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lunedì 29 aprile 2019

IL SERPENTE DEL PACIFICO: IL CILE (3° PUNTATA)


IL SERPENTE DEL PACIFICO 3
CENTRO E “SUR CHICO” 

“Non potete minacciare con le armi coloro che valutano la libertà più che la vita.”
(Il capo Cacique Mapuche Antupillan al governatore spagnolo Loyola nel 1575)
Paesaggio della precordigliera
 
La Serena, cittadina costiera a nord di Valparaíso, si trova nella regione di Coquimbo, Norte Chico, ma non avendone parlato nella puntata precedente vorrei rimediare, perché vale la pena conoscere il processo di fabbricazione della balsa – la definirei un natante - esposta nel locale museo archeologico, copyright del Pueblo Chango, cultura Huentelauquén, con una tecnica risalente al periodo arcaico (8500-500 a.C.) che sopravvisse fino a un secolo fa; si usavano queste balsas per caricare il salnitro[1]
lobos marinos a Iquique (foto mia)
La balsa è di pelle di leone marino. Si utilizzavano quattro animali: si cucivano le pelli l’una all’altra e le si calafatavano con il grasso degli stessi leoni marini, le si gonfiavano soffiando dentro tubi di osso, tra le pelli rigonfie si infilava una stretta tavoletta di legno e si aggiungevano due remi. L’imbarcazione era così pronta per cacciare persino tonni e balene, si legge nella nota esplicativa, con arpioni acuminati di osso; per uccidere queste ultime si mirava al cuore, sotto le pinne. Guardando questa esilissima balsa sembra incredibile che chi le maneggiava osasse affrontare tra le onde tempestose del Pacifico i colossi che Melville definiva leviatani. Caratteristiche del Huentelauquén sono anche le cosiddette pietre geometriche, il cui uso non è chiaro, si ipotizza cultuale, unitamente agli allucinogeni, collocati su tavolette e inalati.
Pietre poligonali (foto mia)
Vicino a La Serena, nel Valle del Elqui, a Vicuña, sono salita ad un Osservatorio[2]: il paesaggio è già atacameño, costellato di cactus e prosopis, il sentiero è pietroso, ma nel fondovalle si scorge un’oasi coltivata a ortaggi: regna una gran pace e un profondo silenzio, l’aria è cristallina. Merito del quarzo ialino racchiuso tra i monti[3]? Consiglio ad eventuali viaggiatori di includere il luogo nel loro itinerario, anche per godere dei tersi cieli stellati.
Nel piccolo museo di Los Andes si apprende che fu l’impero Inka (800-1450 d.C.) a inventare le poste: il loro immenso territorio, chiamato Tawantinsuyo, era diviso in quattro distretti e comprendeva il sud della Colombia, l’odierno Ecuador, parte della Bolivia occidentale, il Perù e il Cile di oggi fino al Maule (centro). Per far circolare i messaggi stabilirono percorsi per staffette. I loro uomini, chiamati chaskis, dovevano correre per 22 km esatti prima di passare il testimone al corridore successivo, e così ininterrottamente fino alla meta prescelta. Si comprende perché “posta” si dica in francese “courrier” e in spagnolo “correo”!

Osservatorio Valle del Elqui
Arrivo a Talca da Los Andes passando per Santiago: è una tappa intermedia nella regione vinicola che non mi interessa particolarmente ma la scelta si rivela azzeccata, a partire dall’albergo che pur non essendo lontano dal centro è immerso nel verde, in un bel giardino. Le stanze sono in cabañas individuali: si chiama Stella Bordestero. Da Talca visito la riserva nazionale Altos de Lircay: solita arrancata in autobus fino a Vilches alto e orari contingentati, è domenica, per cui in tre ore pochi chilometri sono concessi, anche perché occorre camminare per arrivare all’entrata (pagante) della riserva. Mi bastano comunque per assaporare un paesaggio di immensi alberi ultracentenari, i primi coyhues che vedo e rivedrò nelle selve australi ben più a sud[4], con tronchi imponenti e chiome che si smarriscono in cielo. Su di un tronco c’era un cartello:” questo albero era un giovane arbusto quando Cristoforo Colombo toccò terra a San Salvador nel 1492”. Da un belvedere nel bosco si scorge una montagna violacea. Peccato: sarebbe bello fermarsi nel campeggio ma non sono attrezzata, quindi me ne riparto con il dépliant del parco e un po’ di rimpianto, ché ben altre cime e sentieri sarebbero stati appetibili. 
 
