La vita quotata in Borsa **
Human DNA sequence 0-10
“All world ‘s
a stage” é una delle citazioni più gettonate dell’immenso Shakespeare tratta
dall’amara commedia “As you like it”. Ma probabilmente Shakespeare stesso
aggiornerebbe oggi la constatazione del suo personaggio Jaques che
aggiungerebbe, egualmente sconsolato: “…and a marketplace”, un mercato. Il
mondo come variopinto palcoscenico con
attori che recitano ognuno il ruolo loro assegnato dal destino, in una
processione senza requie, è diventato soprattutto, oggi più che mai prima, un
gigantesco mercato, e la vita, in senso letterale, è una mercanzia da quotare
in Borsa. Si dirà che non è una novità che il vivente sia mercanzia:
dall’antichità più remota ci sono stati schiavi, e il commercio triangolare tra
Africa, Americhe e Europa ha gettato le fondamenta dello sviluppo industriale e
della ricchezza della borghesia europea e americana. I milioni di schiavi
deportati e venduti nelle piazze dei mercati della Nuova Inghilterra non
turbavano troppi sonni. Né li turbano oggi i vari tipi di schiavitù ancora esistente in
varie parti del mondo, ad esempio in Mauritania, dove i Bella sono schiavi dei Maures
che si ritengono superiori a etnie “nere” in quanto arabo-berberi ( vedi
l’intervista al dirigente di “SOS Esclave”
Biram Dah Abeid, egli stesso ex-schiavo (http://www.ossin.org/mauritania/biram-dah-schiavitu.html), o in India, dove milioni di
contadini senza terra e indebitati sono ridotti in stato di schiavitù dai latifondisti, come ho potuto constatare
personalmente nel 1998 in Andhra Pradesh
( http://www.italian-samizdat.com/2012/01/schiavitu-in-india.html), stato di schiavitù che, abominio
tra gli abomini, si trasmette tra le generazioni, si eredita. Oppure si pensi
ai Talibé dell’Africa Occidentale, i bambini poveri donati dalle famiglie ai
marabù (santoni musulmani) che li obbligano a mendicare tutto il giorno e a portare
le elemosine al loro “padrone” la sera,affamati e laceri, visibili nelle strade
di Bamako, di Dakar o di Ouagadougou.
Né dobbiamo
andare così lontano per renderci conto dell’esistenza della schiavitù, anche se
sotto altre forme: basta girare le periferie delle nostre grandi città o
leggere le cronache cittadine. Ma si può obiettare che in questi casi si tratta
di strascichi di situazioni ataviche, di malavita, di povertà, di razzismo duro
a morire, di anomalie insomma che si possono e devono combattere con le armi
della legalità e dell’impegno sociale e politico. Ma c’è un altro mercato del
vivente, ascrivibile a tecnologie di
punta, alla ricerca scientifica di base che si asservisce al mercato e alle
quotazioni di Borsa, e ne è anzi pilotata. Mi riferisco alle biobanche, le
banche del DNA,queste nuove borse merci, teleguidate dalla stessa avidità che
ha fatto naufragare la Enron nel 2001 e che continua ad imperversare nel finanzcapitalismo del 2014, né è dato
scorgere alcun inizio di una fine.
La premessa
per la deriva scientifico- imprenditoriale della genomica, la scienza nata
nell’ultimo scorcio del XX secolo che si
occupa “della struttura, sequenza, funzione ed evoluzione del genoma,
vale a dire di tutta l’informazione genetica contenuta nel DNA (DeoxyriboNucleic Acid) presente nelle cellule di una
particolare specie.” ( Sebastiano Cavallaro, http://www.treccani.it/enciclopedia/genomica-e-genomica-funzionale_%28XXI-Secolo%29/), si prefigura nel 1990, con il lancio a
grancassa del Progetto Genoma Umano (HGP)
negli Stati Uniti, responsabili il Dipartimento dell’Energia e i National Institutes
of Health, con una vasta collaborazione scientifica internazionale, allo scopo
di sequenziare i tre miliardi di nucleotidi
che costituiscono il genoma umano. L’ambizione
era di giungere anche a una mappatura dei geni che permettesse di associarli a
determinate patologie, così da sviluppare una medicina predittiva in grado di anticipare o sventare il verificarsi di tali
patologie o ridurne comunque l’incidenza. La durata prevista del Progetto era
di 15 anni, il finanziamento stanziato fu di tre miliardi di dollari USA. Il
biologo Steven Rose e la sociologa Hilary Rose ripercorrono con un approccio
assai critico le vicende della nuova biologia molecolare nel loro bel libro
“Geni, Cellule e Cervelli” (Codice Edizioni, Torino, 2013). Il bilancio a quasi
un lustro dal lancio del Progetto, che fu dichiarato concluso nel 2003 ma di
cui già nel 2000 fu anticipata la conclusione con la storica conferenza stampa congiunta in collegamento
video tra Bill Clinton e Tony Blair, non ha mantenuto le sue mirabolanti
promesse. E ha invece scatenato una corsa spregiudicata alla mercificazione del vivente da parte di un
nuovo tipo di corsari mascherati da ricercatori.
Perché nel giugno del
2000 ci fu tanta fretta di anticipare la conclusione di una ricerca che non era conclusa? Perché nel
1998 un tipico scienziato-imprenditore, Craig Venter, prima impiegato presso i
National Institutes of Health, insofferente del passo lento con cui procedeva
il sequenziamento, dopo essersi licenziato e aver tentato varie strade imprenditoriali, fondò la Celera Genomics , una società privata che si mise in concorrenza
con il progetto pubblico internazionale utilizzando un metodo più veloce di sequenziamento del genoma ideato dal Venter
stesso (shotgun sequencing). Incalzando il suo concorrente pubblico, Venter
lo costrinse ad avanzare a tappe
forzate, anticipando i risultati ottenuti dalla “sua” società con sapienti
colpi mediatici, da gran comunicatore-imbonitore. Per questo, nel 2000 i due
capi di Stato dichiarano la partita del
sequenziamento vinta ad armi pari,
salomonicamente, accontentandosi di
“bozze” incomplete.
