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giovedì 19 gennaio 2017

DIS-AVVENTURE NEL MONDO



DIS-AVVENTURE NEL MONDO
ovvero
NARROW ESCAPES

 Carnevale a Bissau

Si dice che sia dolce rievocare i pericoli scampati quando si è di nuovo al sicuro e si possono raccontare, e ho spesso constatato che è perfettamente vero. Anche se non è saggio sfidare la sorte più di tanto. Ma quando rischio di farmi tentare dalla sicurezza domestica e dalla routine, quando mi dico che ho accumulato troppi libri ancora intonsi che mi lanciano appelli muti dagli scaffali, bastano un articolo, una carta geografica, un documentario, o semplicemente la sensazione di monotonia della cosiddetta vita quotidiana, a riaccendere il desiderio di andarmene per esplorare qualcuno dei tanti lidi ancora terra incognita. Si parva licet, anche Sindbad il Marinaio quando tornava a casa dopo essere sfuggito ai più svariati pericoli, si riprometteva di diventare sedentario: “Avevo deciso, dopo il mio primo viaggio, di passare tranquillamente il resto dei miei giorni a Bagdad, come ho avuto l’onore di dirvi già ieri. Ma non passò molto tempo prima che una vita oziosa mi venisse a noia…”[1] E così per sette viaggi, da ognuno dei quali uscì vivo per il rotto della cuffia.
Però anche io non mi posso lamentare. In inglese si chiamano narrow escapes, fughe strette; uscirne per il rotto della cuffia non è un’esatta traduzione e nemmeno scamparla bella. Provo a raccontare alcune delle mie disavventure a lieto (o quasi) fine. D'altra parte, lavorare in luoghi scomodi era la mia professione.

MOZAMBICO 1982

 Porto di Maputo, oggi

Era l’ultimo viaggio prima della fine del contratto e del rientro definitivo in Italia, dopo quattro anni di lavoro a Maputo. Con i risparmi mi ero offerta due settimane di riposo a nord della baia di Pemba, a Wimbi, un luogo incantevole dove c’erano solo baracche di pescatori da affittare sulla spiaggia a poco prezzo ed un mare dai colori che non ho mai più rivisto, dal violetto al verde giada all’azzurro cupo. I pescatori ci vendettero delle perle sulla spiaggia; mio figlio ne approfittò per giocarci a biglie (per la cronaca le abbiamo perse tutte, alcune sono state regalate). Ma Wimbi non mi bastava, e preso un traghetto ce ne andammo all’isola di Ibo, parte dell’arcipelago delle Quirimbas. Era un’isola poverissima - ricordo un mercato con due panche che esibivano reste d’aglio e cavoli striminziti - dove le donne avevano il viso impiastricciato di un’argilla bianca che doveva rendere la pelle più liscia e morbida. C’era un fortino su una rupe a picco sull’oceano dalla cui base si protendeva sopra le onde uno strano enorme tubo. Chiedemmo cosa fosse. Ci risposero che serviva “ao tempo colonial” per scaricare a mare il sangue dei torturati e uccisi dalla polizia portoghese, dato che là venivano incarcerati i ribelli. Una sera dividemmo in cinque una scatola di sardine nella “casa dos hospedes”, sedendo a un tavolo rettangolare lunghissimo che probabilmente aveva visto ben altri banchetti.

