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giovedì 28 maggio 2015

VIAGGIO DALL'ATLANTICO AL PACIFICO: BOLIVIA E SUD PERU'




SCAGLIE DI SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (5- fine)

Scorcio di Sucre scendendo dalla Piazza della Recoleta
BOLIVIA 2


Da Potosí scendo a Sucre, altra bella città a saliscendi, altre belle chiese candide e altro barocco. Mi incantano due musei superlativi per interesse culturale, storico e artistico: il Museo Etnologico (http://www.musef.org.bo/) e il Museo di Arte Tessile (alcune diapositive di tripadvisor: https://www.youtube.com/watch?v=fKTdntL_jeE, ben pallido riflesso della ricchezza dell’esposizione).

Il primo ha maschere di una bellezza, inventiva e originalità travolgenti: tutti i personaggi delle colonizzazione vi hanno spazio, trasfigurati sbeffeggiati sublimati. Ma vi si celebra soprattutto la centralità delle divinità ancestrali e l’ipostatizzazione degli antenati, il cuore di tutta la religiosità tradizionale in ogni latitudine, dall’Oceania alle Ande, dal Sahel alle foreste pluviali. Molte le maschere degli Añas, gli antenati: Aña è lo spirito tutelare dei morti: i danzatori mascherati celebrano il ritorno degli antenati e la continuità del lignaggio, la catena dell’essere che lega i vivi ai morti indissolubilmente. Mi vengono in mente le danze dei revenants (gli antenati che si reincarnano nei viventi attraverso le maschere ) cui ho assistito in Benin: identico lo spirito e il significato. In Madagascar si balla addirittura con i cadaveri  dei propri familiari estratti dai loro tumuli.  Una delle maschere/personaggi  che sbeffeggiano gli spagnoli si chiama pakhoci, da pakho che significa “rosso”: si sovrappone il colonizzatore paonazzo per il sole all’immagine del diavolo. 
 

Pieno di scoperte anche il Museo di arte  tessile indigena:  un video racconta la protesta dei Chullpa Puchus, la minoranza andina più numerosa. Si lamentano dell’ imposizione di usanze  estranee che falsificano la loro identità attraverso oggetti e ritmi alieni: le case tradizionali a pianta rotonda sono diventate quadrate, i loro tetti di fibre di paglia intrecciate sono stati sostituiti da lamiere che bollono nel mezzogiorno  e gelano di notte, i sistemi ancestrali di irrigazione degli Uru Chipayas non esistono più. Questi ultimi erano i più antichi abitanti delle zone andine dell’ovest della Bolivia, intorno al Rio Lauca, e la loro civiltà era basata sul controllo dell’irrigazione (la zona di S. Ana de Chipaya è stata studiata da due grandi etnologi, Alfred Métraux e Nathan Wachtel, in epoche diverse: 1930 il primo, anni 1970-80 il secondo). Gli Uru Chipayas hanno un peculiare mito delle origini  che ricorda molto l’episodio biblico dell’arca di Noè: essi narrano che la loro progenie è così antica che i loro antenati preesistevano addirittura all’apparizione del sole, per cui le loro capanne erano orientate a est, ignorando che il sole sarebbe sorto da quel punto dell’orizzonte. Un bel giorno ecco che spunta il sole e incenerisce e distrugge e brucia tutti coloro che si affacciano il mattino dalla capanna. Sopravvive soltanto una coppia che miracolosamente perpetuerà la loro stirpe. 
 