Altos de Lircay (foto mia)

Come premio di consolazione a Talca trovo un ristorante aperto (anche se è domenica) che serve un ottimo ceviche[5]: è il piatto che mi ha salvato dal digiuno in varie circostanze, poiché i cileni apprezzano un po’ troppo la carne per i miei gusti ed è difficile trovare formaggi artigianali. Il facsimile di formaggio più diffuso nazionalmente è un infame laminado (lo chiamano così), un parallelepipedo pressato che si affetta come salame. Le grigliate di San Silvestro sulla caldissima spiaggia di Iquique esibivano quasi sempre grassi salsicciotti. Non a caso il ceviche è di origine peruviana. E occorre dire che le conseguenze di una dieta carnivora irrorata di ketchup e innaffiata di Coca Cola sono evidenti (anche se vi sono certamente altri fattori in gioco): l’ultima indagine nazionale di sanità pubblica 2016/17 rivela che un bambino su quattro è obeso e ben tre adulti su quattro lo sono[6]. Molte giovani mamme sono già sovrappeso.
Pochi km più a sud la tappa successiva è Villa Alegre, nel cuore della regione vinicola e agricola, dove sono generosamente ospitata da una signora italo-cilena, ex rifugiata in Italia dopo il golpe di Pinochet e rientrata in gran fretta in Cile in seguito al fortissimo terremoto del 2010, 8,8 gradi della scala Richter, che durò ben quattro minuti e fu seguito da un devastante tsunami, dato che l’epicentro si trovava nell’oceano Pacifico. Le regioni più devastate furono proprio quelle di Talca e immediatamente a sud, di Concepción. Il padre della mia amica si salvò ma la casa e le piccole dépendances che la attorniavano - è una zona rurale - furono distrutte. Le stesse che ricostruite mi hanno accolto tra un orto e un giardino pieno di fiori e alberi da frutto. 
Vigna a Villa Alegre (foto mia)
La città di Talca oggi non mostra cicatrici evidenti, ma mi si dice che dopo il terremoto sembrava bombardata, idem per Concepción. Una mattina facciamo una lunga passeggiata per andare a visitare la vigna di un conoscente che fa anche agriturismo; una degustazione non è possibile e poi non è l’ora giusta, il rientro sotto il sole sarebbe anche più faticoso, ma il luogo è molto gradevole e ascolto il racconto di una leggenda su una famosa marca di vini della zona: el Casillero del Diablo[7], cantine di Concha y Toro. Veramente riscontro una divergenza tra la versione online e quella del vignaiolo di Villa Alegre, che la mette così:
“Il padrone delle vigne, Don Melchor, marchese di Concha y Toro, avvocato e uomo politico, era molto ricco e divenne ancora più ricco quando decise di piantare delle vigne con ceppi francesi e i suoi vini ebbero un grande successo: divenne tanto ricco che nacque la leggenda che avesse fatto un patto con il diavolo e che il suo tesoro fosse custodito dal Maligno in un luogo nascosto nelle sue vigne. Nacque così la leggenda del Casillero del Diablo, lo stipetto del diavolo”.
Paesaggio centro-sud cileno (foto mia)
 Concepción, cittadina molto piacevole situata nel mezzo di una zona intensamente industrializzata, siede appena a nord dell’estuario del fiume Biobío, oltre il quale inizia “ufficialmente” il Sur Chico. Fu fondata da Pedro de Valdivia, uno dei conquistadores del Cile, e rappresentò per più di due secoli l’ultimo loro avamposto al margine della Frontera che segnava il confine tra i territori spagnoli e la terra Mapuche, il Wallmapu, dove gli spagnoli riuscirono a penetrare definitivamente solo negli anni successivi al 1870. Il segreto della resistenza Mapuche fu oltre al loro coraggio la rapidità con la quale appresero dai nemici a usare il cavallo in battaglia; furono così l’unico popolo autoctono a sopravvivere e vincere almeno finché le forze dello Stato cileno (e la ferrovia) non ebbero la meglio. “Senza il cavallo l’America sarebbe stata scoperta ma non conquistata”, avevo letto nel museo di Los Andes.
La prosperità di Concepción fu dovuta in gran parte alla scoperta di giacimenti di lignite, a metà del 1800, nella cosiddetta Costa del Carbón, a qualche decina di km dal centro città. Dopo una progressiva diminuzione dell’uso del carbone, le miniere furono chiuse nel 1997. Una miniera particolare era quella del piccolo centro di Lota, chiamata Chiflón del Diablo[8], cioè soffio del diavolo, in quanto è a ventilazione naturale, e si inoltra sotto l’Oceano Pacifico. Dopo la sua chiusura i minatori si sono reinventati come guide turistiche e organizzano discese nelle gallerie con piccoli gruppi di visitatori cui spiegano il processo di estrazione e rievocano la vita dei minatori. 
Galleria Chiflon del Diablo

