LA
FABBRICA DEL JIHAD GLOBALE OVVERO***
COME
DIROTTARE LE LOTTE DI CLASSE
Quarta e ultima parte
Durante l’infanzia ho amato molto un libro di Nathaniel
Hawthorne, pubblicato nel primo ‘900 dall’Istituto Editoriale Italiano: Storie Meravigliose. Il libro era un
rifacimento fantastico e semplificato dei miti greci sullo sfondo del New
England. Una delle storie era intitolata: I
denti del drago. Cadmo, dopo una lunga peregrinazione, giunge in un luogo
dove desidera fondare la sua città ma viene assalito da un drago gigantesco.
L’eroe lo sconfigge e allora una misteriosa voce gli suggerisce di estirpare
dalle fauci della bestia i denti e di seminarli. Dopo qualche tempo da ogni
dente interrato spunta una lancia, un elmo e infine una selva di guerrieri
armati di tutto punto si schiera davanti a Cadmo. La stessa voce gli suggerisce
di lanciare un sasso nel mucchio, ed ecco che i guerrieri si scagliano gli uni
contro gli altri sterminandosi a vicenda. Mi sembra una metafora suggestiva del
tornante storico attuale.
Il 2015 si è chiuso con un attentato rivendicato da ISIS in
Daghestan, all’ antica fortezza di Derbent, affollata di turisti; il 2016 si è
aperto con un contenzioso più aspro del solito tra Arabia Saudita e Iran, ai
ferri corti ormai da anni, tanto più dopo l’accordo sul nucleare iraniano, e si
è subito inanellata una serie di nuovi attentati tutti di matrice islamista: a
Mogadiscio il 10 gennaio; a Istanbul il 12 gennaio, egualmente mirato a colpire
i turisti; a Djakarta il 14 gennaio; un attacco a una base dell’ Unione
Africana nell’estremo sud della Somalia nella notte tra il 14 e il 15 gennaio,
particolarmente cruento. E oggi 16 gennaio 2016 il risveglio è condito dai
particolari dell’attacco a Ouagadougou in Burkina Faso all’Hotel Splendid e al bar Capuccino,
frequentati come l’Hotel Radisson Blu di Bamako prevalentemente da una
clientela di stranieri. Attacco rivendicato già da AQMI a nome del gruppo
Al-Morabitoun (già responsabile della strage al Radisson Blu) capeggiato
dall’imprendibile Mokthar Belmokhtar, un jihadista professionista che ha
attraversato un bel numero di conflitti islamisti dal 1991 in poi (Les vies
multiples de Mokthar Belmokhtar, Le Monde,
13/14 dicembre 2015), dall’Afghanistan all’Algeria, al Mali, evanescente.
A fine gennaio dovrebbe iniziare il processo politico
mirante a condurre a una tregua e poi a un qualche accomodamento (ancora non è
chiaro quale) tra i vari fronti in guerra in Siria che fanno capo al governo
siriano da un lato e all’opposizione dall’altro. Ma ovviamente lo Stato Islamico
non sarà della partita. Nella seconda metà del 2015 il territorio che controlla
si è ristretto ma comprende sempre un’estensione ragguardevole, pari allo Stato
Ceco; Raqqa e Mosul non sono state ancora espugnate.
E comunque la strategia
delle bombe sposta i combattenti da un luogo all’altro, da uno stato all’altro;
l’eventuale perdita di una base territoriale tra Irak e Siria li scaraventerà
ancor di più ai quattro punti cardinali. Sono già saldamente impiantati in
Libia, guadagneranno terreno in Yemen dove rivaleggiano con Al-Q’aida nella
penisola arabica (AQPA); gli ex padrini del Golfo e la compiacenza dei turchi
sono sempre meno necessari, le casse sono piene (PolicyWatch 2275, “Saudi Funding of ISIS”; Peter Kingsley, “Hiding in plain sight: inside
the world of Turkey’s people smugglers”, The
Guardian 29/11/2015).