Nei meravigliosi arazzi della cultura Jalq’a , che diventano veri e propri affreschi cosmologici, si rappresenta e celebra una visione tripartita del mondo:  il mondo superiore (hanan pacha), il mondo terreno (kay pacha) e il mondo infero, sotterraneo (ukhu pacha).  Per illustrare visivamente questa tripartizione esistono canoni figurativi e colori deputati, per cui ad esempio il mondo infero è raffigurato e intessuto solo con i colori rosso fiamma e nero carbone, mentre il mondo terreno ha tenui  colori  tra ocra e cilestrino: i disegni sono minutissimi e perfetti, donne spesso semi-analfabete hanno una maestria ineguagliabile e raffinatissima nell’intrecciare e annodare migliaia di fili per dar vita a questi  riquadri dove è racchiuso il loro universo mentale e spirituale. La complessità dei tracciati è enorme, mind-blowing dicono gli inglesi, ti fa saltare il cervello. 
  Gli arazzi sono di dimensioni contenute, devono stare in povere capanne di pochi metri quadrati e i telai che li tendono sono fatti di rami rozzamente tagliati. Quelle che mi intrigano sommamente sono le raffigurazioni del mondo di sotto, dell’ukhu pacha: una specie di enciclopedia dell’inconscio a mio avviso, anche se una delle impiegate del museo non concorda.: ci sono gli spiritelli, specie di elfi, chiamati khurus, che le tessitrici chiamano familiarmente con un diminutivo: khuritos, ci sono dei demoni , i supays, e poi il gobbo, el jorobado.  I tessuti si chiamano aqsu. Il più bello di tutti è ancora teso sul suo telaio originale di rami nodosi: l’autrice è morta appena dopo averlo terminato, avrebbe voluto venderlo per realizzare un suo sogno segreto. Il Museo da alcuni anni organizza corsi per coltivare e sviluppare quest’arte tradizionale, e con successo, fornendo a centinaia di famiglie la possibilità di mantenersi e migliorare il proprio standard di vita.



Da Sucre prendo un aereo per Cochabamba, e da lì l’autobus per Villa Tunari e il vicino Parque Machía, in direzione est  alla volta di Santa Cruz, la zona più ricca (e reazionaria) della Bolivia,  che non raggiungo. Nel Parco, al solito verdissimo  umidissimo e caldissimo, degli animali decantati  dalla brochure-réclame vedrò solo tante scimmie.  Ma sono scimmie che non avevo mai visto, chiamate scimmie ragno per la lunga coda prensile. Il parco si sviluppa in altezza, ci si arrampica qualche centinaio di metri in una giungla gocciolante di  acquerugiola  fine finché si arriva al mirador.  Molte scimmie sono sdraiate pacificamente sui sedili destinati ai turisti o giocano a rincorrersi di ramo in ramo.  Un bel fiume si snoda  sotto la foresta nella nebbiolina. Una scimmietta si precipita ad assaporare golosa l’orina della compagna: de gustibus.

Da Cochabamba salgo a Oruro, di nuovo al freddo e a cercare un albergo dotato di stufette elettriche. E’ imminente il famoso carnevale, ma faccio fatica a trovare una stanza e solo per il venerdì sera, per sabato notte niente da fare,  è inevitabile battere in ritirata e puntare a nord ovest verso  La Paz.  Ecco alcune foto della capitale, annidata in un avvallamento  con tentacoli che si protendono in ogni direzione su per i fianchi delle montagne attorno, è una città aggrappata alle pareti dei monti e sovrastata da El Alto, che prima era un suo quartiere e ora è municipio a sé. 
 Bellissimo il Monastero di S. Francesco: una domenica pomeriggio mi  inerpico su su  tra bancarelle di patate fino a scorgere finalmente il tramonto dietro la vetta  dell’ Illimani, a  6438 mt di altezza, che ho gloriosamente  di fronte. E infine risolvo l’enigma del nome del gruppo di canzoni rivoluzionarie più famoso del mondo degli anni ’70, mentre ammiro  l’Inti Illimani in compagnia di un bel pappagallo che si affaccia a una vicina finestra.: gli Inti Illimani sono il Sole dell’Illimani, Inti  in quechua significa sole, e Illimani è il nome della montagna!  Mi riecheggiano all’orecchio mentre scendo verso il buio le parole del canto del famoso complesso, il ritornello: “Venceremos, venceremos, mil cadenas habrá que romper….”. 
Un altro museo superlativo tra quelli che visito a La Paz è quello degli strumenti musicali tradizionali, dove ascolto anche un sabato sera un eccezionale concerto del Teatro del Charango: il charango è una specie di chitarra tradizionale e i suonatori  esibiscono una gamma di esemplari che va da un minuscolo aggeggio di pochi centimetri a un charango double face  con un numero di corde diverso, creazione personale degli artisti. La voce melodiosa di Dagmar Dümchen è ammaliante, una donna bellissima sul cui volto dai lineamenti nobili e decisi si legge una vita interiore intensa  e vibrante, e un grande amore per la musica cui si abbandona con gli occhi socchiusi (un bel video anche se molto breve si trova a questo indirizzo. https://www.youtube.com/watch?v=8PDD7bDVJJY)  

