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lunedì 12 dicembre 2022

SINGOLARE PSICOPATOLOGIA CLIMATICA

 

CAMBIAMENTO CLIMATICO: L’IO, L’ALTRO E I NEURONI SPECCHIO

In fiamme

 

Se si prova a fare brevemente una ricerca su Google associando il concetto di psicopatologia a cambiamento climatico si trova una sequenza di titoli che rimandano ad alterazioni psichiche diffuse legate ad ansia, paura del futuro, per sé e/o figli e nipoti, esitazione o rifiuto di procreare, si parla di eco-ansia, di depressione, di disturbi legati ad aumento di consumo di sostanze psicotrope. Se poi si è incappati in fenomeni atmosferici eccezionali con pericolo di vita, si hanno conseguenze più gravi: si tratta di un recente campo di ricerche e trattamenti per psichiatri, psicoterapeuti e psicologi. Molto comprensibile.

Ma trovo strano che non emerga affatto un interrogativo inquietante che riguarda un aspetto direi centrale di tutta la questione, e cioè quel che sta dentro la testa di coloro che hanno, o meglio avrebbero e avrebbero avuto nel passato prossimo, il potere di dirottare i pericoli maggiori inerenti alla trasformazione del clima sulla Terra e non solo non l’hanno fatto e non lo stanno facendo pur avendone la facoltà, ma persistono a degradarlo, e guardano ad un futuro che si prospetta grazie a loro sempre più minaccioso esibendo una protervia e un’incuranza olimpiche, come se abitassero su un altro pianeta edenico. Forse pensano che la loro ricchezza e potenza li trincerino dietro corazze impenetrabili, loro, la loro progenie e il loro entourage? O sono talmente ignoranti e analfabeti al di fuori di quanto riguarda affari e profitti da pensare che tutti gli innumerevoli incontrovertibili studi e rapporti degli ultimi quaranta anni di migliaia di scienziati siano favole, esagerazioni? Che fenomeni atmosferici sempre più distruttivi rientrino nell’altalena di cicli climatici solo un po’ più capricciosi che in passato?

La rete dei principali responsabili del crimine ecologico

E’ stupefacente apprendere ad esempio dal Five Years Report del 2020[1], frutto del lavoro di indagine di vari scienziati coordinati da Urgewald (https://www.urgewald.org/en/english), un’organizzazione tedesca non-profit nata 25 anni fa che si batte per la salute ambientale e i diritti umani, cresciuta fino a diventare un’influente centrale di analisi e denuncia nei confronti dei responsabili attuali della marcia verso il collasso climatico, che due giorni prima del quinto anniversario dell’accordo di Parigi sul clima (Le Bourget, 12 dicembre 2015) un rapporto stilato da 18 ONG stigmatizzava “12 progetti riguardanti i combustibili fossili tra i più devastanti che sono attualmente in corso di attuazione o in fase di pianificazione. Soltanto questi progetti di espansione (dell’uso dei combustibili fossili) consumerebbero i ¾ del bilancio di Co2 rimanente se vogliamo avere un 66% di probabilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5 ° Celsius.” E più avanti:” Il rapporto rivela che le istituzioni finanziarie hanno fornito 1,6 trilioni (migliaia di miliardi) in finanziamenti e garanzie dal gennaio 2016, e fino all’agosto 2020 avevano investito 1,1 trilioni di dollari in obbligazioni e partecipazioni azionarie nelle 133 società responsabili dei 12 progetti.” Per quanto riguarda le banche, le società che hanno più beneficiato dei finanziamenti dopo l’accordo di Parigi sono BP[2], Exxon Mobil, Petrobras, State Grid, Corporation of China and Occidental Petroleum, con un totale di 358 miliardi di dollari di prestiti e garanzie tra gennaio 2016 e agosto 2020. E chi ha investito di più in questa marcia verso il disastro? Gli USA prima di tutti, con Black Rock, Vanguard, State Street, Capital Group. Seguono i Fondi Pensione del governo norvegese (ricordo il titolo di un articolo di le Monde Diplomatique di circa trent’anni fa: “giocarsi la pensione in borsa”), UBS (Svizzera), Deutsche Bank (Germania), la banca preferita dal nostro Cassa depositi e Prestiti via Banco Posta, e Legal & General (UK).