Sono scesa nel Chiflón il pomeriggio del 19 gennaio, bardata come tutti gli altri di un pesante armamentario. L’ascensore non funzionava per cui siamo scesi lungo una galleria ripida e scivolosa che non finiva più. La nostra guida era particolarmente logorroica e ci ha tenuto sotto mare e terra per più di un’ora e mezzo, tempo che mi è sembrato interminabile. Le gallerie sono anguste, umidissime, stillanti anzi, e sorrette da travature di legno, l’unica luce era quella delle torce sui nostri caschi. Di conseguenza le mie foto sono bruttine ma non era facile estrarre il telefono cercando di non scivolare nella fanghiglia e azzeccare un’inquadratura nella penombra senza fermare la fila. La guida era figlio e nipote di minatori e ho avuto l’impressione che sfogasse la sua frustrazione per una vita di merda, bisogna dirlo, ripetendosi spesso e tenendoci inchiodati su scomode panche oltre misura. Rivedere il cielo fu assai gradito, e mi congratulai con la nostra fortuna quando lessi il giorno dopo che la sera precedente c’era stato un terremoto con epicentro a La Serena, centinaia di km più a nord, 6,7 gradi scala Richter[9].
Villaggio dei minatori ricostruito all'entrata miniera
A Temuco, capitale dell’Araucania oltre il fiume Biobío, inizia il sud: l’ho trovata un po’ triste, tagliata a metà in pieno centro dalla ex Panamericana ingombra di traffico. Unica attrazione paesaggistica il Cerro Ñielol, dove da ragazzo passeggiava Pablo Neruda che affermava nelle sue memorie: “Le terre della Frontera hanno messo le radici nella mia poesia, e non ne sono mai uscite. La mia vita è un lungo pellegrinaggio che attraverso continue svolte ritorna sempre alla foresta australe, alla selva”. E’ il testo impresso su una targa di legno all’ingresso del parco del Cerro, lussureggiante di felci enormi e di alberi maestosi.
Pannello all'entrata del Cerro Ñielol a Temuco
Il Museo regionale dell’Araucanía è quasi tutto focalizzato sulla cultura tradizionale Mapuche, e la ricostruzione storica della Conquista del Wallmapu[10] ma i pannelli esplicativi si fermano a inizio ‘900, non facendo parola della vera e propria guerra in atto oggi per azzerare i diritti dei Mapuche su terra, acqua e risorse naturali nel loro territorio ancestrale[11]. Tra le opere esposte articoli d’abbigliamento tessuti a mano: mi colpisce la somiglianza con la complicata tessitura e i disegni visti al bellissimo museo di Sucre in Bolivia: la stessa filosofia li sottende. In ambedue i casi le tessitrici proiettano la loro vita e il loro mondo sulla tela e ogni traccia ha un significato; attraverso il telaio traducono il loro pensiero e si situano nel contesto sociale e familiare.
Trariwe Mapuche (fascia, cintura) (foto mia)


 “La tessitura è ancestrale, c’è la vita di una (donna) e della sua famiglia scritta nel chamal, nel trariwe, nel pelero, nel chañuntuku…nelle coperte; una donna doveva sognare i colori, i disegni, la storia che lei voleva raccontare…”, dice una didascalia.[12]  Anche le anziane donne dei villaggi Bambara con le quali ho lavorato in Mali proiettavano il loro vissuto nelle tele bogolan tradizionali, i cui disegni marrone tracciati con un impasto particolare di terra indelebile narravano sia la loro vita che il mondo circostante.
Carro di alghe cochayuyo a Temuco (foto mia)
A Temuco scopro un’alga mai vista prima, chiamata localmente cochayuyo: una mattina nella Plaza de Armas ce ne sono due carri stracarichi trainati da due possenti buoi, le alghe sono gigantesche, di un marrone poco attraente, legate in fascine. Mi avvicino incuriosita e ne chiedo l’utilizzo. Pare che dopo ripetute cotture si usino come condimento nel ceviche[13].  Ho scoperto in rete addirittura ristoranti che la servono come una specialità locale. Accanto sono anche in vendita piccole bacche molto buone chiamate maqui che si colgono da alberelli che vedrò dopo qualche giorno a Castro, nell’isola di Chiloé. 
Partenza per Villarrica, che si rivelerà molto più ridente di Temuco, per Chiloé e la Patagonia.
Maschera Mapuche, Museo Regionale di Temuco (foto mia)