La visita organizzata da un’ Agenzia turistica  all’antichissimo sito archeologico di Tihuanaco è complessa : la guida è bravissima e coltissima (forse troppo) ma  la mia scarsa dimestichezza con le culture ancestrali andine  e la frettolosa lettura della Lonely Planet,  parca di spiegazioni storiche, si rivelano un handicap strutturale.  Il fatto di dover seguire ritmi incalzanti per non perdere le tracce del gruppo  mi impedisce la dovuta concentrazione. Faccio fotografie ma  la storia dei vari templi e delle statue,  con la famosissima Puerta del Sol , la vado a ripassare la sera su Wikipedia. Se ci andate, preparatevi in anticipo come per un esame!
 
L’ultima tappa boliviana è Copacabana, che non può non soggiogare l’animo e non ispirare il desiderio di tornarvi almeno una volta all’anno. E’ un cittadina piccola e deliziosa, distesa lungo le rive dell’estremità sud-est  del lago Titicaca sacro al dio Inca Wiracocha, una limpida distesa  azzurra che si estende tra dolci colline verdeggianti  fino all’orizzonte a perdita d’occhio, per cui  assomiglia a un mare lievitato a 3700 mt. Per arrivarci scendiamo dall’autobus  per attraversare  un braccio del lago da Desaguadero alla penisola di Copacabana  e saliamo su una lancia. Il buffo è che anche l’autobus vuoto sale su un altro traghetto, lo vediamo arrivare traballante sul filo della corrente; ad ogni oscillazione temo per i bagagli a bordo. 
 
Naturalmente la prima visita obbligata  è alla famosa Isla del Sol, la cui parte nord è quasi tutta un sacrario Inca costellata di monumenti. La traversata  in un barcone piuttosto anziano dura un’ora  e mezzo, che trascorre rapidissima in conversazione con un cineoperatore olandese e una  signora che abita sull’isola e vive come quasi tutti qui di turismo vendendo i suoi manufatti (ha un fagotto enorme, come tutte le donne che ho visto in Bolivia, che lo caricano con nonchalance sulla schiena e ci fanno chilometri). Lei sferruzza  velocemente con vari ferretti molto corti e ci racconta una storia terribile del tempo della dittatura:  una notte arrivarono sull’isola dei soldati  che volevano snidare dei ribelli e ammazzare tutti coloro che erano sospettati di appoggiarli. Chi si salvò lo fece scivolando verso la riva nell’oscurità, poi tagliando i corti rami di un alberello che nell’acqua si gonfiano e galleggiano, trasformandosi in minuscole zattere; su di esse gli scampati all’eccidio vogarono con le braccia verso la salvezza. Come la maggioranza dei boliviani anche lei  rifiuta di farsi fotografare (si noterà che le mie foto di donne sono quasi tutte di schiena o di sguincio).
 
 L’unica donna che invece si mette quasi in posa è l’anziana guardiana della Piedra Sagrada del Inca, uno dei monumenti dell’area nord, che quando chiedo indicazioni sul sentiero da seguire per vederla mi dice:”Vieni, te la  mostro io, è nel mio orto”.  Difatti in fondo a un giardino di pochi metri quadrati, alto due metri e largo di meno, massiccio, biancastro, troneggia un masso. Lei si siede su una panca di fronte alla pietra e racconta:” Gli Inca avevano tre leggi: Amalluya, Amakella, Amasua [1] ( non mentire, non rubare, non oziare). Chi trasgrediva veniva “inforcato” (ahorcado, dice) con una corda (soga) contro questa pietra. Oggi ogni anno quando viene il giorno di S. Andrea, il 29 novembre, si fa una gran festa, si sacrifica un llama, il corpo si seppellisce, il sangue è offerto alla Pachamama,( la madre terra)”. Dopo i dovuti ringraziamenti, la lascio e proseguo verso il labirinto, che però non raggiungo per  il timore di perdere la barca che salpa per la parte sud dell’isola alle 13.30. 


