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venerdì 3 febbraio 2017

LA PAROLA RAZZA



METAMORFOSI DELLA PAROLA RAZZA: DALLE STELLE ALLE STALLE

 Cavallo arabo
 
Che razza di mascalzone! Razza padrona. Razze di cavalli da sella. Scrittore di razza. Uso figurato e non, locuzioni correnti, innocue, spregiative o elogiative, sulle quali credo che l’Accademia della Crusca non avrebbe nulla da obiettare. Ma quando si tratta di “razza” abbiamo a che fare con una parola speciale, carica di storia, una parola che ha provocato stragi immani e che continua ad uccidere. Rispunta più caparbiamente che mai nell’Europa contemporanea come sostrato sul quale germogliano locuzioni apparentemente più pudiche che istigano comportamenti criminali. Al di là dell’Atlantico non si è mai smesso di usare il termine “race” nel mondo accademico: i “racial studies” costituiscono un filone ufficiale in molte facoltà umanistiche. Ma lasciamo da parte Stati Uniti, Brasile o altri stati americani, perché costituiscono un capitolo a parte.

Quello che stupisce è la vitalità di un concetto la cui inconsistenza scientifica e la cui fallacia è stata dimostrata sulla base di rigorose ricerche già negli anni ’40 del 900, proprio quando in Europa imperversavano il nazismo e le leggi razziali fasciste. Per rendersene conto basta leggere il bel libro di M.F. Ashley Montagu (a fianco a sinistra) La Razza: Analisi di un Mito, la cui prima edizione apparve negli Stati Uniti nel 1942 (data della prefazione), tradotto in Italia per i tipi di Einaudi nel 1966, nel quale lo scienziato demolisce la attendibilità del concetto “razza” sotto ogni punto di vista. Più recentemente, con lo sviluppo degli studi di genetica ed epigenetica e in particolare sulla base del lavoro del genetista Luigi Luca Cavalli Sforza e della sua équipe di scienziati, risulta anche più chiaro che le razze umane semplicemente non esistono: tra l’altro, …“vi è una grande eterogeneità tra gli individui qualunque sia la popolazione di origine”[1] e paradossalmente la variazione intra-gruppi, siano questi ultimi città, villaggi o regioni, addirittura continenti, è maggiore della variazione inter-gruppi, riferita alle stesse entità (Cavalli Sforza, ibid., pag. 33).
Eppure il razzismo – questa ameba dai tratti cangianti inscindibile dal concetto di razza - uccide ancora, anche in Italia. Parafrasando il titolo di un libro di un altro famoso linguista e filosofo del linguaggio, John Austin, si potrebbe dire che è un esempio lampante di come si possa uccidere con le parole[2]. Per menzionare un fatto recente di cronaca nera italiana, spia eloquente di un atteggiamento diffuso e banalizzato, si pensi all’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi a Fermo l’estate scorsa, avvenuto in seguito ad un commento ingiurioso nei confronti della moglie della vittima (qui sotto, Emmanuel con la moglie). E il rifiuto da parte di tanti comuni italiani di accogliere migranti non è solo motivato dalla povertà in aumento e dalla mancanza di servizi sociali adeguati, ma anche da pregiudizi e stereotipi che se non razzisti possiamo definire legati a paure irrazionali di contaminazione culturale. Infatti il concetto di “razza” è associato a tutta una gamma di altre entità cognitive, a un vasto campo semantico che sarebbe indispensabile esplorare più da vicino per scoprirne le ramificazioni attraverso la storia, a partire dalla sua etimologia, che rivela un’origine insospettabile.
Il grande linguista e critico letterario austriaco Leo Spitzer (qui sotto a destra), in un saggio scritto tra il 1933 e il 1941, ricostruisce l’etimologia di “razza” e le trasformazioni subite dal termine e dai termini linguisticamente attigui legati all’etimo originario. Contestando ipotesi precedenti[3], dimostra “con argomenti fonetici e semantici”, che il latino ratio in forma dotta sta alla base delle nostre espressioni moderne per razza, “cioè, più specificamente, alla base dell’italiano razza, che le altre lingue, a quanto pare, avrebbero preso in prestito”. Il punto di partenza è un passo di Cicerone citato dal Georges: “dissuerunt de generibus et rationum civitatum,….[4]ove dissuerunt sta per “discussero” e rationum (genitivo plurale di ratio) è interpretato dal Georges come: “relazione, proprietà, natura, modo e maniera, disposizione”. Origine stupefacente di una parola che, negli anni in cui Spitzer scriveva il saggio, designava una realtà biologica, quasi zoologica, inchiodata ad una essenzialità immutabile attraverso le generazioni. Lo studioso sottolinea il suo “piacere pieno di malizia” nel presentare alla Germania l’origine altamente spirituale di un termine all’epoca usato in contrapposizione a “spirito”.