La compiacenza turca di fatto è vera e propria
complicità: dopo il terribile attentato di Ankara del 10 ottobre che ha ucciso
più di cento persone, la cellula jihadista di Adyaman, “vivaio dello Stato
Islamico in Turchia” dal quale sono partiti gli assassini di Suruç, Diyarbakir
e Ankara, non solo non è stata disturbata ma è stata lasciata scientemente e
coerentemente libera di continuare a reclutare carne fresca da cannone (“A
Adyaman, vivier de l’état islamique en Turquie”, Le Monde, 21/10/2015). Si veda anche il reportage di Maurizio
Molinari su La Stampa del 27 novembre
2015: “Barba, kalashnikov e inni jihadisti. Quelle milizie turche uguali a
ISIS”. Ma la Turchia è un prezioso alleato per la coalizione anti-Stato
Islamico Occidentale, il lupo è di guardia all’ovile.
Finché perdureranno le condizioni e gli assetti che hanno
permesso all’idra islamista di nascere, crescere e riprodursi, questa ha un
avvenire sicuro, tra alti e bassi. E nonostante le dichiarazioni bellicose che
sono risonate da una riva all’altra dell’Atlantico, e dalla Tunisia al Ciad
alla Nigeria, non si è sentito verbo menzionare le famose “root-causes[1]”,
che variano da paese a paese e da area a area del mondo, ma che hanno alcuni
comuni denominatori mai menzionati dai decisori politici; i pareri pur
autorevoli di commentatori, studiosi, sociologi e think-tank sono bellamente
ignorati. Come quasi irriso è il Papa che parla di povertà alla base dei
problemi nel suo viaggio africano.
Jean Marie Guéhenno, direttore di International Crisis Group, osserva
acutamente:” Ciò che unisce questi diversi gruppi non è tanto la loro ideologia
jihadista internazionale. Più stupefacente è che tutti sono radicati
profondamente in conflitti locali. Gruppi come l’ISIS possono proclamare
ambizioni globali, ma essi si alimentano delle rivendicazioni[2]
locali delle varie comunità - rivendicazioni
più spesso connesse all’acceso al potere e alle risorse che alla religione”
(Tackle early the reasons that breed extremism, Nikkei Asian Review, 4 febbraio 2015). Ma durante il 2015 la
dimensione internazionale e globale della piovra jihadista si è sviluppata
notevolmente, rivelandosi “glocal”.
Olivier Roy, Gilles Kepel, Alain Gresh
tra gli altri, per nominare soltanto alcune delle figure di islamologi più
conosciute, hanno un bell’analizzare “le ragioni che scatenano l’estremismo”; chi
conosce bene gli attori dello Stato Islamico ha abbondantemente ripetuto che le
bombe e la guerra sono ciò che questi vuole per potersi ergere a bastione dei
veri musulmani contro i crociati occidentali, che le bombe non servono a
debellarlo ma lo rinforzano ideologicamente, ne dilatano l’immagine eroica che
tanta attrazione esercita sugli aspiranti jihadisti di tanti paesi e non ultima
la Francia. Le tribù sunnite irakene temono le milizie sciite che spalleggiano
la controffensiva occidentale ben più di Daesh: muoiono più civili che
guerrieri, si affamano le popolazioni. Lo stesso Bashar Assad ha aiutato la
crescita di ISIS per porsi a difensore di un’ormai inesistente stato laico
mentre sterminava il suo popolo. Nicolas Hénin, giornalista, ostaggio di
ISIS per circa un anno, lo dice a chiare lettere: ciò che serve è strangolare
le fonti di finanziamento di ISIS, aprire le braccia d’Europa ai rifugiati per
mostrare che i musulmani sono bene accetti; ciò che serve è minare alla base il
discorso islamista, investire nel sociale, acquisire consensi tra le
popolazioni siriane e irakene strette tra l’incudine e il martello (vedi
intervista a Salam Kawakibi e Nicolas Hénin del 22 novembre 2015 a RFI e l’articolo “Former
Isis hostage says airstrikes on Syria are a trap”, The Guardian, 2 dicembre 2015).