 Dopo una mezz’ora di brivido per rischio naufragio (il motore arranca, il vento è forte e il nocchiero propone un attracco di fortuna a mezza strada che viene declinato) si sbarca alla parte sud, il cui molo è sovrastato da una altissima antica scalinata, anche questa ovviamente battezzata “ scala dell’Inca”. Raggiunta la cima, presa da incantamento  per il panorama e l’aura di sacralità che spira dal paesaggio, soccombo all’estasi:  appoggio il mio giubbetto di pelle a terra per fare una foto e lo abbandono là, dimentica di tutto fuorché di guardare e camminare. Rientrata in me grazie a zaffate di venticello fresco, corro a cercare il mio prezioso e unico indumento pesante, ma ovviamente  non lo ritrovo.
 Al ritorno a Copacabana mi precipito a comperare un giaccone di lana, ce n’è un’ abbondante scelta a prezzi imbattibili. Lutto serale per il compianto giubbetto dotato di tasche e taschini segreti da viaggio, con la consolazione che qualche ragazzino avrà celebrato la mia dimenticanza. Evito prudentemente di imbarcarmi per la Isla de la Luna e mi sfogo con camminate lungo il lago: a Kusijata, villaggio di pescatori e contadini, scopro un minuscolo museo le cui custodi sono due bambine rispettivamente di otto e dodici anni, che alle 17.30 di sera mi aprono il grosso portone e aspettano con aria professionale che ammiri i reperti, non eccezionali a parte una mummia molto ben conservata. La cosa più interessante è una fontana antichissima nel giardino incolto chiamata, indovinate, Fontana del Inca, all’origine di un acquedotto del 1500, da cui sgorga un’acqua limpida e fredda con cui riempio subito la borraccia. Dopo Kusijata, visito una isola galleggiante: ce ne sono molte sul Titicaca, costruite con una canna locale chiamata totora, che si usa anche per fare lunghe canoe. Tutto su queste isolette è costruito di totora. Abbondano le trote.
 
Lascio Copacabana con rimpianto per raggiungere il Perù e comprare ad Arequipa il biglietto di ritorno.  Arequipa è una città coloniale elegante e animata, dominata da vulcani, che però proprio a febbraio sono quasi sempre invisibili grazie a basse nuvole vaganti.  Bellissima la Chiesa della Compagnia di Gesù e stupefacente per bellezza straripante vitalità e sensualità la Cappella di S. Ignazio di Loyola, che rappresenta un Paradiso Terrestre indigeno, un’esplosione di colori tra foglie giganti rami intricati uccelli variopinti animali di ogni tipo, il tutto intrecciato e avvinto in una luce dorata. Trovo interessantissimi due Conventi. Il primo, ex-convento di S. Catalina (Caterina da Siena) è quasi una città: le celle delle novizie sono strette, spoglie e dimesse, in contrasto con quelle della badessa e delle monache più altolocate, ammobiliate anche con un pianoforte fatto giungere appositamente dall’Europa, letti più comodi e larghi, belle suppellettili. Questa é la cucina.

  L’altro Convento , di S. Teresa de Ávila, è invece ancora tale:  qua e là il visitatore è arrestato da targhe con la dicitura: Clausura. Molto particolareggiata e avvincente la ricostruzione della vita e delle illuminazioni di S. Teresa, la fondatrice dell’ordine delle Carmelitane Scalze, e grande intellettuale, poetessa e scrittrice, oltre che efficace riformatrice e agitatrice sociale. Nel 1562 ebbe la rivelazione che le cambiò la vita: el  arrobamiento, come la definì:  estasi, stato di beatitudine. Sempre più spesso preda degli arrobamientos, sentiva il dardo di Cristo che le attraversava il corpo: parlò di una acuta sensazione di  transverberación, intraducibile[2]. Personalmente  la ritengo anche una  maestra della letteratura spagnola insieme a S. Juan de La Cruz, altro mistico straordinario. Tipica dell’intreccio boliviano di culture ecco  una raffigurazione meticcia dell’arcangelo Gabriele: indossa un copricapo Iinca, il Mascaipacha, incoronato da un enorme pennacchio! Un arcangelo meteco!

Il lungo tragitto da Arequipa a Nazca  verso nord dispiega un paesaggio lunare, salvo rari tratti coltivati e boschetti di palme, ma più spesso  punteggiato da cactus e un’erbetta ispida.  A La Joya, cittadina incolore, vedo frequenti  cartelli:  Compro cochinilla, fresca, seca y en polvo[3]. Non ci deve essere molto altro da vendere a parte pesce e crostacei. Il Pacifico è chiazzato da lunghe spume di inquinamento per centinaia d chilometri.  Villaggi di pescatori, deserto, villaggi, deserto, per ore.
 


