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domenica 27 marzo 2016

L'UMANO DEL LIEVITO E IL LIEVITO NELL'UMANO



QUANTA UMANITA’ NEL LIEVITO, E QUANTO LIEVITO NELL’UMANITA’?



Image of a yeast cell from a 2011 exhibit titled "From Another Kingdom" at the National Botanic Garden of Wales. Photo credit: Col Ford and Natasha de Vere. Image rights: Creative Commons Attribution 2.0.)

La fonte di questo post è l’articoletto di Nicolas Gompel e Benjamin Prud’homme nell’inserto Science et Médecine del quotidiano Le Monde del 24 giugno 2015, che a sua volta cita lo studio dell’équipe di Edward Marcotte dell’Università del Texas a Austin pubblicato su Science del 22 maggio precedente.

L’articolo è sorprendente: “A prima vista tutto separa il lievito dall’uomo”, così esordiscono i due studiosi. Il lievito, quello stesso che si usa per fare il pane,  è monocellulare mentre noi abbiamo trilioni di cellule; il lievito (Saccharomyces cerevisiae) possiede un numero approssimativo di geni che codificano per le proteine  equivalente a 5300-5400 (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11967832), mentre noi umani ne possediamo , secondo stime recenti, circa 19.000 (https://medium.com/the-physics-arxiv-blog/human-genome-shrinks-to-only-19-000-genes-21e2d4d5017e#.v84g4et6x), benché valutazioni degli anni ’90 arrivassero a 100.000, e il nostro funzionamento è infinitamente più complicato. 


Eppure il lievito è “vivente”: la cellula respira, si divide, metabolizza gli zuccheri, replica il suo DNA, esprime i suoi geni, cioè vive la sua vita di cellula. Quindi, a dispetto della biforcazione delle due stirpi evolutive, lieviti e (futuri) esseri umani, alcuni geni dell’uomo funzionano perfettamente nelle cellule del lievito, malgrado abbiano accumulato differenze in seguito a mutazioni aleatorie. “Le loro sequenze restano tuttavia paragonabili, tanto che si contano circa 2000 geni analoghi tra i 21.000 geni umani e i 6000 del lievito”, dicono Gompel e Prud’homme: si notino le discrepanze delle cifre riguardo al numero di geni citati rispetto ad altri articoli, gene più o gene meno.

Quindi, una volta sostituito un gruppo di questi geni nel DNA del lievito con geni del genoma umano, il lievito continua a vivere come se niente fosse, per cui se ne deduce che possiamo cuocere del pane ottimo con una parte di noi stessi incapsulata dentro ciò che diventerà mollica. In tal caso, si potrebbe essere accusati di antropofagia?


A parte gli interrogativi inquietanti o grotteschi, l ’articolo di Science dettaglia l’esperimento: “ E’ una bella dimostrazione dell’eredità comune di tutti gli esseri viventi, il poter sottrarre DNA da un essere umano e inserirlo come sostituto analogo nel DNA di una cellula di lievito in modo che la vita di tale cellula continui indisturbata”, dice lo scienziato Edward Marcotte (http://news.utexas.edu/2015/05/21/partly-human-yeast-show-a-common-ancestor-s-lasting-legacy).


A lato, Edward Marcotte


Ancora: il miglior predittore della fungibilità di due geni (del lievito e dell’uomo) non è la somiglianza della rispettiva sequenza genetica, bensì l’appartenenza a moduli, cioè a gruppi di geni specializzati per un determinato compito, compatibili. Tutti i geni dello stesso modulo tendono o a essere fungibili oppure incompatibili, ma non individualmente.


La ricaduta sul piano medico? “Non si può parlare di curare la malattia di Alzheimer nel lievito (sic), ma piuttosto di studiare i processi biologici universali che sono le grandi funzioni biochimiche cellulari, dato che alcuni di questi processi sono in gioco in malattie come quella d’ Alzheimer” (ibidem, Gompel e Poud’homme). Progressi della scienza, dimostrazione dell’origine comune del vivente, che meraviglia.