Abilissimi artigiani lavoravano in strada la filigrana e intrecciavano delle collane d’argento dai disegni perfetti. Appena prima di ritornare a Pemba e quindi a Wimbi, ero rimasta con i soldi sufficienti per il biglietto di aereo di ritorno e poco più. Ma mi lasciai tentare da un collare d’argento per cui fu giocoforza rinunciare all’aereo e optare per barca e autobus, al risparmio. Sul traghetto incontrammo un altro cooperante con Land Rover e autista che lavorava a Pemba e ci offrì un passaggio. Chiaramente accettai subito. Dopo essere sbarcati saltammo sul retro della 4x4 con i nostri bagagli, contenti del fortunato incontro. Ma sin dall’inizio del percorso mi accorsi che l’autista premeva volentieri sull’acceleratore e che il cooperante, un tedesco flemmatico della RDA[2], lasciava fare. Dopo qualche ora non riuscii più a dissimulare il mio nervosismo: dissi qualcosa al cooperante e l’autista si mise a ridere: la signora ha paura? Ma no, tutto calcolato! Essendo ospite ovviamente non potevo che fare buon viso a un gioco che mi piaceva sempre meno. Finalmente arrivammo a Pemba, era già notte. Il cooperante era arrivato, ma altri due passeggeri rimasero perché erano anche loro diretti a Wimbi. Noi due eravamo sempre seduti sul retro, dove fu caricato un enorme fusto di diesel da recapitare laggiù.
Prendemmo la strada costiera a zigzag che aveva a destra la boscaglia punteggiata di baobab (in portoghese chiamati imbondeiros) e a sinistra, sotto gli scogl,i una striscia di sabbia irregolare e l’oceano. L’andatura del veicolo era sempre molto arzilla, ma ormai mi sentivo quasi a casa, per modo di dire, e sollevata. Errore!
A una curva particolarmente brusca la jeep sbandò paurosamente verso l’altro lato della carreggiata, poi rimbalzò per una sterzata verso il lato boscaglia, per miracolo evitò di cozzare contro un gigantesco baobab ma fini su dei massi che la fecero sobbalzare come un cavallo imbizzarrito. Il coperchio del fusto di diesel saltò per aria, il diesel anche e noi due che gli sedevamo accanto fummo investiti da una doccia oleosa e nera. Dopo di che si ritornò sull’asfalto ma a questo punto urlai al mio bambino di saltar fuori: temevo che potessimo prendere fuoco. Io per prima mi lanciai e atterrai brutalmente, sentendo un dolore lancinante alla schiena. Per fortuna la vettura non prese fuoco, mio figlio non seguì il mio consiglio e non si fece male, e dopo un attimo l’autista ancora baldanzoso mi gridò di tornare dentro: non era successo nulla! A questo punto la rabbia fu più forte del dolore: esaurii il mio bagaglio di ingiurie in portoghese, prendemmo i nostri bagagli e ci incamminammo per i residui due o tre km lungo una pietosa morbida spiaggia. Nonostante quella che poi si rivelò una vertebra schiacciata che mi tormentò per settimane (che ovviamente rimane tale), nonostante l’impiastro vischioso che ci impiastricciava tutti e due, eravamo felici come pasque. Ricordo i visi increduli, esterrefatti, degli amici che ci videro arrivare lentamente a piedi, due fantasmi incrostati e maleolenti. L’acqua dolce e il sapone scarseggiavano. Pulirci fu l’affare degli ultimi giorni di vacanza.
BENIN 1993

Fila d'attesa a una pompa manuale, sud del Benin 1993 (foto mia)

Siamo impegnatissimi a mettere in carreggiata un progetto d'approvvigionamento d'acqua potabile nelle zone rurali di due prefetture del sud del paese. I villaggi sono centinaia, ma almeno nel fine settimana qualche ora di esercizio fisico e di svago li ritengo indispensabili. Dietro mie insistenze, il mio collega e capo progetto stakanovista una domenica pomeriggio si convince a fare una sortita sulla spiaggia di Cotonou. Dopo il bagno –solo io nuoto, il collega rimane vestito di tutto punto a far di conto - cominciamo a camminare discutendo animatamente –probabilmente di lavoro - e ci allontaniamo dalla zona più frequentata. Un passo dietro l’altro, un chilometro e poi due, c’è solo sabbia e mare intorno. Ad un tratto un individuo si infila tra noi due, a torso nudo e con un paio di pantaloni sdruciti, ovviamente un locale. Ha i capelli lunghetti e comincia a parlare un po’ a vanvera. Nonostante lo sconcerto, non sospettiamo nulla e rispondiamo, poi cerchiamo di fargli capire che vorremmo continuare la nostra conversazione privata. Questi si allontana ma per pochi minuti; di nuovo ce lo vediamo vicino, ma ora si slancia sul mio collega biascicando in francese: “dammi i soldi, voglio i soldi!” Il tipo è giovane e robusto, il mio collega è un signore non atletico di mezz’età con spessi occhiali da super-miope che si toglie immediatamente porgendomeli, cercando di tenere a bada con ferma gentilezza inefficace il galantuomo. Il quale si allontana per pochi secondi e ritorna con una grossa spranga di ferro forse precedentemente nascosta nella sabbia.
Mi si gela il sangue: il mio compagno di lavoro ha già subito anni prima in Camerun l’attacco di uno squilibrato che gli ha quasi mozzato la testa. Dato per morto, è sopravvissuto grazie alle cure immediate prestate in loco ma soprattutto grazie a uno specializzatissimo ospedale francese cui le Nazioni Unite lo hanno spedito prontamente. Vedo un terribile replay. In ogni modo cerco di separarli, l’energumeno attacca di nuovo, il mio collega mi ripete di allontanarmi e mi spinge via, ma io vedo solo una testa che ha già sanguinato una volta e che devo salvare a ogni costo, e continuo a interpormi, supplicando l’assalitore di lasciar perdere: non ci sono soldi, siamo qui per lavorare soltanto e aiutarvi, lasciateci stare per favore.
Non ho mai capito se sia stato l'appellativo di “Monsieur”, signore, forse non abituale nei suoi confronti, o l’interpormi mezzo nuda tra i due contendenti con determinazione e ripetutamente per impedire la colluttazione, o il tono implorante della mia voce a farlo desistere: a un certo punto si è girato e si è allontanato barcollando. Noi siamo corsi via guardandoci increduli dietro, dubitando che il pericolo fosse stato scongiurato, temendo a un ripensamento o a una finta. Forse la sera abbiamo brindato alla pelle salvata.
GUINEA BISSAU 1995

