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venerdì 10 giugno 2016

VIAGGIO IN MAROCCO



MAROCCO COME MERAVIGLIA (E MALINTESI)

 Mura della Chellah, a Rabat

Nel 2001 avevo ricevuto un incarico di capo missione per la valutazione di un Progetto sanitario in Yemen e, forte dell’esperienza precedente in altri paesi arabi nei quali l’ignoranza della lingua era stata un ostacolo notevole, oltre che sottovalutato, pensai di attrezzarmi meglio acquisendone alcuni rudimenti per facilitare la comunicazione sul piano semplicemente umano prima e oltre che professionale. Così acquistai un corso audio-orale di arabo classico e presi alcune lezioni private propedeutiche, prima che mi fosse annunciata la cancellazione della missione in seguito al disastro delle Torri Gemelle, in attesa che l’impatto sconvolgente che ne seguì si attenuasse. Per smaltire il lutto me ne andai in Pakistan, altro giro altro regalo, e il corso di arabo continuò a esibire la sua presenza inutilizzata sullo scaffale della biblioteca. Una presenza che diventò una piccola ossessione, un memento. Provai ad ascoltare le cassette e a imparare qualcosa con le mie forze, ma avevo l’impressione di arrampicarmi in parete a picco con gli zoccoli.


Così quest’anno a marzo mi sono ritrovata a Rabat iscritta a un corso introduttivo di arabo classico. Il programma prevedeva di restare almeno un mese e, se alcune difficoltà logistiche e pratiche hanno abbreviato il mio soggiorno, non mi hanno impedito di viaggiare poi nel paese per altre quattro settimane.  Poiché il Marocco è una meta turistica piuttosto nota, il mio resoconto non è descrittivo ma si sofferma su alcuni aspetti, episodi e scoperte inattese.

M COME MALINTESI (CULTURALI)

Sempre di più mi convinco che pur essendo guardinghi e tenendo presente esperienze pregresse, è quasi impossibile evitarli. La casistica è inesauribile[1].

Primo giorno a Rabat: cerco un appartamento in affitto e ho un appuntamento con l’amico di un conoscente marocchino che vive in Italia. Mi si presenta un agente immobiliare in sostituzione della persona attesa (il suo amico è impegnatissimo) e mi guida fuori dell’albergo. Presumo disponga di un mezzo privato, ma no: fa cenno a un taxi e partiamo alla volta dell’appartamento che si trova a casa di dio: il taxi va ben oltre le mura e si ferma dopo una ventina di minuti. Già mi rendo conto che ho sbagliato tutto, non posso abitare così lontano dal centro e dalla sede del mio corso. Il tizio scende dalla macchina e fa con tono perentorio: “Prego paghi il taxi”. Stupita replico che non mi consta che spetti al cliente pagare. L’altro insiste e l’atmosfera si inacidisce. Il tassista ignora il francese e rimane in attesa. Andiamo a vedere l’appartamento che non risponde alle mie esigenze, riprende la discussione sul pagamento del taxi, propongo una mediazione sdegnosamente rifiutata, e a questo punto giro sui tacchi, esco e dico al tassista di riportarmi all’albergo. 
Quando spiego seccata quanto accaduto, mi si chiarisce che la prassi marocchina è che il cliente debba pagare la corsa in casi del genere, contrariamente a quanto accade in Italia. Mi sento mortificata e un po’ idiota.

Questi piccoli inconvenienti sono stati ampiamente risarciti dalle esperienze successive, da ciò che ho visto, imparato e scoperto nelle settimane successive del soggiorno maghrebino.