Ma se ci può essere dell’umano nel lievito, viene fatto di domandarsi: quanto lievito c’è nell’umano? Che empito, che slancio verso la vita e che cura e protezione della vita stessa? Della sua perpetuazione e del suo miglioramento? Da parte di certi, troppi, dirigenti politici ed economici, funzionari internazionali e affini, capi di stato e CEO, ben poco, si può constatare: chi mi legge non stenterà a evocare immediatamente esempi di bieca cecità, disprezzo, oltraggio e noncuranza per i cosiddetti “diritti umani”, addirittura per la semplice sopravvivenza di milioni di esseri che hanno la sventura di trovarsi sulla strada di interessi superiori di Stato o di potenza, o semplicemente di ostacolo al profitto.  Esempi che rendono tanto più insopportabile l’ipocrisia e il cinismo del continuo richiamo ai “valori” europei o peggio universali.


Dialettica dell’illuminismo? Aporie dell’illuminismo? Siamo ancora qui a chiedercelo. Forse non ci siamo scostati di molto, mutatis mutandis, dalla situazione storica che induceva Horkheimer e Adorno a scrivere, nella prefazione alla prima edizione dell’omonimo libro: “Quanto ci eravamo proposti, infatti, era nientemeno che di comprendere perché l’umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie”[1].  Era il maggio del 1944. Anche la barbarie ha le sue mutazioni.



 Rifugiati nigeriani sul Lago Ciad






[1] Max Horkheimer, Theodor Adorno. Dialettica dell’Illuminismo. PBE, Einaudi, 1997.

giovedì 3 marzo 2016

LAVORO FORZATO NEL MOZAMBICO COLONIALE: O CHIBALO



O CHIBALO RACCONTATO DA CHI LO VISSE *


 Da sinistra: la signora Delfina, la signora Marta, e ....?

Dal 1980 al 1982 ho lavorato in Mozambico, allora Repubblica Popolare, presso la Direzione Nazionale dell’Alfabetizzazione e dell’Educazione degli Adulti nell’équipe incaricata di elaborare dei nuovi libri per l’apprendimento della lingua e dell’aritmetica durante i primi due anni di alfabetizzazione. Così, una volta delineati contenuti e sequenza, li sperimentammo sul campo chiamando da ognuna delle dieci province mozambicane due analfabeti, un uomo e una donna, per seguire lungo alcuni mesi i loro processi cognitivi e dedurne eventuali correzioni da apportare ai testi e alla metodologia scelta.
Il corso si svolse in un villaggio attrezzato per accoglierli, Michafutene, non distante da Maputo; il nostro gruppo vi si recava ogni mattina e vi passava di fatto la giornata. Fu per me un’esperienza molto significativa: erano persone che avevano vissuto durante il periodo coloniale innumerevoli traversie, erano poverissimi contadini e parlavano molto poco o affatto il portoghese. Ricordo che il collega mozambicano dell’équipe, più addentro di noi stranieri alle fasi di preparazione della selezione e poi dei viaggi dei prescelti, ci disse che alcuni non avevano letteralmente nulla da indossare se non degli stracci che usavano abitualmente per coltivare i loro campi e che la comunità aveva dovuto provvedere con degli abiti acquistati per il viaggio e il soggiorno. Tuttavia, durante i mesi del corso, svilupparono tutti la capacità di comunicare tra di loro e con noi oralmente in un portoghese scarno ma comprensibile. Il portoghese era ed è la lingua ufficiale nazionale, ma per loro rappresentava una vera e propria lingua straniera. Eppure, era l’unico mezzo di comunicazione reciproca, dato che in ogni area del Mozambico si parlano lingue autoctone diverse. Verso la fine del corso, dopo che essi avevano acquistato una certa dimestichezza nell’esprimersi, decisi di discutere con chi accettasse di farlo le loro esperienze, personali e familiari, su uno dei capitoli più dolorosi del colonialismo portoghese: il lavoro forzato “chibalo”[1]