 Facciate( ridipinte) delle case prospicienti il porto, Bissau
Sin dal primo giorno a Bissau, capitale dello sgangherato paese di poco più di 60.000 km2 a sud del Senegal, ho capito che sarebbe stata dura. Non solo ero per la prima volta capo progetto invece che consulente a latere; non solo ero responsabile per la prima volta di un programma sanitario nazionale, novellina in questo campo cui mi ero preparata studiando accanitamente per mesi; non solo si trattava di un terreno ostico come quello della prevenzione dell’HIV/AIDS quando ancora la gente in Africa credeva che fosse un’invenzione dell’Occidente per imporre un controllo demografico. Conoscevo già l’Africa Occidentale, ma una capitale così squallida e triste, con le facciate scrostate e cadenti e le strade principali dall’asfalto così butterato non l’avevo mai vista. I villaggi africani possono essere poverissimi labirinti di muri rossi di terra, paglia e sterco, con i rigagnoli di acque usate che corrono in mezzo agli stretti passaggi polverosi o fangosi a seconda delle stagioni, ma sono sempre ravvivati da uno sgabello intagliato qua, un cesto ben intrecciato là, il verde dei neem[3], gruppi di bambini che giocano, donne coloratissime che pestano nei mortai, mercati animati. A metà anni ’90 a Bissau il cuore ti scendeva sotto i talloni. Anche il porto era uno spettacolo penoso: due o tre chiglie arrugginite assicurate con grossi cordami alle bitte e acque grigiastre per il fango in cui crescevano le mangrovie.
In questa cornice ho lavorato molti mesi a tre riprese, tra il 1994 e il 1997. Dopo i primi tre mesi come capo progetto ho capito che rischiavo di rimetterci la salute e ho passato il testimone a un altro cooperante, un antropologo, rimanendo come consulente per l’educazione e formazione sanitaria con contratti intermittenti.
Avevo subìto un primo tentativo di rapina già nell’ottobre del ’94, in casa da sola, di notte, Quando il ladro si è accorto che avendo sentito rumori strani mi ero alzata, si è spaventato (lui! Evidentemente un novellino) e ha battuto in ritirata prendendo la mia cartella piena di documenti, abbandonata poi in un fosso pochi metri dopo. Nello stesso mese ero rimasta chiusa fuori di casa per tutta la notte per una porta sbattuta dal vento (ho dormito da un collega caritatevole), e l’appartamento ha rischiato di andare a fuoco perché la candela, unica risorsa per illuminare la cena, era rimasta accesa e soffiava il vento del temporale dalle finestre aperte. Si era nella stagione delle piogge: in novembre ebbi un’invasione casalinga di grilli giganteschi: al rientro dall’ufficio trovavo il pavimento nero e brulicante.
Ma la disavventura peggiore doveva ancora arrivare.
Si era intorno a Pasqua, nel 1995, ormai non ero più capo progetto. Per una vacanza tropicale era appena arrivata la moglie del mio collega e l’atmosfera era un po’ più allegra che d’abitudine. Il lunedì di Pasqua andammo a cenare in un ristorante dove era in programma uno spettacolo musicale. Su un piccolo palcoscenico all’aperto una bella ragazza in gonnellino verde cantava “Wari bana, wari bana”, una canzoncina popolare il cui refrain mi è risuona ancora in testa: i soldi sono finiti, i soldi sono finiti (in malinké). Il cibo era buono, l’umore anche.
Uscimmo allegri e stanchi e rientrammo.
Verso le tre di notte mi svegliai e notai che la luce, abitualmente accesa nel cortile interno, era spenta; pensai a un black-out e non mi preoccupai. Mi alzai per andare in bagno e socchiusi soltanto la porta. Dopo pochi istanti, mi accorsi che qualcuno tentava di spalancarla e premetti con forza, pensando: quel burlone di Roberto? Che strano.