[1] https://es.wikipedia.org/wiki/Balsa_de_cuero_de_lobo

[2] I cieli del Valle sono famosi per la loro limpidezza per cui la zona pullula di Osservatori.
[3] http://www.diarioeldia.cl/cultura/ruta-cuarzo-piedra-mistica-preciosa
[4] http://www.highonadventure.com/Hoa07dec/Lee/Otherworldly.htm
[5] Nota gastronomica: il ceviche è composto di pesce crudo o frutti di mare marinati nel limone e condito con pezzetti di peperone e coriandolo fresco. Può essere o no piccante, è servito con salsine deliziose.

[6] Rev. chil. nutr. vol.45 no.1 Santiago 2018 https://scielo.conicyt.cl/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0717-75182018000100006

[7] http://www.venderepiuvino.it/blog/la-storia-di-casillero-del-diablo/
[8] https://es.wikipedia.org/wiki/Chifl%C3%B3n_del_Diablo
[9] https://www.youtube.com/watch?v=1Ud-EH1SoRw
[10] Wallmapu in mapudungun, la lingua dei Mapuche, significa terra (mapu) circostante, e Mapuche, gente della terra.
[11] Il numero di dicembre 2018 di Le Monde Diplomatique edizione cilena ha diversi articoli su questo argomento.
[12]https://www.google.com/search?q=chamal+trariwe&tbm=isch&source=hp&sa=X&ved=2ahUKEwjPnPai_e3hAhWKmBQKHeF4BB8Q7Al6BAgJEA8&biw=1352&bih=646#imgrc=0_SYiWnvdTRWpM:
[13] https://www.chileestuyo.cl/cochayuyo-el-alga-tipica-de-las-costas-chilenas/

lunedì 15 aprile 2019

IL SERPENTE DEL PACIFICO:IL CILE (2° PUNTATA)


IL SERPENTE DEL PACIFICO 2

 Viaggio dall'Atacama allo Stretto di Magellano

“Norte Grande ” e “Norte Chico”

Gigante di Tarapaca', Atacama (foto mia)

E’ convenzione cilena suddividere il territorio geofisico nazionale in cinque grandi aree: da nord a sud  Grande Nord, Piccolo Nord, poi il centro agricolo e vinicolo, e dal fiume Biobío in giù, Sur Chico (piccolo sud) e Sur Grande, quest’ultimo comprendente Patagonia e Terra del Fuoco, con le ghirlande di tutte le innumerevoli isole circostanti fino al parallelo 55°59’ latitudine sud; l’estrema punta rocciosa dell’isoletta di Cabo de Hornos non è però il limite estremo di un continente terragno, bensì un puntino nell’oceano sotto l’isola Navarino, quasi invisibile sulla carta. Ma cominciamo da 4300 km più a nord al confine con il Perù, dalla Regione di Arica y Parinacota, ovviamente Norte Grande.

 Arrivando ad Arica da Iquique il panorama dalla Panamericana (ora Ruta 5)
Atacama, punto imprecisato foto mia)
abbraccia speroni di roccia, vallate scabre e scarpate color ocra per centinaia di km: è l’Atacama, il deserto più arido del mondo, che inizia 1000 km più a sud. A volte compaiono rare macchie di paja brava, ispidissime barbe vegetali di colore indefinito e cactus un po’ rachitici. Su un declivio di terra rosata sul lato sinistro della strada in direzione nord appare la visione del Gigante di Tarapacá, un imponente geoglifo antropomorfo[1]lungo 115 mt che raffigura una sagoma umana attorniata da intricati disegni geometrici e antropomorfi. Datato intorno al 1000 d.C., un sito cileno suggerisce che raffiguri una divinità mitica in viaggio dal lago Titicaca all’oceano[2], Lonely Planet, un guerriero.
Leggo strabiliata che tre turisti-vandali si sono addentrati in situ il 6 gennaio di quest’anno con la loro automobile, calpestando poi anche a piedi i geoglifi intatti da più di dieci secoli. Processati, sono state emesse condanne ridicolmente indulgenti, dato che si afferma che il danno è “irreparabile”[3]. Ho ammirato l’insieme ancora intatto dall’autobus, grazie all’autista comprensivo che si è quasi fermato per darmi modo di fotografarlo.