Ho fortunosamente ritrovato la cassetta che avevo registrato l’8 giugno del 1982 sotto gli alberi di Michafutene; con l’aiuto di una collega ricordavo di averla già sbobinata e interamente trascritta, ma non sono riuscita a ritrovare quei preziosi fogli, almeno finora. L’ho quindi riascoltata e ho preso alcuni appunti. In particolare, il racconto di una donna, la signora Delfina, non mi si era mai cancellato dalla mente, tanto mi aveva impressionato. Ora che, dopo quasi 34 anni, tutto è cambiato, anche in Mozambico, e quella generazione che visse il lavoro chibalo in prima persona è quasi estinta, credo sia utile ripresentare quei racconti, che anche in forma monca sono potenti evocazioni di un passato storico recente troppo poco studiato se non in nicchie di addetti ai lavori e poco conosciuto al giorno d’oggi, anche tra l’opinione pubblica più colta e informata. Le malefatte dei colonialismi sono state tali e tante che la loro conoscenza e il loro significato anche per il presente storico possono costituire essenziali ingredienti per un’evoluzione meno perversa del corso degli eventi umani.
Intervista n. 1
“Avevamo una machamba (campo) di arachidi. Mio padre fu preso per andare a lavorare nella piantagione di cotone del padrone. Lo battevano, lo castigavano, lo mandavano in prigione, lo picchiavano con la palmatoria[2]…costa molto parlarne…Stava male, era stanco, doveva anche sarchiare i campi dei regulos (capi tradizionali asserviti ai Portoghesi). Dovevano estirpare le erbacce e poi caricarle. Venivano a prenderti a casa (per il lavoro forzato) e non riuscivi a fuggire, se ci provavi e ti prendevano ti spezzavano le mani (con la palmatoria). Il cibo veniva da casa, tutti i giorni, il padrone non lo dava. Mio padre fece lo chibalo a Maxixe.  Non aveva nemmeno un letto, dormiva come poteva (de qualquer maneira), per terra, con gli altri. E conclude: “E’ isso do tempo colonial” (era così durante il colonialismo).

Intervista n. 2 (Signor Cuamba)

“I miei genitori hanno fatto lo chibalo. La polizia (coloniale) arrivò alle sette di mattina, nel mese di giugno (a inizio inverno australe). Lo portarono via per costruire un ponte, doveva tagliare le assi e poi gli fecero costruire una strada. Non ricevette nulla per questo, non lo pagarono[3].  Solo ricevette un bicchiere di sale. Poi al tempo della raccolta del cotone, lo portarono nella piantagione (del padrone), prendendolo di notte. Fornivano loro le asce e i machete (catanas). Se gli uomini provavano a fuggire, prendevano le mogli e le mettevano in prigione. (Dicevano): il marito di questa è fuggito. Il capataz sorvegliava il lavoro dei campi. Dormivano in mezzo alla legna. Questo è quello che mi ha raccontato mio padre”.
Intervista n. 3 (uomo)
 (La voce è molto bassa e il tono è indistinto, non si capisce se l’uomo riferisce una sua esperienza o quella dei genitori o vicini di casa.) “Fu a Chicualacuala. Era molto freddo.  Per sei mesi. E’ costato molto[4]. Prendevano tante persone, (arrivavano) con i camion…Molti morivano. Era il periodo freddo. Ci si alzava alle 4 e mezzo di mattina e si doveva lavorare sei ore.  Il cibo arrivava da casa tutti i giorni.  Non c’erano donne, erano solo uomini (presumibilmente, si trattava di lavori stradali)”.
Intervista n. 4 Signor Ginasse

(La persona parla della sua esperienza personale). “Ero molto giovane...dovevamo tagliare gli alberi, dormivamo sulla strada. Ci svegliavamo alle cinque di mattina e lavoravamo fino a notte. Durò sei mesi, il cibo ce lo portava la famiglia. Non ricordo in che anno fu. Mi hanno preso in casa. C’erano i capataz a sorvegliarci e le guardie. Poi ho fatto lo chibalo una seconda volta, in una piantagione di cotone”.
Il signor Ginasse era un uomo grande e grosso, di Pemba, a nord: ricordo che parlava con grande difficoltà, e alla fine due lacrime gli avevano rigato le guance.