Altro che Roberto. La porta si aprì con violenza, sbucarono tre canne mozze e delle facce nere sopra. Caddi all’indietro e fissai attonita i tre banditi, più stupita che spaventata: e questi da dove spuntano?
Spuntavano dal ristorante: ci avevano certamente seguito e avevano atteso qualche ora, probabilmente mettendosi d'accordo con il guardiano, prima di forzare con un piede di porco il cancello del retro, tagliare la luce e sfondare un portoncino che dava sulla cucina. Il mio collega e sua moglie erano stati già imbavagliati, legati alle sedie e derubati, io ero stata lasciata per ultima. Noi due donne sfuggimmo allo stupro grazie al fatto che la moglie del mio collega era “empêchée”[4] tabù invalicabile per i musulmani, e quanto a me, quando mi preparavo a lottare, il capo pensò bene che fosse troppo tardi, dato che ormai albeggiava, e i tre batterono in ritirata dopo una completa razzia di quanto avevano potuto arraffare. Pensando alle statistiche che conoscevo molto bene, 10% di prevalenza stimata dell’HIV2, molto maggiore quella di altre MST[5], pensai a quale minaccia eravamo sfuggite noi due. E infine eravamo senza un soldo, senza computer, senza documenti, senza molte altre cose, ma incolumi.
In seguito fummo informati che c’era stata un’evasione dal carcere di Bafata, città al centro della Guinea Bissau, poco tempo prima.
Mi fermo qui anche se effettivamente le mie disavventure e “narrow escapes” non cessarono nel 1995, continuando dall’Angola del 1996 fino al Sud Sudan del 2009, il paese più violento e difficile quest’ultimo dove ho avuto la ventura di lavorare. E l’ultimo contratto del 2012, in Tunisia, anche con le sue normali difficoltà e nessun beneficio economico, è stato quasi una vacanza. Il “mio” progetto in Guinea è invece un discorso sospeso[6].
Queste mie peripezie sono bazzecole se le si paragonano ai sequestri e alle stragi in cui si rischia di incorrere oggi se si vuol fare cooperazione internazionale. E anche la cooperazione ha cambiato natura, essendo ormai quasi completamente trasformata in aiuto umanitario, in micro-filantropia, o in missione religiosa.
Credo di essere stata molto fortunata ad avere conosciuto un'altra cooperazione, quella che mirava a uno sviluppo pienamente umano collaborando con i partner da pari a pari. La cooperazione che volevano Samora Machel e Thomas Sankara, tolti di mezzo per fare strada alle attuali magnifiche sorti.


[1] “Secondo viaggio di Sindbad il marinaio”, Les mille et une nuits, vol. 1, Flammarion 2004, p. 259, traduzione mia.
[2] C’erano allora molti cooperanti della Repubblica Democratica tedesca in Mozambico, così come tecnici bulgari e cubani. Noi “occidentali” eravamo un’eccezione e passavamo per canali di conoscenza personale o i sindacati confederali per riuscire ad avere un contratto. Era molto difficile se non impossibile fare amicizia con i colleghi dei paesi socialisti.
[3] Acacie (nome scientifico: azadirachta indica) che resistono bene alla siccità e danno delle bacche che seccate e polverizzate sono ottimi insetticidi per i granai. Le foglie sono ricche di chinino e vengono utilizzate come profilassi e cura della malaria.
[4] Aveva le mestruazioni, si usa questo termine in Africa Occidentale.
[5] Malattie sessualmente trasmissibili; c’era una prevalenza altissima.
[6] Vedi in questo blog gli articoli che riguardano il progetto contro l’escissione.