Cartina del Mozambico

Tra i dodici studi di caso analizzati nel rapporto spicca quello sul Mozambico, paese dove ho lavorato quattro anni tra fine anni 1970 e inizio anni 1980. Erano i primi anni di indipendenza[3] e le condizioni di partenza dal punto di vista economico e sociale e della qualificazione della forza lavoro erano difficilissime. Il Portogallo, la potenza colonizzatrice, aveva dissanguato il paese e lasciava dietro di sé miseria e analfabetismo, ma anche la risorsa insostituibile di un pugno di dirigenti, donne e uomini, rivoluzionari entusiasti, capacissimi, colti e consacrati al benessere del proprio popolo.  La FRELIMO, fronte di liberazione del Mozambico aveva combattuto e vinto una guerra di guerriglia iniziata nel 1965, scendendo dalla boscaglia del nord della provincia di Cabo Delgado fino alla capitale Lourenço Marquez, ora Maputo. Era un piccolo gruppo di donne e uomini dal valore inestimabile. E la popolazione se ne rendeva conto ed esisteva una grande fiducia reciproca, una forte volontà di riscatto e di “sviluppo”. La decade del 1980/90 era stata dichiarata dal presidente Samora Machel (assassinato nel 1986 dai servizi segreti dell’Africa del Sud dell’apartheid) “a decada da saída do subdesenvolvimento”, la decade dell’uscita dal sottosviluppo. Fu invece la decade di una guerra feroce, complessa, le cui cause furono sia esogene che endogene, ma in ultima analisi frutto dell’opera destabilizzatrice condotta dagli Stati Uniti soprattutto e Africa del Sud in tutta l’area australe. Dopo gli accordi di pace del 1992 il Mozambico pur con alti e bassi si era risollevato dal baratro ma oggi tutto è cambiato. La Frelimo, diventata da tempo “il” Frelimo, partito che non può perdere le elezioni anche a costo di brogli, ha cambiato volti e pelle, trasformandosi in un gruppo dirigente sostanzialmente predatore, non distinguendosi dalla media dei dirigenti africani (e non solo), più spesso dediti ad accumulare beni per sé e a conservare il potere che a tutelare gli interessi del popolo. Jean François Bayart in un libro sul Cameroun degli anni 1970 la battezzò: la politica del ventre. 

Chi investe nella distruzione del pianeta Terra

Riprendiamo il Five Years Report: tra il 2010 e il 2013 nel nord del Mozambico sono stati scoperti estesi giacimenti di gas, più di 3 trilioni di metri cubi di gas, il che rende il Mozambico il nono paese al mondo per riserve di gas. E’ subito scattata la “resource curse”, cioè il paradosso per cui i paesi con più risorse naturali finiscono con l’arricchire soltanto un sottile strato privilegiato di dirigenti e affaristi locali e ingrassano, esportando materie prime, le multinazionali mentre il popolo rimane nella miseria. Il petrolio della Nigeria non ha certo favorito chi abita nel Delta del Niger, ha inquinato e distrutto le fonti di sostentamento tradizionali e danneggia gravemente la salute degli autoctoni. La RDC è un altro esempio flagrante di maledizione delle risorse.

La provincia di Cabo Delgado in guerra

La provincia del nord del Mozambico, culla della lotta per l’indipendenza, Cabo Delgado, da paradiso naturale si è trasformata in focolaio di ribellione pseudo-jihadista a partire dal 2017, certamente foraggiata e fomentata con l’aiuto di gruppi esterni, ma inequivocabilmente generata localmente dal malcontento per lo sfruttamento di risorse che lungi dal migliorare le condizioni degli abitanti li escludeva e inquinava la natura dalla quale traevano sostentamento. A tutt’oggi gli attacchi dei cosiddetti “chababos”, corruzione mozambicano-portoghese dell’arabo al shabaab, cioè i giovani, si moltiplicano e hanno causato quasi 4000 morti, poco meno di un milione di sfollati che marciscono in miseri accampamenti, e i ritorni, quando possibili, verso i villaggi d’origine depredati sono deludenti perché mancano condizioni di vivibilità. Numerosi studi hanno dimostrato, anche con ricerche sul campo, che la religione c’entra ben poco: le ragioni alla radice della ribellione sono economiche, sociali, culturali, in un ambiente certo storicamente islamizzato. Tra le multinazionali che intendono sfruttare i giacimenti c’è il colosso Total Energy, ma anche ENI e Exxon Mobil, che vista la mala parata per l’espansione dell’insurrezione che tracima da Cabo Delgado verso ovest e verso sud, si concentrano sui giacimenti offshore. Tutto ciò mentre il governo cerca una soluzione prevalentemente militare (facendo ricorso alle forze scelte del Rwanda e del Sud Africa che spalleggiano l’esercito mal equipaggiato) a profondi problemi sociali ed economici. E’ la stessa sciagurata scelta militare che i capi di stato di Mali e Burkina Faso, ora militari andati al potere dopo ripetuti colpi di stato, hanno fatto, trascurando scientemente le cause profonde delle sanguinose insurrezioni armate. Ormai il Sahel brucia letteralmente, la descolarizzazione imposta dalla minaccia delle armi e dei sequestri dilaga, i profughi interni sono centinaia di migliaia e dipendono dagli aiuti umanitari, che da anni rimpiazzano le politiche di sviluppo di tempi ormai lontani. Tale conflittualità è esacerbata dalla crescente competizione per l’accesso a risorse come terra coltivabile, acqua, pascoli sempre più scarsi, dai periodi di siccità sempre più frequenti e lunghi, dalle difficoltà a sopravvivere. 

