a distinguere. Mentre le guardavo perplessa, un signore con attrezzatura da sub si è fermato e mi ha spiegato che si trattava di uova di lumachine di mare, che si riproducono in primavera e che ogni anno inondano la riva di migliaia di uova come quelle che stavo guardando.” E se guarda bene dentro, vedrà le lumachine neonate!” Infatti. In alcune uova ce n’erano numerose, in altre due o tre, ed infine le vuote erano state già abbandonate dalle neo-lumache
Mi sono rivolta a un amico biologo marino per avere maggiori lumi via internet: mi è stato spiegato che si tratta di aplysie. E quale la mia soddisfazione nel leggere con cognizione di causa, qualche settimana fa, in un articolo di una rivista scientifica che questi minuscoli molluschi sono usati per studiare la sede della memoria umana (.I ricordi perduti potrebbero essere ripristinati: speranza per l'Alzheimer),rr), che pare risieda  nel nucleo dei neuroni  e non, come pensavano molti studiosi, le sinapsi.
 
Sapevo che la bevanda nazionale uruguaya, come in Argentina, è il mate, ma non credevo a tanta ubiquità. Quasi ognuno si sposta,  a piedi e in macchina, con la sua “matera”, cioè una specie di valigetta aperta che contiene il kit completo per bere mate tutto il giorno: thermos con acqua calda, tazza, erba mate e bombilla, la cannuccia per sorbire il the. E la parola mate, che deriva da una parola quechua che significa tazza, designa appunto non l’erba ma il recipiente da cui si beve, che tradizionalmente era una calabaça, oppure una tazza scavata nel legno  o addirittura di guampa, cioè di corno di vacca. Ce ne sono di antiche molto belle esposte in vari musei che ho visitato che celebrano la “vida gaucha”.


Altro aspetto caratteristico dell’Uruguay: la vita del gaucho. Come mi spiega il custode di un interessante museo che visito un sabato sera a Salto, dove attraverserò con una lancia  il confine con l’Argentina sul rio Uruguay, il gaucho non ha casa, non ha moglie, non ha altro mestiere che vagabondare e procacciarsi il necessario per continuare a farlo. Se si ferma presso una donna non è per restare più di tanto: i figli (ovvio) li alleverà lei, la sua legge è il nomadismo, vive a cavallo, dorme per terra, mangia nei bivacchi, ed è un solitario. Ho chiesto a un gaucho che viaggiava in autobus accanto a me il permesso di fotografarlo: aveva un viso asciutto che non riuscivo a smettere di guardare, caratteristico come era. E dove andava? Ma naturalmente in un villaggio dove c’era una festa gaucha! Accanto al gaucho, un “asado” (arrosto)  che ho visto preparare a Tacuarembo alle 10 di mattina di una domenica di dicembre.
E per finire, il rio Uruguay, amplissimo e maestoso, a Salto, dove ci sono delle piacevolissime e bollenti acque termali in un vasto giardino fiorito e ombroso.