Nazca mi delude in vari modi: mi sembrava che l’oceano fosse a breve distanza, invece ci vuole un’ora e mezzo per raggiungerlo, gli orari del bus sono sommamente incerti, è giocoforza rinunciarvi se non si vuole perdere tutta la giornata ( inoltre il ritorno non è assicurato entro la sera). Invece prenoto un posto sul Cessna di una delle compagnie che sorvolano le famose linee incise sulla terra del deserto scabro e gibboso da sconosciuti artisti cinquecento anni fa e rimasti miracolosamente intatti. Rappresentano fantastici animali e  bislacchi personaggi: il più famoso è il cosiddetto “aviatore”. Dato che sono giganteschi, pare che la cosa migliore sia ammirarli dall’alto e non dal mirador a pochi chilometri dalla città. Seleziono tra le tante agenzie turistiche quella che mi sembra più affidabile dato che ci sono anche stati incidenti.  Il volo dura poco più di 30 minuti, ma appena riesco a identificare il disegno sottostante  e mi appresto a fotografarlo, l’aereo vira bruscamente e non riesco a fare che fotografie indecifrabili con confuse di strisce di sabbia, di cui non  fornisco dimostrazione I disegni si vedono nettamente su molti siti web, come questo: https://web.infinito.it/utenti/m/mysteryworld/nazca.html . Scendo dal Cessna abbastanza arrabbiata e con un indefinibile e leggero mal di stomaco, el mareo. Per consolarmi vado a nuotare in piscina, per  la bellezza di 10 dollari di biglietto.
 
Ancora mi aspettano centinaia di km di deserto da Nazca a Lima, e questa volta con contorno di tempesta di sabbia dopo Paracas. L’ultima fotografia del viaggio è un vortice biancastro di polvere e vento sull’asfalto.

 Se la Bolivia riuscirà ad avere la meglio nel duro contenzioso con il Cile rispetto alla sua rivendicazione di riavere l’accesso al Pacifico  perduto con il Trattato del 1904, e se il Movimiento al Socialismo si sbarazzerà della zavorra dei residui clientelismi e supererà la prova del potere prolungato, realizzando una vera partecipazione e dialettica democratica dal basso, vi sarà sulla terra  un splendido paese,  ecologicamente, umanamente e politicamente unico, dove  si gusterà il buen vivir, un ideale al cuore delle culture andine. La Pachamama sarà soddisfatta.



















[1] Ho dimenticato di chiederle se sia lingua quechua o  aymara. Dato che Copacabana è quasi al confine con il Perú forse è più probabile che si tratti di aymara.

[2] Nella sua autobiografia descrisse la visione di un angelo che le trapassava l cuore con una freccia infuocata.


[3] Si tratta di piccoli crostacei

sabato 23 maggio 2015

VIAGGIO DALL'ATLANTICO AL PACIFICO: BOLIVIA



SCAGLIE DI SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (4)

 Strada Tupiza- Potosí

BOLIVIA 1

Attraverso la frontiera  argentino-boliviana in pochi minuti  e rimango estasiata per la sveltezza delle formalità: non a caso. Infatti nel mio accesso di entusiasmo salto  la dogana boliviana, non ben segnalata,  e  vado oltre: non c’è nessun controllo al punto di transito dal ponte al mercato della città di frontiera di Villazón. Peccato: mi scoprirò immigrata clandestina sul treno che da Villazón conduce a Tupiza, e la distrazione mi costerà 40 euro di multa, dieci giorni dopo, a Potosí. 
Lo stradone polveroso che attraversa la città è tutto un brulicare di gente, sabato è il giorno del mercato ebdomadario: negozietti che straripano di merci varie, bancarelle ovunque, merciaie ambulanti accoccolate a terra con la mercanzia sparpagliata attorno, una vera esplosione di folclore locale,  uno dei tratti più affascinanti e costanti del paese, che mi conquista immediatamente. Le donne vestono grandi gonne fino ai polpacci arricciate in vita, le cosiddette polleras , camiciole e grembiule, e in testa bombette  o sombreros a tese discrete, mentre le lunghe trecce nerissime sobbalzano sulla schiena, domate da nastrini o lacci che le mantengono rigorosamente parallele.  E’ amore a prima vista, per un mese mi sono sempre sentita nel luogo giusto al momento giusto, a mio agio. Anche da clandestina: per fortuna in Bolivia non esistono i C.I.E. 