Rifornimento in volo di caccia siriani
Si fa tutto al contrario: invece di una grande iniziativa di
legalizzazione (e di finanziamento) dei viaggi dei profughi per impedire loro
di cadere nelle mani delle mafie e di morire annegati si è rafforzata Frontex, si sono chiuse progressivamente
frontiere dai Balcani alla Scandinavia, non si è condotta una grande campagna
europea di acquisizione di consenso per dissipare malintesi e paure più o meno giustificate
e dilatate dall’ignoranza dell’altro. Ha ripreso quindi fiato l’islamofobia e
addirittura la UE dà soldi per fermare l’esodo dalla Siria a quella Turchia che
ha scopertamente favorito l’installarsi e il prosperare di ISIS alle sue
frontiere e ha continuato a comprargli petrolio e cotone fino a ieri. L’Arabia
Saudita che sta distruggendo lo Yemen e validamente contribuendo a rafforzare
le basi di Al Q’aida nella Penisola Arabica (AQPA) nonché favorire la rivale
ISIS è sempre tra i solidi alleati dell’Occidente, l’Arabia Saudita che ha
avuto il coraggio di lanciare una “grande coalizione” -un’altra!! - per
combattere lo Stato Islamico il 15 dicembre dello scorso anno, forse temendo
che le bombe occidentali non fossero sufficienti. Militarizzazione invece di
educazione e investimenti sociali. E tra l’altro, chi ha provato a fermare le
visibilissime e interminabili colonne dell’ISIS in viaggio nel deserto verso
Palmyra?
Strada a Deir Ezzor, Siria
I comuni denominatori che hanno concimato le insorgenze
islamiste in Africa e in Medio Oriente, in Caucaso e in Asia centrale, dall’Algeria
al Caucaso, dall’Afghanistan alla Nigeria, sono il fallimento degli stati di
fornire un minimo di servizi di base ai loro cittadini, un orizzonte credibile di
partecipazione democratica alla gestione della cosa pubblica, pane e lavoro si
diceva una volta, rispetto e dignità, istruzione e sanità, classi dirigenti degne
di questo nome non dedite soltanto all’arricchimento personale. Se a questo aggiungiamo
le pesanti eredità coloniali e il neocolonialismo, la continuazione delle
politiche delle aree di influenza, la Françafrique e i Messieurs Afrique[3],
il fallimento del nazionalismo arabo, l’immensa ferita aperta della Palestina
dove continuano a crescere le colonie israeliane e accanto prospera il
fondamentalismo israeliano ed ebraico, le aggressioni USA e dei volenterosi, che
cosa possiamo aspettarci di diverso? Se continuano a crescere le masse
diseredate, sarà sempre più facile il reclutamento sotto una bandiera che
fornisce loro non solo di che vivere ma anche un bersaglio da colpire in cui
identificare i responsabili del loro status di reietti, e se serve,
un’ideologia prêt-à-porter. E quella disponibile sul mercato è
l’islamismo. Le guerre che avrebbero dovuto frenare il jihadismo non hanno
fatto altro che attizzarlo e fornirgli combustibile. O forse lo volevano
effettivamente fomentare, come continuano a farlo oggi, per distruggere ogni
speranza di un mondo più giusto possibile?
Islamisti del GIA (Algeria)
In Tunisia, culla delle
primavere arabe, a cinque anni dalla rivolta, la disoccupazione e la miseria,
la frustrazione e lo sconforto che regnano tra i giovani poveri sono le stesse
o forse peggiori che nel dicembre 2010 (http://www.lemonde.fr/international/article/2015/12/17/cinq-ans-apres-a-sidi-bouzid-la-revolution-tunisienne-a-un-gout-amer_4834083_3210.html). E la delusione era già palpabile nel
dicembre 2011, dopo un anno: sono andata a Sidi Bouzid proprio il 17 dicembre
2011 con la delegazione di una organizzazione femminista tunisina e l’ho
constatato di persona: in una sala in cui c’era poco da festeggiare gli
interventi infiammati dei ragazzi gridavano la loro rabbia impotente. L’Unione
Europea nel suo bando per il finanziamento di eventuali progetti sollecitava
proposte concernenti “i diritti delle donne”, e di diritti soprattutto si
parlava, quindi molto di formazione, esperti, convegni, ecc…Ma i giovani
disoccupati volevano lavoro, istruzione, infrastrutture, investimenti. Parlare
di diritti così in astratto aveva il sapore di una presa in giro. E nessuno ha
mai saputo dove siano finite le centinaia di giovani harraga [4]salpati entusiasti dalla Tunisia ma anche
dall’Algeria (“Migranti tunisini dispersi, ancora silenzio…” La Repubblica, 21
aprile 2012). Da allora, dalla Tunisia sono partiti a migliaia gli aspiranti
jihadisti.