Tamarugos vicino a Pica (foto mia)
La monotonia del viaggio nel deserto è spezzata a volte inaspettatamente: filari di alberi anche maestosi, algarrobo o boschetti di tamarugo prosopis fioriti, seguiti da coltivazioni e orti, oasi che possono diventare delle città fiorenti, come Vallenar, o piccole enclaves deliziose come Pica, con le sue acque termali e gli alberi da frutto. I miracoli delle nappe freatiche nel deserto, nutrite da acquiferi profondi e giacimenti di acqua fossile sono stupefacenti, ma riposano su equilibri delicatissimi che lo sfruttamento dissennato dei giacimenti di litio contenuto nelle distese di sale dell’Atacama possono far scomparire come miraggi in una bolla di sapone. I cosiddetti salares[4], sterminate distese di croste salate che si estendono sull’altipiano nel triangolo Cile-Bolivia-Argentina, relitto geologico di un mare primigenio, racchiudono infatti le maggiori riserve di litio al mondo, minerale diventato negli ultimi 10-15 anni imprescindibile soprattutto nell’elettronica, ma anche nel nucleare, in campo bellico e persino in medicina. Facendo escursioni in paesaggi incantati nei dintorni di San Pedro de Atacama, per esempio al Geyser di El Tatio, al Salar de Atacama o alle Lagunas Escondidas - specchi d’acqua azzurrissimi circondate da distese saline di bianchezza abbagliante - sapevo di percorrere un ecosistema antichissimo, fragile come porcellana di Sèvres e ben più prezioso. 
Lagunas escondidas, vicino San Pedro de Atacama (foto mia)
 

Si ricevono istruzioni essenziali di comportamento, a volte purtroppo, come ho constatato, non osservate. Ma non immaginavo, né le agenzie turistiche ne fanno cenno, l’impatto negativo che questo ambiente unico al mondo[5]sta già soffrendo a causa del prelievo di litio dalla massa salmastra (che viene pompata all’esterno dalle profondità del salar e lasciata evaporare in grandi mucchi fino a renderla lavorabile) dalle due principali imprese concessionarie: la cilena SQM -  il proprietario miliardario, Julio Ponce Lerou, è l’ex genero del generale Pinochet - e la Albemarle, nordamericana. 
Juan Ponce Lerou (www.google.com)

Le due imprese si accusano a vicenda di superare le quote di estrazione stabilite nei loro contratti con l’Agenzia statale cilena CORFO, mettendo così a repentaglio non solo le riserve di litio, ma soprattutto sottraendo con il sale anche l’acqua che rende possibile la vita delle oasi e l’economia indigena dell’area. 
Nel 2013 gli ispettori della CORFO arrivarono alle installazioni della SQM e si avvidero che 23 algarrobo, alberi che sopravvivono protendendo le loro radici in profondità fino a raggiungere l’acquifero, perdevano foglie e stavano morendo[6]. Erano alberi sentinella che la SQM si era impegnata a monitorare: da allora, altri alberi sono morti. Insomma, un altro possibile ecocidio è in vista se le autorità cilene non riusciranno a tenere a bada l’avidità dei saccheggiatori. Del che si può dubitare: un articolo del 2018 reperibile in rete denuncia l’ultimo rinnovo contrattuale del Governo con la SQM (fino al 2032!), secondo i termini del quale la quota di estrazione potrà essere quintuplicata[7].

Mummia "negra" Chinchorro (foto mia)

Il Museo di San Miguel de Azapa, 10km a nord di Arica, è ben lontano da questo tumulto di interessi: là dormono il loro sonno millenario le più straordinarie mummie che si possano immaginare: straordinarie per la loro antichità – 5000 anni a.C. - , per le tecniche ingegnose architettate per la loro confezione, e infine per il fatto che il popolo Chinchorro che le creò era allo stadio arcaico vivendo di caccia, pesca e raccolta di frutti selvatici, e non praticava l’agricoltura o il commercio come l’egizio. Inoltre, mentre le mummie egiziane erano di re, nobili, sacerdoti, i Chinchorro mummificavano democraticamente tutti, persino i feti e i nati morti. E questo aspetto è forse il più commovente. 
 Le più antiche mummie sono “las negras” e la loro confezione era la più complessa: i corpi
Feto mummificato (foto mia)
venivano delicatamente scuoiati e la pelle messa da parte, poi le interiora e il cervello erano estratti, le carni eliminate, le ossa smontate. Lo scheletro ripulito era rimontato con l’aiuto di stecche e rivestito con materiale vegetale secco modellandolo per simulare i muscoli, si usava la pelle conservata per ricoprirli, usando anche pelle di leoni marini [8]per sanare i vuoti, e infine la sagoma ricostruita era ricoperta di una pasta di cenere e spennellata con una vernice di polvere di manganese (appunto, nera). Le mummie più recenti, le rosse, furono preparate meno accuratamente e ricoperte di una pasta di ocra rosso vivo. A volte si ornavano le teste con parrucche di capelli veri. I lineamenti erano infine modellati minuziosamente[9]
Mummia "roja" con parrucca (foto mia)