Intervista n. 5 Signora Delfina

Della signora Delfina ho conservato un ricordo molto netto, perché era molto vivace e si esprimeva meglio di altri, e in più ho serbato una sua foto che la ritrae con altre due amiche. Il suo racconto si riferisce all’esperienza del padre e soprattutto della madre e mi sembra illustrare tutta la perversità e la miseria umana di questi padroncini portoghesi, morti di fame in patria e tiranni senza pietà nella “loro” colonia, e al contempo la crudeltà servile dei loro sgherri locali.
“Mio padre ha fatto lo chibalo. Allora, il riso non era per noi, era per i coloni (dice: “o colonial”). C’era un padrone potente, si chiamava Santo Gil, c’era anche la padrona. Arrivava il tempo (del raccolto). Chiamavano tutti, Avevano i sipaios, i capataz (indigeni che servivano da guardie per i portoghesi). Si arrivava alla machamba (piantagione) alle cinque di mattina, si lavorava si lavorava, si era stanchi ma non si poteva andare via. C’erano anche i bambini piccoli, con le madri. Poteva andar bene una cosa simile? Piangevano. Quando il bambino piangeva i sipaios facevano sedere la madre e la picchiavano (fa schioccare le dita). Lavoravano nelle piantagioni di banane, tagliavano la legna.
Mia madre aveva seminato il riso e per il mese di gennaio doveva aver finito tutto il lavoro di ripulitura del campo. Non doveva rimanere nemmeno uno stelo di mais dove c’era il riso. Il sipaio le disse: voglio vedere tutto il campo ben pulito. Mia madre diceva: si, si. Arrivò il lunedì, ci fu il controllo. Mia madre aveva ritardato a pulire. Il sipaio non la picchiò. Lei chiese: domani posso venire? No. Arrivarono i poliziotti, la portarono dal regulo a Xai-Xai. Si chiamava Macandane, un dittatore. Aveva tutto per picchiare le persone. C’erano solo donne, i campi di riso li lavorano le donne. Le chiesero: perché hai ritardato (la pulitura del campo)? Stavo male. Ah. La portarono via. La picchiarono (riproduce colpi secchi a simulare le botte). Picchiavano molta gente. Mia madre “la vestirono” (la misero dentro un sacco) perché le persone bastonate sporcavano per terra. Sangue? No, non era sangue, era (esita) “coisa de casa de banho” (urina e feci)”. Si odono risatine imbarazzate, è un modo in cui si esprime il disagio in molte culture non occidentali. “Mia madre arrivò a casa che non ce la faceva più. Questa è la storia del tempo coloniale. Accadevano molte cose. Lei era ancora ragazza, abitava con i genitori a Xai-Xai”.

Intervista n. 6 (uomo)

“Mio padre era un capataz. C’era molta gente che andava a lavorare là, a Sussundenga, provincia di Manica. Mio padre lavorava per una impresa agricola grande. Il popolo soffriva. A 8 anni (i bambini) andavano allo chibalo.  Dovevano stare nei campi e far fuggire gli uccellini per proteggere il grano. La sveglia era alle quattro di mattina. A mezzogiorno c’era il pranzo. Poi tornavano a lavorare fino alle sei e mezzo di sera. (A pranzo) davano un litro di farina, un bicchiere di latte e dei fagioli, ma tutto era crudo. Non c’era tempo di cuocere, si rimaneva con la fame. Cucinavano la sera e mangiavano a mezzanotte. Stavano da maggio fino ad agosto, quattro mesi. Era freddo, i bambini non potevano accendere il fuoco per scaldarsi. Quando pioveva si doveva lavorare egualmente. Le persone venivano da lontano, da Tete, dall’Angonia. Se non si finiva il lavoro entro la sera non si riceveva nulla. Al mese pagavano 150 (escudos?), i capitani ne ricevevano 400-450, mio padre aveva una paga di 350. 