L COME LINGUA

Quel poco di arabo che sono riuscita ad assimilare mi meraviglia e mi affascina per alcune particolarità che trovo inedite, senza riscontro in altre lingue che conosco o che ho “costeggiato” (non solo europee), come ad esempio il fatto che si usino due forme verbali diverse per la terza persona plurale del verbo avere a seconda che le persone di cui si parla siano presenti o assenti, o che il plurale dei sostantivi cambi se si tratta di due o più oggetti. La coniugazione dei verbi varia in funzione dell’interlocutore, uomo o donna (come nell’ebraico, mi dicono); non esistono maiuscole e la scrittura ha caratteri solo in corsivo. L’arabo marocchino poi, il darisha, è una lingua completamente a sé, molto diversa dall’arabo classico, non un semplice dialetto. L’epigrafica e la calligrafia arabe sono miracoli di ingegnosità ed eleganza, opere d’arte; ciò che al profano sembrano complicati ghirigori ornamentali sono sure del Corano dipinte o scolpite sulle pareti di palazzi e moschee.
Dopo aver cominciato a registrare le varie lettere dell’alfabeto –che si scrivono in modo diverso a seconda che siano isolate, all’inizio, in mezzo o alla fine di una parola- mi sono resa conto di aver fatto l’errore grossolano di progredire con le pagine del quaderno da sinistra a destra e non viceversa. Imparare una lingua è anche imparare a cambiare testa.


R COME RABAT

Ho trovato Rabat molto gradevole, culturalmente stimolante, sicura, pulita, piena di verde e giardini curatissimi, con un traffico pacato a parte qualche ora di punta il venerdì[2]. E’ una città che invita a camminare per i lunghi viali su marciapiedi ombrosi, tra fiori a profusione, con una medina gloriosamente sciabordante di vitalità, cordialità e umanità, un antidepressivo potente nel caso servisse. E non labirintica. 
Tornando al riad[3] della famiglia che mi aveva affittato una stanza, la sera, tra le 10.30 e le 11 la folla ancora sciamava nelle due direzioni, l’interno della medina e la porta verso l’arteria esterna Hassan II, le griglie piene di carne scoppiettavano colando grasso, dalle grandi teglie di rognone venivano distribuite laute porzioni ai clienti assiepati, gli ambulanti con la merce sui loro micro-banchetti erano ancora in piena attività. Che contrasto con la tristezza di certe periferie europee, di tante nostre città il cui centro a quell’ora è deserto, con i rari passanti che si affrettano a rintanarsi in casa!

E COME EBREI ARABI

In ogni medina, quella di Rabat come di tutte le altre città che ho visitato, c’è un quartiere chiamato El Mellah tradizionalmente destinato agli ebrei che da secoli appartenevano all’area maghrebina, quindi di cultura araba e arabofoni. El Mellah, contrariamente ai ghetti in Europa, non è segregato dal resto dell’abitato ma si estende senza soluzione di continuità rispetto alle abitazioni dei musulmani, è immerso nel reticolo dei vicoli della medina. Oggi però quasi nessun ebreo vi abita più: dopo la creazione dello Stato d’Israele nel 1948 è cominciato a ondate successive l’esodo verso la Palestina, accelerato nel 1956 dalla crisi di Suez, e durante gli anni ’60 del ‘900 la desertificazione si è quasi completata. 

Fino al 1940 la comunità ebreo-araba marocchina era la più numerosa del mondo musulmano e contava più di 250.000 persone, perfettamente integrate culturalmente e socialmente, spesso assai benestanti e installate in posizioni di rilievo, esercitando professioni liberali. La presenza giudaica in Marocco precede l’arrivo dell’Islam ed è quindi molto antica, profondamente radicata. Oggi le stime parlano di circa 4000 ebrei presenti nel paese, ed è da sottolineare che uno dei più stimati consiglieri del re Mohammed VI, André Azoulay, è ebreo[4]. Un artigiano di Essaouira che mi ha accompagnato brevemente per le strade del Mellah della Medina mi ha indicato l’abitazione di Azoulay: “è la casa di un ministro del re!”, mi ha detto con aria di importanza. A Rabat ho incontrato un giudice di antica famiglia ebrea e sua moglie, ex insegnante di inglese, nella sua casa (non nella Medina) piena di quadri dipinti dal figlio e vecchi ritratti, tra i quali spiccava quello di un’anziana coppia in costume berbero, i nonni del giudice: tra i berberi un numero consistente era (è?) ebreo.
E’ pur vero che lo status di dhimmi (gente della dhimma, cioè coperti da un patto di protezione che conferiva diritti e doveri diversi ai non musulmani in paesi dove vigeva la legge musulmana, sharia) comportava discriminazioni e a volte umiliazioni, ma è anche da ricordare che ciò non implicò mai se non in casi molto particolari e isolati persecuzioni e pogrom come quelli che imperversarono per secoli nei paesi europei. Sia dopo il 1492 sia negli anni dell’invasione nazista della Francia molti ebrei si rifugiarono in Marocco: Mohammed V li protesse dal regime nazista e rifiutò di far loro indossare la stella gialla. [5]