Sono rimasta letteralmente affascinata da questo immenso amore e rispetto per i trapassati, per questo legame così solido che abbracciava i viventi e i morti nella cornice di un unico mondo culturale, in un presente comune prolungato. Il clima secco e intriso di salinità ha fatto sì che queste creazioni artistiche singolari siano giunte intatte sino a noi. Ed ora, dopo avere attraversato i millenni, le mummie di San Miguel de Azapa rischiano di deperire a causa delle modifiche climatiche: dei batteri prodotti dall’aumento dell’umidità e della temperatura le stanno attaccando provocando lesioni. Per fortuna già si studia il modo di arrestare il deterioramento e trasferirle in un unico museo attrezzato adeguatamente nel 2020[10]. Intanto c’è pronto un dossier per chiedere per loro all’Unesco il crisma di patrimonio dell’umanità.
Balisier al Santuario del Picaflor, San Miguel de Azapa (foto mia)

Vicino a San Miguel ho visitato il “Santuario del picaflor”, cioè del colibrì: segnalato malissimo e quindi difficile da raggiungere soprattutto a piedi, è stato deludente: mi aspettavo un frullare frenetico di minuscole ali, e in un’ora e mezzo ho avvistato un solo esemplare, mentre pochi giorni dopo, a Taltal, ho quasi sbattuto il naso contro un colibrì indisciplinato che mi ha tagliato la strada davanti all’albergo. Bella però la vegetazione rigogliosa dell’oasi: ci sono i balisiers, già ammirati nel clima tropicale della Martinica.
Spiaggia urbana a Iquique (foto mia)

Più a sud, Iquique è oggi una mezza metropoli, con una lunga e bella spiaggia e un mare con onde temibili da surf, preda di un evidente appetito immobiliare stimolato dall’afflusso turistico crescente. Vi ho passato Natale e Capodanno, ma non consiglierei a nessuno di trovarvisi per le feste senza sapere in anticipo che né le sere del 24 e del 25 dicembre, né il 31 dicembre o peggio il 1° gennaio sarà possibile trovare un ristorante decente aperto. Il 24 dicembre ho festeggiato con un panino al formaggio e una bottiglietta di vino trovata per miracolo in uno spaccio caritatevolmente aperto, in compagnia di un tassista in vena di confidenze su pene d’amore coniugale. Comunque la sfida di trovare di che cenare si rinnova ogni domenica sera, a meno di non essere a Santiago o a Valparaíso. 

Un’osservazione ecologica: appollaiati sulle palme che costeggiano la spiaggia di Iquique o sugli scogli, colpisce il numero di cormorani neri, chiamati patos yecos (pron. gecos), che si stanno moltiplicando e invadono sempre di più gli spazi urbani, tanto da generare aspre polemiche tra chi sostiene le ragioni degli animali e chi li vorrebbe eliminare. A me sono sembrati pittoreschi e simpatici.

Ho accennato al prelievo odierno del litio dal salar, ma l’Atacama aveva già vissuto una altro periodo di sfruttamento intensivo dei suoi tesori minerali con l’industria del salnitro, che contribuì a creare una prima borghesia cilena tra Antofagasta e Iquique, madre (o nonna) di una buona parte della attuale oligarchia. Il salnitro si trova sulla superficie delle rocce in Atacama. Dopo che uno scienziato tedesco scoprì come sfruttarlo, nella seconda metà del 1800 nacquero i primi centri di estrazione e trasformazione del minerale. Prima del 1879 la regione di Antofagasta apparteneva alla Bolivia, mentre le regioni di Tarapacá e Arica appartenevamo al Perù. 