Ma intanto si apre un vaso di Pandora: dopo più di venti anni, da un lato le grandi
speranze associate al lancio del Progetto Genoma Umano sono ancora lontane dal
dare i frutti annunciati, gli strombazzati benefici su scala di massa, e dall’altro il fantasma dell’eugenetica fa di
nuovo capolino, con la possibilità di manipolare i geni , scegliersi il
rampollo ideale, e varare brevetti da
parte di Big Pharma sulla base della caccia ai geni associati a determinate
patologie, esplorarne le funzioni e commercializzare in esclusiva queste
conoscenze. La vicenda di tre biobanche,
quella islandese, quella estone e quella
svedese, documentano il connubio, questo si patologico, tra ricerca di biologia
molecolare e capitalismo finanziario, mentre la bioetica va a nascondersi.
Pur con differenze notevoli, un aspetto è comune alle esperienze dei tre paesi, “le banche del DNA
mettono gli individui e il loro stato di salute previsto per il futuro al
centro della medicina personalizzata” (H. Rose, S. Rose, Geni Cellule e
Cervelli, p. 206). Si sfruttano le
conoscenze derivate dal patrimonio genetico di milioni di individui,
utilizzando e ampliando i database della sanità pubblica, per sfruttarne le potenzialità per usi privati
e speculativi. Siamo agli antipodi delle filosofia della medicina di base per la collettività, guidata dall’imperativo
della prevenzione e dell’igiene ambientale come fattori essenziali per il
benessere della maggioranza di una popolazione.
Siamo agli antipodi della Dichiarazione di Alma Ata e della prospettiva della “salute per tutti nell’anno 2000”. Nel
caso dell’Islanda “ il database elettronico dei dati medici di tutta la
popolazione stava per essere finanziato e messo in piedi da un’unica società
licenziataria, che in cambio avrebbe avuto diritto all’accesso esclusivo e alla
commercializzazione di quei dati, per un arco di tempo di dodici anni, per
scoperte genetiche, diagnostica , farmaci
e gestione della sanità” (p. 2017, op.cit.).
La deCode, la società che operò in Islanda con questo
approccio a cavallo degli anni 2000, è fallita da tempo; nel caso estone, il progetto, nato nel 1999,
navigava in cattive acque già nel 2004 e fu salvato da denaro pubblico, tramutandosi in una piccola società di
ricerca farmacologica finanziata dall’ Unione Europea, mentre la bioinformazione acquisita è rifluita nel mare magnum della ricerca
globale; nel caso svedese, la UmanGenomics, altra biobanca, ancorata questa volta al settore pubblico, fu
“messa in naftalina” dopo quattro anni.
Ma la ricerca del profitto privato sul vivente non si ferma certo: leggiamo su “Le Monde “ del 3 aprile scorso
che in un elegante ristorante degli Champs-Elysées “una ventina di convitati fissano la
silhouette di Angelina Jolie mentre aspettano l’oratore della serata, il dott.
Aaron di Genomic Vision, una start-up specializzata in test genetici la cui
tecnologia “ deve permettere di
identificare meglio le anomalie del genoma collegate a certe malattie”, e quindi di
circoscrivere il numero degli individui a rischio. L’astuto dottore punta
sull’effetto Angelina Jolie per convincere il suo pubblico ristretto di
analisti e giornalisti a scommettere sulla sua società, quotata in Borsa dal 2
aprile. Apprendiamo inoltre che il 2 aprile
anche Oncodesign è stata quotata alla Borsa di Parigi, e nei prossimi
giorni la seguiranno TxCell (terapia
cellulare) e Genticel (vaccini
terapeutici). Perché tutta questa fretta? Ma è ovvio : l’indice Next Biotech, che segue
la borsa valori biotecnologica, è salito del 50%. Quanto all’ormai anziano Craig Venter, ha
pubblicato il suo ultimo libro: “Life at
the speed of light”, la vita alla
velocità della luce. Peter Forbes lo
recensisce sul Guardian del 13 dicembre 2013: arriveremo “ ad un’epoca di biologia digitale
nella quale un genoma sarà digitalizzato su computer, trasmesso a distanza per
radio o con onde elettromagnetiche e
ricostituito tramite rapida
ri-sintetizzazione per produrre una nuova forma di vita”. (http://www.theguardian.com/books/2013/dec/19/life-speed-light-j-craig-venter)
. Sempre il pallino della rapidità. Forse è un’epidemia di questi tempi legata
a qualche gene ancora ignoto.
Intanto in vaste aree
del mondo si continua a crepare comodamente di dissenteria e di infezioni
polmonari acute. Niente da brevettare, niente da quotare in Borsa, malattie
poco interessanti. John Snow[1] è morto da
tempo.
** Vedi articolo sul "Gurdian" di venerdì 12 agosto 2016 " Ethical questions raised on research into Sardinian centenarians' secrets".
[1]
John Snow, medico epidemiologo, durante l’epidemia di colera a Londra tra il
1848 e il 1854 scoprì che la maggioranza dei casi era localizzata in un
quartiere che utilizzava l’acqua di una certa pompa pubblica. Quando riuscì a
far rimuovere la pompa, il numero dei casi diminuì bruscamente. Snow inaugura
la tradizione della medicina pubblica di base e la ricerca epidemiologica al
servizio della comunità.