Il treno che attraversa il sud della Bolivia da Villazón a Oruro  è un prezioso lascito dell’industrialismo del novecento e della necessità di  trasportare l’argento e lo stagno da Potosí e da Oruro (in Bolivia) fino a Arica e Antofagasta ( in Cile). Ci sono due classi, ordinaria e di lusso, e ambedue costano molto di più dell’autobus. In compenso,  c’è anche un vagone ristorante, ma il privilegio è riservato ai viaggiatori “a lunga percorrenza”, quindi non a me che mi fermo dopo tre ore a Tupiza, il cui scenario di pareti e  torrioni rocciosi rosseggianti, intervallati da chiome di molle [1]verdissime, è preannunciato dalle gole e vallate percorse da torrenti  impetuosi  che si ammirano dai finestrini del treno, a destra e a manca.
E’ una zona molto battuta dal turismo internazionale  sportivo, giovane, e il trampolino di lancio  per escursioni  nel sud-ovest boliviano, costellato di attrazioni “imperdibili”, come la laguna colorata, delle  sorgenti termali scenografiche, un vulcano, e infine il salar di  Uyuni, un ex mare interno disseccato che si è trasformato in una distesa immensa di abbacinante biancore e che nella stagione delle piogge appare come uno specchio  gigantesco, ecologicamente fragilissimo.  Che non ammirerò: sono dissuasa da uno strano mal di testa mattutino che si rivela segnale di pressione arteriosa in crescita al limite del patologico. Appunto, al limite: per non oltrepassarlo devo rinunciare a passeggiate a cavallo (peraltro difficoltose per la quantità di fango, le piogge sono eccezionalmente abbondanti quest’anno) e a spedizioni in Land Rover nei luoghi fantasmagorici decantati dalle agenzie turistiche. Per fortuna, prima di soccombere, riesco a fare almeno due passeggiate, una alla quebrada[2]  Palala e l’altra, più impegnativa, al Canyon del Inca attraverso la bellissima Valle de los Machos, guglie falliche di un rosso sfolgorante che si restringono  progressivamente tra svolte brusche fino a incunearsi nel canyon.  Purtroppo la fotocamera mi fa cilecca e la foto a fianco non é mia ma dei Tupiza Tours.


 Notevole un incontro domenicale con il giornalaio della piazza principale: è un cinefilo esperto di cinema italiano e  conosce tutti i film di Pasolini e Antonioni : inaudito!

La seconda tappa boliviana è Potosí, a più di 4000 metri: ormai sono fornita di sorochi  pills, capsule contro il mal di montagna e mi sono abituata a succhiare caramelle di miele e coca e a consumare giornalmente the di foglie di coca fresche, tradizionale rimedio per fatica e mal d’altura (amarissimo).  Potosí è impressionante sin dall’arrivo: l’autobus sale fino a 4300 mt e attraversa scendendo verso il centro città i quartieri abitati dai minatori, sparpagliati lungo tutto il fianco del famoso Cerro Rico, la montagna che racchiude le miniere più preziose della Bolivia e che ha riversato il valore di centinaia di migliaia di tonnellate d’argento nelle casseforti delle monarchie europee ( e dei pirati)[3]
Le baracche hanno tetti di calamina, stagno ondulato che riluce ai riflessi di un sole bruciante quando occhieggia da nuvole gonfie di pioggia: sembra un formicaio disabitato, non si vede nessuno in giro.  Il Cerro ha un colore violetto ed è perfettamente conico: raggiunge i 4700 mt. Fa freddo benché sia estate: la notte è gelida  nella economica  locanda dei Gesuiti. Cambio subito albergo la mattina dopo e cerco un hotel che contempli riscaldamento almeno serale.
 Anche oggi  più del 70% della città vive sulle miniere, direttamente o indirettamente: o si ha in famiglia chi lavora nelle gallerie (ben 5000), o si vive di turismo. Il tassista che mi porta in albergo dice  di aver lavorato in miniera due anni prima di riuscire a cambiare mestiere: e per fortuna. Si continua a morire di silicosi dopo quindici o vent’anni di miniera, e tutte le persone con le quali parlo mi confermano che le condizioni di lavoro sono durissime, né sono  cambiate molto da che il M.A.S. , il Movimento al  Socialismo del Presidente Evo Morales  è al potere (2006). Su un muro di Potosí  leggo: “nazionalizzare le miniere!”: infatti le miniere sono in mani private dal 2000, mani di grandi società transnazionali o di cooperative locali e padroncini, ex-minatori che hanno comperato delle concessioni, oppure sono in concessione para-statale attraverso la COMIBOL, la Corporación  Minera de Bolivia, che non è un operatore diretto ma amministra la partecipazione statale in concessioni minerarie e impianti metallurgici e industriali. L’alcoolismo è diffuso. Il documentario: Minerita [4] (https://www.google.it/#q=documentario+%22Minerita%22)  visto recentemente grazie  alla distribuzione militante ad opera del GVC[5], mostra una realtà anche più dura, al limite del disumano, di quanto potessi immaginare; basti dire che le donne sole nelle baracche, la notte, per difendersi da assalti e stupri, dormono tenendo in mano candelotti di dinamite, che si vendono come caramelle in qualsiasi spaccio. Le donne di solito non entrano in miniera, la “minerita” eponima del documentario vi si introduce clandestinamente perché è l’unica che porta soldi a casa e non ne può fare a meno. Tuttavia anche le donne hanno un ruolo produttivo legato alle miniere: sono le palliris, siedono all’imboccatura delle gallerie e spaccano con un martello per ore i pezzi di roccia scartati dai minatori, che però contengono ancora preziosi frammenti di stagno, che rivendono per sbarcare il lunario.