Quindi ciò che oggi è una parola basata su una fallacia cognitiva clamorosa, sul naufragio della ragione, scaturisce dal latino ratio, che in italiano accostiamo spontaneamente a “ragione”. Ma come è stata possibile tale deriva?
Dall’epoca ciceroniana si sviluppa una specie di epopea del termine che è un viaggio attraverso due millenni di storia religiosa e sociale. Religiosa perché Spitzer rintraccia l’uso di rationes in Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologica: rationes sta per “tipi” e sviluppa il concetto platonico delle idee preesistenti alle cose. Dio “in quanto è la Idea dell’universo, contiene in sé tutte le idee delle cose” (ibid., p. 231). Quindi rationes rende il concetto di “idea” e si evolve fino a significare tutti i “tipi” delle cose che esistono riassunti nel contenitore divino. Puro platonismo. Di fatto Tommaso non fa che riecheggiare S. Agostino, secondo il quale tutte le rationes rerum, tutti i tipi di esseri/cose, sono contenute nella mente divina. La traduzione francese della Summa Theologica (Lachat, 1880) interpreta rationes rerum come “leurs types immuables et permanents”. In particolare, Lachat più avanti traduce rationes come “natures particulières”, ove chiaramente affiora la vicinanza semantica al significato novecentesco della parola razza. Ma addirittura il Lachat si dilunga sul concetto di rationes rerum accostandolo attraverso il senso già assodato di “idea platonica” al logos greco, e al nous, cioè il pensiero puro, spirito e verbo: “Queste parole significano ciò attraverso cui l’intelligenza ragiona (funziona) o parla a se stessa” (Lachat, citato a p. 234, trad. mia). Non manca Aristotele: in un testo francese come la traduzione di Oresme (sec. XIV) dell’Etica di Aristotele (troviamo) “raisons et espèces” collegate, a testimonianza della deriva semantica di “ratio” verso “species”, quindi anche razze nel senso zootecnico.

E’ chiaro  che, se rationes può assumere il significato di “tipi”, il passaggio a “razze” è presto fatto. Ma ci sono ancora secoli tra queste elucubrazioni dei Padri della Chiesa e l’oggi. E’ interessante notare un uso in inglese della parola “race”, chiaramente coniata su “razza” come il “race” francese, “raça” portoghese e “raza” spagnolo[5], in un contesto alquanto inconsueto; il dottor Johnson, scrittore e dotto inglese del ‘700, scrive nel 1783: “I hope (her disease) is not of the cephalic race”, cioè, traduce Spitzer: “Spero che la sua malattia non sia di razza cefalica”.
Il significato spregiativo di “razza” è rintracciato da Spitzer nei testi biblici: egli cita il Vangelo di Matteo nel quale Giovanni Battista chiama i Farisei “progenie di vipere”, che le traduzioni francesi rendono con “race de vipères”. Ed effettivamente, rincara il linguista, l’insulto “espèce d’idiot!” è assai più forte di” idiot!”: “specie di” accenna “ad una sfumatura animalesca”.
L’ultimo tassello per arrivare alle teorie razziste del Terzo Reich e al loro attuale nefasto risorgere in Europa si trova nel positivismo evoluzionista del Taine, che sotto l’influenza di Darwin applica “il concetto di razze animali allo svolgimento della storia umana” (ibid. pag. 238). E così L. F. Clauss (1935) può candidamente asserire nel periodico Rasse che la razza è una “legge di struttura ereditaria che agisce in qualsiasi proprietà possa l’individuo mai possedere e le conferisce uno stile (sic!)” e E. Glässer (1939) afferma a sua volta:” Il fondamento biologico del concetto di razza implica che la razza mantenga nel suo evolversi le proprie qualità specifiche”. Siamo agli antipodi della moderna scienza genetica che mostra come il gradiente di differenziazione genica inter e intra gruppi anche ristretti sia difficile da determinare e funzione di molte variabil,i tra le quali la distanza geografica, l’influenza dell’ambiente esterno e le mutazioni casuali. A proposito della classificazione dei gruppi umani il Cavalli Sforza conclude: “Mi sembra più saggio rinunciare a una classificazione impossibile o totalmente arbitraria” (op.cit. p. 58). Meglio allora parlare solo di razze bovine o equine. Appunto, dalle stelle platoniche e tomistiche, dalla mente divina, alle stalle degli allevatori.