Il Cile 1879 (dal web)
Fu precisamente un aumento dell’imposta che le imprese cilene ad Antofagasta pagavano alla Bolivia per il trasporto del salnitro a far scoppiare la Guerra del Pacifico (1879/84), al termine della quale il Cile aveva conquistato tutti i territori boliviani e peruviani a nord di Taltal fino oltre Arica, impadronendosi di tutte le fabbriche di salnitro, sviluppandole con capitali soprattutto inglesi e americani. Dopo la crisi del 1929 e la produzione del nitrato di potassio sintetico l’industria declinò e un esercito di operai cileni, boliviani e peruviani dovettero riciclarsi emigrando nelle bidonvilles di Santiago o di Lima. Oggi la città morta di Humberstone (dal nome di un impresario inglese), già centro dell’industria del salnitro, è meta di escursioni turistiche. 
Ho ricordato questo capitolo di storia cilena perché al Museo Regionale di Iquique, oltre a reperti d’arte precolombiana e a mummie, sono esposte le fotografie scattate prima e dopo un feroce eccidio di operai che lavoravano nelle miniere di salnitro e vivevano in condizioni miserande nel deserto con le loro famiglie, pagati non in denaro bensì in gettoni solamente utilizzabili entro il recinto della “salitrera”, nei magazzini del padrone, esposti al sole infuocato di giorno e a temperature intono allo zero di notte. 
Lavoratori d una miniera di salnitro 1876 (wikipedia)

Il 21 dicembre 1907, in seguito a un lungo sciopero per ottenere un migliore salario e più decenti condizioni di vita, si asserragliarono con donne e bambini in molte migliaia dentro e intorno alla scuola Santa Maria di Iquique. Fu loro ingiunto di sciogliere l’adunata e tornare al lavoro entro un’ora, e al rifiuto degli operai di cedere fu aperto il fuoco con mitragliatrici. Migliaia di persone, mai si seppe quante, furono falciate: chi governava aveva legami stretti con gli industriali e interessi personali nell’industria del salnitro. “Los dueños de Chile somos nosotros, los dueños del capital y del suelo…”; non aveva peli sulla lingua Eduardo Matte Perez (1847-1902), liberale, deputato, senatore e ministro, bisnonno di uno degli oligarchi attuali. I padroni siamo noi e vogliamo restarlo[11]. E si sono moltiplicati e perpetuati tali.
Singolare addobbo a Taltal, terrazza albergo
Vale la pena menzionare un aspetto che in Sudamerica ho osservato solo in Cile: quasi in ogni città ci sono orde nutrite di cani randagi unici per discrezione e savoir faire: non disturbano minimamente i passanti, sono anche piuttosto puliti dato che non mi è capitato spesso di vedere tracce spiacevoli di deiezioni. Dormono placidi al sole, attraversano la strada ai semafori al verde. A Taltal, altra città mineraria a sud di Antofagasta, dotata di una gradevole ancorché corta spiaggia con simpatico salvavidas, mi ero allarmata una sera, memore di una pessima esperienza in Albania, vedendomi davanti una torma di 14 esemplari (contati). Sembrava una riunione operativa, erano vicino a un giardino; dopo un conciliabolo apparente, si sono allontanati al trotto, ignorandomi. Autonomia canina.
Per concludere il capitolo miniere, ho voluto visitare la più grande miniera al mondo di rame a cielo aperto a Chuquicamata, vicino Calama, dove risiede la Società che gestisce l’estrazione di questo minerale in tutto il Cile, la CODELCO, nazionalizzata da Salvador Allende nel 1971. Anche qui i padroni privati precedenti avevano eretto una città abitata da migliaia di operai e tecnici con relative famiglie, dotata di teatro, hotel, stadio, scuole, giardini e ovviamente negozi, il tutto proprietà della nordamericana Anaconda Mining Company. L’insediamento fu abbandonato non molti anni fa per la pericolosità della vicinanza alla miniera, ma date le visite turistiche guidate organizzate dalla Codelco è ancora mantenuta in ordine, deserta e pulita, come imbalsamata.
 