Tutte le agenzie turistiche propongono escursioni di una giornata fuori e dentro le miniere. Non mi piaceva l’idea di fare la turista in gallerie che spesso sono la tomba o l’anticamera di essa per migliaia di esseri umani, costretti a trascorrervi e consumarvi la gioventù e la salute dal dio della necessità. Consultando un’agenzia ho chiesto di poter incontrare un gruppo di minatori fuori della miniera e in modo diverso, per discutere con loro, o di poter parlare a dei sindacalisti del settore. Evidentemente non c’era spazio per questa soluzione: non se n’è fatto niente. Ho cercato in città una sede sindacale, inutilmente. Sono solo riuscita a parlare con un padroncino, un sessantenne ex minatore che ha in sub-appalto delle gallerie dove si estrae antimonio e stagno: la paga massima per i minatori è di 200 USD al mese.  Era domenica sera, puzzava di alcool e ho declinato un invito al bar per approfondire l’argomento.
 I minatori hanno una divinità tutelare, tiranna e esigente, cui occorre regolarmente fare offerte propiziatorie di foglie di coca, di tabacco o di aguardiente, una divinità atavica Inca, che i missionari scambiarono per il demonio.  E’ rappresentato con fattezze mostruose e grottesche, priapiche: ecco una effige che si trova dentro una delle gallerie delle miniere, coperta di stelle filanti in segno di omaggio, tratta dal sito www.elrincondesele.com. A Cochabamba ho comprato un libro di racconti sulle miniere, che tradurrò e pubblicherò su queste pagine, tutto centrato su questa figura numinosa e maledetta: el Tio (Cuentos de la Mina, di Victor Montoya). Se i minatori lo trascurano, ne pagano lo scotto con incidenti, smacchi  o addirittura con la vita.


In cerca di referenti sociali da intervistare, ho trovato in città  una Società di Mutuo Soccorso (Sociedade  Mútua  Protectora), fondata nel 1916, che ha circa 80 soci e non si occupa di minería: è formata  soprattutto da artigiani, età media 18-45 anni, ed  ha attività assistenziali e sociali in caso di malattia di familiari dei soci e difficoltà finanziarie dei pensionati (35 anni di anzianità); inoltre organizza feste e si mantiene gestendo un bar al pianterreno. 
Potosí non la si può liquidare in pochi giorni: esercita un fascino sinistro e penetrante, e ci trascorro una settimana. E’ anche una bella città: numerosissime chiese sontuose, monasteri, un barocco debordante, quasi leccese, e la Casa de la Moneda, la Zecca più antica del mondo, che però per principio mi rifiuto di visitare: il biglietto per gli stranieri costa il quadruplo rispetto alla tariffa nazionale ( poco più di sei euro, non ricordo, ma mi irrita l’idea). Le strade sono strette e lastricate con ciottoli: balconcini e logge in ferro battuto sporgono ai lati, i portali scolpiti, antichi, sono magnifici: unico tormento il passaggio frequente di piccoli furgoni di trasporto urbano pubblico che sbuffano ventate  di un fumo nerissimo e soffocante, che appesta. Noto frequentissime targhe di studi di legulei. Litigiosità così accesa?
Una mattina di sole:  mi avventuro al Ojo del Inca, una laguna a 3600 mt di altezza a 40 km da Potosí,  tra verdi prati, dove si può fare una bella nuotata ammirando la cresta di montagne che la attorniano: appena si addensano le nuvole, di corsa a vestirsi! Un custode  mi sconsiglia seriamente di avvicinarmi al centro dell’occhio: afferma che alcuni turisti sono stati misteriosamente risucchiati al fondo. Nel dubbio mi attengo al suggerimento ma vedo parecchi ragazzi sguazzare allegramente da riva a riva. Forse gli dei si incazzano solo con qualcuno.