Accennavo prima alla vastità di un campo semantico nel quale il termine “razza” può collocarsi al centro, dal quale si dipanano concetti diversi ma con un certo grado di affinità con esso e che egualmente servono bene lo scopo di discriminare, classificare e gerarchizzare secondo scale di valori arbitrarie gruppi umani e individui ad essi appartenenti. Pensiamo a termini come etnia, cultura, civiltà, e alla famosa quanto fumosa “guerra di civiltà” di Huntington, al persistente sentimento di superiorità più o meno confessato nei confronti di persone “di colore”. Negli anni ’90 si è cominciato a discettare di “etnie” anche per quanto riguardava l’Italia, attribuendo al termine una realtà statica, biologica e non di costume, immune alle aleatorietà dei percorsi storici, degli incontri di popolazioni e fluttuazioni migratorie, delle idiosincrasie individuali o di gruppo. Le velleità secessioniste della Lega Nord italiana si reggevano su fantasiose ricostruzioni di ascendenze celtiche delle popolazioni del Nord-est. Tanto più ridicola la pretesa se si conosce la storia della nostra penisola, terreno di innumerevoli invasioni, occupazioni e scorrerie dei popoli più diversi da millenni. 
 La costruzione truffaldina di fantomatiche “etnie” ha rivelato soprattutto in Africa la sua venefica potenzialità assassina. Il caso del Burundi è una illustrazione di scuola delle conseguenze nefaste delle etichette inventate e apposte ad arte dal colonizzatore per dividere la popolazione colonizzata e meglio imporre il proprio dominio. Nel Burundi precoloniale le due “etnie” oggi presentate come in perpetua contrapposizione non esistevano: la popolazione constava di quattro categorie sociali: Bahutu, Batutsi, Baganwa e Batwa, che obbedivano a un unico mwami (re), immerse in una cultura omogenea e parlanti una stessa lingua[6]. Il colonialismo belga cominciò a favoleggiare di ascendenze Egiziane e Etiopi dei Batutsi, in generale alti e slanciati, dai lineamenti più fini, mentre la maggioranza dei Bahutu aveva caratteristiche fisiche più rispondenti all’idea classica dell’africano Bantu: erano tarchiati e dai lineamenti marcati, labbra spesse, naso schiacciato, statura più bassa. A delle caratteristiche fisiche si apposero poi doti morali o al contrario difetti: i Batutsi furono esaltati come più intelligenti, affidabili e seri, e furono privilegiati nella scolarizzazione e negli impieghi statali, mentre i Bahutu venivano designati come pigri, sfuggenti, incostanti, per cui furono relegati nei bassi ranghi sociali. I Batwa (pigmei) erano dipinti come nati per servire, come classe sottomessa da sempre, dei paria. I Baganwa, originariamente una aristocrazia dinastica e principi di sangue, furono assimilati ai Batutsi. 


In pochi decenni il colonialismo belga riuscì a creare una fasulla cristallizzazione etnica e a porre così le premesse delle sanguinose guerre civili che scoppiarono appena poco dopo l’indipendenza (nel 1965 e nel 1972) le cui conseguenze sono ancora vive oggigiorno. Il Rwanda non ebbe sorte migliore anche se le proporzioni delle due “etnie” principali erano rovesciate, e l’odio che scaturì dalla rivalità etnica sfociò nel genocidio del 1994.
Di ogni discriminazione, di ogni classificazione, di ogni etichetta che prescinda dall’individuo in carne ed ossa nella sua unicità si può dire ciò che Max Müller, citato da Spitzer, diceva nel 1888:” Per me, un etnologo che parli di razza ariana, di sangue ariano, di occhi e capelli ariani, è un criminale non meno grande di un linguista che parli di un dizionario dolicocefalo o di una grammatica brachicefala” (Spitzer, ibid., pag. 325). Forse nelle scuole, alla televisione, nei giornali e riviste i governi di questa Europa sempre più minata alle fondamenta dovrebbero insistere molto di più sulle implicazioni di questo passato che protende la sua ombra cupa sul presente, e astenersi dallo stringere patti col diavolo per tentare di arginare un’ondata migratoria impossibile da fermare: la storia non si blocca ma può deflagrare.







[1] Luigi Luca Cavalli Sforza. Geni, Popoli e Lingue. Adelphi, 1996.
[2] John L. Austin. How to do things with words. 1962.
[3] Salvioni e Meyer-Lübke.
[4] Leo Spitzer. Critica stilistica e semantica storica. Laterza, 1966, p.230.
[5] Il tedesco ha invece, oltre a “Rasse”,” Art”, usato nei composti artfremd= estraneo alla razza, arthaft= consentaneo alla razza, arteigen= proprio alla razza, ecc. Si noti: die Arten der Tieren= le specie di animali, ove il connotato zoologico emerge in pieno (esempi tratti da L. Spitzer, op.cit.).
[6]Joseph Gahama e Augustin Myuyekure. » Jeu ethnique, idéologie missionaire et politique coloniale. Le cas du Burundi », in J.P. Chrétien et G. Prunier. Les ethnies ont une histoire. Karthala-ACCT, 1989.