(I sipaios) passavano a casa e chiedevano: hai già pagato la tassa per la capanna (o imposto da palhota)? No, sto cercando ancora i soldi. Allora prima facevano cucinare alla mogli una gallina, poi prendevano gli uomini e li portavano via.  Se non trovavano gli uomini in casa, prendevano le mogli, ma prima le facevano cucinare. I bambini restavano soli. Le tenevano due o tre giorni in prigione finché non pagavano. La tassa era di 280 (escudos?) all’anno.  Se i regulos non riuscivano a riscuotere le tasse, gli amministratori si rifacevano su di loro, li multavano. Dicevano: lei non lavora bene. Anche i sipaios dovevano lavorare gratis per tre mesi all’anno. Se qualcuno protestava perché il lavoro era troppo, lo prendevano, lo portavano dall’amministratore e lo picchiavano finché non accettava di tornare al lavoro. E dopo le bastonate una persona doveva ripetere: Grazie signor amministratore, grazie (“obrigado senhor administrador”). Alcuni lavoravano in casa, pulivano, facevano il bucato, cucinavano. Quando tutto era pulito, non potevano più entrare in casa, nella stessa sala che prima avevano lavato e messo a posto. Basta, che se ne vada, il negro non può entrare, sporca. Resta fuori! Se no prendiamo le malattie. Ma se eravamo noi che avevamo cucinato, pulito!?
 Era obbligatorio fare regali all’amministratore: una gallina, un capretto. Quando c’era il censimento, era obbligatorio “fazer cultura” (ballare e suonare) tutto il giorno. Si dovevano anche portare delle ragazzine carine, dai dieci ai quattordici anni (per l’amministratore). Non ci si poteva rifiutare”.
Una canzone creata dalla FRELIMO, Il Fronte di Liberazione del Mozambico, dopo la vittoria sui portoghesi e l’indipendenza nel 1975, suonava così: “Chi può dimenticare il tempo passato...la madre di cinque figli chiamata ragazza, il padre di cinque figli chiamato ragazzo...”.

Credo che queste scarne testimonianze possano fornire un’idea delle sofferenze del popolo mozambicano durante la lunga notte del colonialismo. Il che non significa, infelizmente, che tutto ora sia rose e fiori.



* Tutte le fotografie sono quelle scattate durante le lezioni di alfabetizzazione a Michafutene nel 1982







[1] Il lavoro chibalo fu utilizzato a partire dalla fine del XIX secolo per costruire la capitale Lourenço Marquez (dal 1975, Maputo) e nel lavoro di costruzione di strade, ponti, nei lavoro portuali e nelle ferrovie. Progressivamente fu utilizzato per la coltivazione di cotone, nelle piantagioni di zucchero e estensivamente per i lavori agricoli. Fu istituzionalizzato a fine anni 20 e rimase in vigore fino al 1962, codificato nel “Codice del lavoro degli indigeni”. In teoria doveva durare un massimo di sei mesi, ma di fatto le persone venivano trattenute anche di più, fino a un anno, e poi liberate solo per essere di nuovo riacciuffate e obbligate a un altro periodo di lavoro schiavo.
[2] La palmatoria era una paletta ovale di legno con dei fori rotondi( per fare schizzare fuori il sangue) con le quali si picchiava sul palmo delle mani fino a volte a spezzarlo. Si usava anche per le piante dei piedi.
[3] In teoria, il lavoro forzato doveva essere pagato, anche se una miseria, ma molti dicono di non aver ricevuto nulla. In questo caso, l’intervistato dice che il padre ricevette un bicchiere di sale.
[4] E’ una frase che ritornava spessissimo nel discorsi dei mozambicani, per significare la sofferenza patita: “Custou muito”.