Toilet Paper
A pag. 8 dell’edizione italiana di Le Monde Diplomatique
di ottobre (2013), a proposito dell’articolo: ”Abbiamo perso Detroit”, si
legge: “ In alcune caserme, i pompieri sono stati obbligati a comprare a loro
spese la carta igienica. Toccata dalla situazione, un’azienda ha generosamente
donato più di 70 mila rotoli ai soldati del fuoco..” ( notizia a sua volta
tratta dal quotidiano USA Today del 6 dicembre 2012).
Non posso fare a meno di pensare che forse l’azienda dal
grande cuore avrebbe potuto impiegare più proficuamente, magari con forniture professionali o finanziando posti di lavoro, il denaro speso per rifornire i bagni delle
caserme di carta che, data la quantità, - ignoro quanti siano i pompieri a Detroit,
ma date le finanze temo non siano moltissimi - potrebbe durare più della città stessa,
in bancarotta e con una infrastruttura industriale in caduta libera.
Questa riflessione mi è anche stata suggerita dalla mia
lunga esperienza di non consumatrice di carta igienica in contesti sia europei
che extra-europei. Insomma, della carta igienica si può felicemente fare a
meno, sia nel bagno di casa, si presume fornito di acqua corrente e
eventualmente di saponetta o sapone liquido con relativo asciugamano, sia a
maggior ragione in toilettes
alla turca in giro per il mondo o soddisfacendo i propri bisogni, per necessità
logistica, in boscaglia o insomma
all’aperto.
Chi si è occupato di sanitation in contesti
rurali e poveri sa che gli umani si dividono in due classi sub specie
escretoria: washers e wipers. Mi dispiace ma non trovo termini italiani
altrettanto sintetici. Detto con perifrasi, dopo aver soddisfatto i propri
bisogni corporali, small job or big job, come una volta
indimenticabilmente si espresse nella giungla dell’Andra Pradesh una persona che mi
accompagnava a visitare un villaggio (a seconda del “bisogno” ci sono
differenti luoghi deputati nella boscaglia), una parte degli umani si lava
mentre un’altra parte usa foglie o carta
(che altro?) per nettare le parti interessate.
Ora, devo ammettere che mi resi conto, dopo qualche giorno
di smarrimento nel lontano 1978, quando in Mozambico mancò per una o due
settimane la carta igienica e ci dovemmo adattare finché con grande giubilo dei
cooperanti europei ne arrivò in porto un
nuovo carico per rifornire i nostri bagni orfani, che di questo apparentemente
indispensabile corredo dei nostri gabinetti si può fare felicemente a meno, a vantaggio
dell’ arboricoltura. Semplicemente convertendosi da wipers a washers. Oppure, in
caso di small job, sopprimendo più che un
bisogno reale, un’abitudine.
In molti paesi
dell’America del Sud come in Palestina o
in molte città africane i sistemi fognari e di smaltimento sono o inesistenti,
sostituiti da fosse settiche, o molto
fragili e si intasano con grande
facilità. Per cui ad esempio in Colombia, dal primo giorno, si impara o a
gettare la carta usata in osceni (a mio avviso) cestelli di plastica a volte
senza coperchio vicino alla tazza del water, o a effettuare più sanamente la
conversione summenzionata. In Turchia
invece, come in molti paesi musulmani, accanto alla tazza è appeso un tubo
metallico flessibile con beccuccio. Premendo una levetta esce un opportuno e praticissimo getto
d’acqua. Oppure il beccuccio è situato
dietro alla tazza stessa all’altezza
giusta e basta premere un bottone. Nei villaggi africani invece ti danno una specie di bollitore d’alluminio pieno
d’acqua quando ti accompagnano alla latrina (se c’è).
Le foreste in via d’estinzione del pianeta ringraziano.