In Francia dopo gli attentati
del 13 novembre 2015 la risposta è stata e continua a essere securitaria, con rafforzamento
di leggi restrittive e liberticide e aumento di spesa pubblica per il
reclutamento di poliziotti, non certo per comprendere e poi combattere le
radici del fenomeno dell’adesione di tante migliaia di giovani figli di
immigrati maghrebini all’islam politico e a un’ideologia stragista. Sono
apparse molte interviste a “reduci” del jihad che mostrano il misto di
improvvisazione, avventurismo, rancore, frustrazioni e perdita di senso
all’origine della scelta jihadista, che spesso precipita nel giro di pochi
mesi. Dopo la repressione dell’altermondialismo e della spinta libertaria e
umanista che la nutriva, dopo il 2001 a Genova, anche qui in Europa l’unica
ideologia sul mercato è la ribellione nichilista jihadista. “Restano poche
cause credibili sul mercato degli ideali, e la sola che sembra opporsi
all’imperialismo è oggi lo Sato Islamico o Al-Q’aida” (Alain Gresh, http://www.middleeasteye.net/fr/analyses/attentats-de-paris-l-analyse-d-alain-gresh-266376078).
Due fiammate libertarie e
promettenti, piene di entusiasmo e di futuro, quelle del 2001 e 2011, e due
repressioni, due schiaffi alla speranza. Ma ce n’è un’altra forse meno
conosciuta dai più, più indietro nel tempo seppure non di molto. E importante
per l’Africa. A La Baule, nel 1990,
Mitterand pronunciò un discorso che sembrò l’inizio di un’era diversa delle
relazioni tra vecchie potenze coloniali e governi africani: basta appoggiare
dittatori e cleptocrati, basta con il regime del partito unico, libere elezioni
e libera dinamica delle nuove forze sociali, intellettuali e giovani. Dopo di
che le elezioni sanzionarono i potenti di sempre, le dittature si mascherarono
ma non mutarono pelle, se non in rari casi (Ghana, Benin ad esempio), e nel
1994 il genocidio dei Tutsi (e degli Hutu democratici) ribadì i vincoli di sudditanza
neocoloniale in un mare di sangue. Non tutti i veli sono stati alzati
sull’Operazione Turquoise.
Ma, ricordando che “la storia
può anche essere un’arte delle discontinuità”[5] teniamo a mente le parole di Bertolt Brecht
per l’epilogo de: L’anima buona del Sezuan: “Presto, pensate come sia
attuabile! /Una fine migliore ci vuole, è indispensabile!”[6]
*** Update 17 novembre 2016: Estensione al Puntland durante il corso di quest'anno dell'influenza accresciuta sia di Al Qaeda che dell'ISIS:
The Islamic State Threat in Somalia’s Puntland StateZakaria Yusuf, Abdul Khalif, Crisis Group, 17 November |
[1] Cause
sottostanti, le radici del problema
[2] La
parola inglese “grievances” riflette meglio l’idea di rivendicazioni per un
torto subito, reale o presunto.
[3] S. Smith, A. Glaser. Ces Messieurs Afrique. Calmann-Levy, Parigi, 1992.
[4]
Migranti, in arabo.
[5] Patrick
Boucheron, Lezione inaugurale al Collège de France, 17 dicembre 2015.