Il 26 gennaio assisto a lampi di lotta di classe: nella piazza principale, di fronte alla Sede del Municipio, c’è un sit-in prevalentemente maschile, con striscioni,  mentre al lato opposto, di fronte alla sede della Gubernación,  ecco un sit-in di donne in pollera e sombrero. La protesta davanti al Municipio è degli eventuales,  che chiedono di essere assunti in pianta stabile, mentre le donne accoccolate a terra con cartelli fatti in casa chiedono un regadio, acqua per irrigare i loro orti e poter produrre di più in modo da vendere le eccedenze al mercato e superare l’autoconsumo. Appartengono a una comunità isolata di 70 famiglie, 350-400 persone in tutto, drenate dall’emigrazione verso l’Argentina, dove i giovani vanno a raccogliere pomodori. Dicono che sono vari anni che lottano per avere l’acqua.


A tutti coloro che incontro e con cui ho occasione di parlare chiedo: dopo nove anni di un governo socialista, che vantaggi per il popolo? Le risposte sono discordanti: soddisfatti, soddisfatti con riserva, scettici e critici. Non mi sembra che le classi sociali divergano molto: nessuno appartiene alla borghesia agiata: un autista, un’ impiegata d’albergo, una custode di museo, un piccolissimo imprenditore, un ragazzo laureato da poco che ha un’ officina di riparazioni auto con il fratello., una guida turistica, un giornalaio. I critici dicono che a parte alcune indubbie buone opere infrastrutturali, le condizioni di vita di operai e contadini non sono migliorate in maniera sensibile, e tanto meno nel settore minerario. La guida turistica a La Paz è la persona più informata e anche la più accalorata fautrice delle politiche del M.A.S : acquedotti, opere stradali (gli incidenti stradali sono una vera iattura in molti stati sudamericani, data la geologia e le strade contorte ad alta quota), sussidi, scuole, ospedali. I ministri addirittura si ammalano per il duro lavoro, dice. Il più critico è il giornalaio che incontro a Copacabana: secondo lui c’è un gran clientelismo, e tutta l’insistenza del Governo sulla questione dello sbocco sul Pacifico è un diversivo per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni interne. Di fatto, nonostante la grande popolarità di Morales, nelle elezioni amministrative di fine marzo il M.A.S. perderà importanti roccaforti, come la Gubernación di La Paz e il Municipio di El Alto, la città satellite di La Paz. Invece l’autista di Copacabana sul lago Titicaca è deciso: va molto meglio, finalmente. L’economia  cresce e il boliviano, la valuta locale, è forte.  Avanti tutta? (cont.)

  


[1] Il Molle è anche chiamato albero del falso pepe, è comunissimo in Bolivia e soprattutto ne vedo molti nei dintorni di Tupiza; ha un fogliame delicato con foglioline alterne col bordo dentato, ricordano un po’ i nostri salici. Sono molto eleganti, e le foglie emanano una fragranza vagamente balsamica.
[2] Le  “quebradas”  in questa area sono costituite dai letti riarsi di fiumane antiche, che diventano sentieri, in genere costeggiati da alte pareti di rocce  color carminio o violetto e ravvivate alla base da alberi e piante.
[3] Vedi Eduardo Galeano.
[4] Letteralmente, piccola “minatrice”.
[5] Una Organizzazione non governativa di cooperazione internazionale di Bologna.