Somalia Centrale vicino Baidoa

La Somalia sta vivendo la sua peggiore siccità da quaranta anni. Il Pakistan è stato sconvolto pochi mesi fa da inondazioni epocali. E anche il Mozambico è stato colpito di recente da cicloni devastatori che aumenteranno prevedibilmente in intensità: nel 2019 il ciclone Idai provocò più di mille morti tra Mozambico, Malawi e Zimbabwe[4]. Ma tali sconvolgimenti non sembrano turbare i sonni e le scelte degli AD e degli azionisti. Né dei governi. L’ONU appare impotente con lamentele e denuncie.

La "Resource Curse"

Quello che stupisce è che non solo il Mozambico ma sempre più dirigenti africani che constatano la scoperta recente di insperati giacimenti di combustibili fossili nei loro paesi optino per il loro sfruttamento senza rendersi conto (o chiudendo volontariamente qualche interruttore nel loro cervello) che i danni che avranno per il peggioramento delle condizioni climatiche potranno superare i vantaggi che ricaveranno nell’immediato dalla monetizzazione delle nuove risorse. Il Senegal, l’Uganda, la Tanzania, la RDC stanno compiendo scelte che implicheranno conseguenze deleterie. Quali migliori fonti di energia rinnovabile del sole, degli immensi fiumi africani, delle cascate africane? Essi dovrebbero sollecitare il trasferimento delle tecnologie per meglio sfruttarle. Ma i soldi non andrebbero nelle tasche giuste. L’oleodotto che si vuole costruire tra Uganda e Tanzania è stato dichiarato “una bomba climatica”. E la RDC si vuole giocare la foresta del bacino del Congo, il primo polmone del pianeta, per assorbimento di CO2.[5]

Lo scienziato Giacomo Rizzolatti

E qui tornerei al punto di partenza di questo scritto. E’ troppo ingenuo chiedersi con quale coscienza si perseguono scelte che porteranno a catastrofi inaudite con altissima probabilità? Come si cancellano le immagini dei disastri naturali a catena, di persone scheletriche, dei naufraghi climatici nel Mediterraneo, nell’ Atlantico, degli accampamenti di tende fatte di cartone e tela?

Nel 1992 il maggiore neuroscienziato italiano, Giacomo Rizzolatti, scoprì i cosiddetti neuroni specchio, che si ipotizza siano alla base dell’empatia, oltre che della socialità e dell’apprendimento. E’ eloquente il titolo di un suo libro scritto a quattro mani con Corrado Sinigaglia: So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio[6]. La comprensione delle azioni dell’altro, delle sue motivazioni, la capacità di immedesimarsi nella situazione altrui e quindi di condividerne sensazioni e sentimenti è fondamentale per lo sviluppo armonioso dell’essere umano, ma non solo. I neuroni specchio sono presenti nel cervello dei primati, quindi di gorilla, scimpanzé e orangutan. E allora non sono presenti nel cervello dei dirigenti di Exxon Mobil o Total Energy, ecc? Si ma…

Rizzolatti precisa che i neuroni specchio pertengono alla sfera intuitiva, e si attivano se io riconosco me stesso nell’altro. Se la mia cultura acquisita mi dice che l’altro, il mio prossimo si diceva una volta, è totalmente “altro” da me, l’identificazione non scatta, i neuroni non si attivano, non “sparano”. Quindi si possono spegnere, tacitare. La sfera culturale prevale. I rumeni sono simili a me, gli arabi, i musulmani, i neri no.

Evidentemente questo accade sempre più spesso, a partire dalle politiche criminali rispetto alle migrazioni internazionali, nei confronti di chi cerca di fuggire da paesi che ardono o che sprofondano per frane e allagamenti, o in guerra, anche quando i cadaveri vengono sfrontatamente rigettati sulle spiagge europee dell’Andalusia, di Lampedusa o di Samos. Tanto più facile ignorarli se si abita a New York, a Milano o a Bruxelles, così lontano da Cabo Delgado, dal Delta del Niger o da un villaggio del Burkina Faso ma pare anche dalle coste mediterranee. Finché non arderà o sprofonderà il terreno anche sotto i piedi dei ricchi e potenti? 

Un manifesto della FGCI del 1994

 

 


[1] https://www.urgewald.org/five-years-lost

[2] BP si vantava che il suo acronimo non significasse più British Petroleum bensì “Beyond Petroleum”, oltre il petrolio.

[3] Anno Indipendenza 1975

[4] https://www.focus.it/scienza/scienze/da-tempesta-a-ciclone-che-cosa-e-successo-in-mozambico

[6] Ibs, 2005