Ho visitato alcune sinagoghe, a Rabat, a Fes, a Tangieri e a Essaouira, e in quella di Essaouira ho parlato con la custode-assistente (musulmana) del rabbino, che era assente con mio grande disappunto; avrei veramente gradito uno scambio di idee e informazioni sulla situazione attuale della comunità ebraica locale. Mi hanno toccato in ogni caso le frasi di apprezzamento della custode: “Siamo come fratelli, ebrei e musulmani”. Il conflitto medio-orientale sembra non incidere in questo pacifico contesto, non turba una storia di convivenza millenaria. Nella preziosa Maison de la Photographie di Marrakech molte delle bellissime fotografie del primo novecento raffigurano ebrei abbigliati nei loro costumi orientali tradizionali, e una sezione intera è dedicata al fotografo ebreo ungherese, Nicolas Muller Grossman, che durante il nazismo si rifugiò e visse sette anni a Tangeri dove lavorava e immortalava volti in ritratti epocali.  Alcune sue foto sono tra le più belle che il museo racchiuda: egli stesso racconta le tappe salienti della sua avventurosa vita e della sua vocazione artistica in un video che rende anche più intense le sue immagini. Eccone una tra le più famose, scattata a Tangeri nel 1940.
 
A COME ARTE ISLAMICA

Non so dove abbia letto anni fa la frase “cattiva infinità” attribuita alla fuga concentrica dei motivi iconografici prodotti dallla inesauribile immaginazione arabo-islamica, ma la formula mi sembra riassumere nel modo più appropriato la loro essenza. L’occhio si perde seguendo i percorsi geometrici delle piastrelle di maiolica- zellige- che ricoprono pareti e pavimenti di medersa[6], moschee e palazzi, fontane, mihrab[7] e patio; lo sguardo si inerpica sulla trama di marmo di veri e propri merletti abbaglianti che filtrano la luce tra archi e volte e si prova una sensazione di vertigine e smarrimento, un capogiro da ebbrezza non alcoolica.


Il rifiuto della rappresentazione figurativa ha generato un’arte squisitamente spirituale, di una purezza formale unica e ineguagliabile, che mi sembra una illustrazione perfetta della frase di Goethe: se vuoi ricrearti nel tutto, devi vedere il tutto nel piccolissimo. La somma sintesi di arte e natura è il giardino andaluso, quadrato o rettangolare, con una fontana rotonda zampillante nel mezzo o in fondo a un viale, il tutto traboccante di tralci, ventagli di palme, corolle di ogni colore e forma, colonnine e capitelli, fresco e ristoratore anche durante la calura più inclemente. Uno dei più belli che ho visto si trova nel Museo di Meknès Dar Jamai.
L’etimologia della parola “paradiso” è rivelatrice: il lemma deriva dal persiano pairidaeza, luogo (ameno) recinto da mura, giardino, oasi di pace.





[1] Credo esista un’ampia bibliografia al riguardo: a me è piaciuto anni fa il libro di Franco La Cecla Il Malinteso, 1997, Laterza.
[2] Il Cairo del 1997/98 era al confronto un bailamme continuo e caotico percorso dallo strombazzare incessante dei clacson, un martirio.
[3] Case tradizionali della medina, a due o più piani, separati da scale spesso a chiocciola con alti scalini piastrellati di zellige, piastrelle di maiolica dipinta con motivi tipici geometrici, che culminano con una ampia terrazza in genere con lavatoio. In mezzo al cortile interno spesso c’è una patio quadrato. Il mobilio è ridotto al minimo essenziale, in compenso abbondano i divani.
[4] http://www.pbs.org/newshour/updates/morocco-muslims-jews-study-side-side/
[5] http://www.pbs.org/newshour/updates/morocco-muslims-jews-study-side-side/
[6] Scuole coraniche, veri e propri collegi, per i talibé, studenti di teologia, da non confondere con le madrasa, semplici scuole dove si insegna anche il Corano. Alcune sono supreme opere d’arte come la Medersa di Ali Ben Youssef a Marrakech.
[7] Abside nelle moschee volta verso la Mecca