Chuquicamata città morta (foto mia)

Non lontano dalla ex città andiamo in gruppo a vedere la voragine immensa della miniera vera e propria che fumiga, quindi non si riesce a intravedere il fondo: si segue con lo sguardo l’arrancare lentissimo dei camion giganteschi che incessantemente salgono a spirale le pareti della cavità carichi di massi grigiastri e una volta scaricate le tonnellate di minerale ridiscendono la china, così per ore, un girone infernale. Sembra un gigantesco formicaio. Dietro alla città fantasma si scorge una montagna di materiale inerte da cui è stato estratto il rame: non ho idea di come (o se) verrà smaltito. Tutt’intorno complicate installazioni per l’estrazione e la raffinazione del rame. 
Chuquicamata, la miniera (foto mia)
Valparaíso è una città marinara incantevole, unica con i suoi murales, i suoi cerros (colli scoscesi) che possono essere raffinati o malfamati, sempre caratteristici, popolati da un miscuglio di classi sociali ma in pericolo di gentrificazione, e poi i suoi scorci coloratissimi, il porto accogliente e sempre affollato, le scalinatelle infinite. E la vita culturale è vivace: centri per incontrarsi e socializzare, negozietti di arte e di artigiani, ristoranti di ottimo pesce, caffè all’aperto traboccanti di gente, giardini e piazze. Solo il quartiere dietro il porto non sembra invitante, cadente e poco raccomandabile di notte.
La casa di Neruda (una delle sue numerose dimore), la Sebastiana, concepita come la prora di un bastimento e volta verso il mare, si raggiunge arrampicandosi da Cerro Alegre e proseguendo in cresta per vari km, ma ripaga la camminata perché è un vero museo, inconfondibilmente intriso di un’atmosfera raccolta e denso di una vita vissuta rincorrendo la bellezza. Purtroppo non si possono fare foto all’interno.
Notte a Valparaiso (foto mia

Vicino a Valparaíso c’è Viña del mar, raggiungibile con un trenino urbano, che vanta un imperdibile museo quasi interamente dedicato all’Isola di Pasqua. Un grande Moai si trova di fronte all’ingresso. Nel 1888 il Cile si annesse l’isola che oggi vive soprattutto di turismo, ma dopo quasi tre secoli di storia coloniale travagliatissima gli isolani si ribellano al destino di diventare un resort di lusso per la borghesia cilena e danarosi stranieri, e minacciano di denunciare il trattato del 1888 e adire all’indipendenza[12]. Bello anche il piccolo museo archeologico di Los Andes, pieno di informazioni su culture e popoli minori, tralasciati da altri musei di maggiori proporzioni. Da Los Andes tento di raggiungere la Cordigliera, ma l’autista dell’autobus, visto che sono l’unica passeggera, mi pianta in asso a metà strada, in un paesetto abbastanza insignificante, Rio Blanco, dove i cani non sono gentili come a Taltal e le montagne verso Mendoza lontane.
Bimbi a La Serena, Norte Chico (foto mia)
 

Geyser El Tatio, Atacama (foto mia)


Sfida tra un leone marino e un cane a Iquique (foto mia)



Festa religiosa a Calama davanti alla Cattedrale, dicembre 2018 (foto mia)

Murale a Valparaiso






[1] Disegni antropomorfi, di animali o geometrici tracciati sul terreno sia in rilievo, con pietre e ciottoli, o in negativo, rimuovendo la terra. Sono numerosi in Atacama, specialmente vicino ad Arica.
[2] http://www.esascosas.com/el-gigante-de-tarapaca-atacama/
[3] https://www.biobiochile.cl/noticias/nacional/region-de-tarapaca/2019/03/04/condenan-a-turistas-que-danaron-irreparablemente-el-monumento-arqueologico-gigante-de-tarapaca.shtml
[4] http://www.metallirari.com/piu-grandi-riserve-litio-mondo/
[5] Nel salar di Uyuni in Bolivia, anche più esteso di quello di Atacama e anch’esso immensa riserva di litio, le brame delle multinazionali sembra siano state per ora tenute a bada, chissà per quanto?
[6] https://www.reuters.com/article/us-chile-lithium-insight/a-water-fight-in-chiles-atacama-raises-questions-over-lithium-mining-idUSKCN1MS1L8?feedType=RSS&feedName=topNews
[7] https://es.mongabay.com/2018/10/explotacion-de-litio-en-chile-estado-renueva-contrato-a-empresa-infractora-ambiental/
[8] Sono chiamati in spagnolo lobos marinos, lupi marini.
[9] “Making the dead beautiful: mummies as art”, https://archive.archaeology.org/online/features/chinchorro/

[10] “Las momias mas antiguas del mundo no se derriten en Chile”, http://www.mnhn.gob.cl/613/w3-article-72599.html?_noredirect=1


[11] https://aquevedo.wordpress.com/2009/05/09/los-duenos-de-chile-somos-nosotros-el-poder-de-los-grupos-economicos/

[12] https://criterio.hn/2017/10/05/isla-pascua-chile-quiere-independizarse/