CONFLITTI GLOCALI E JIHAD MUTANTI NEL
SAHEL[1]
Disegno tratto dal libro del geografo Charles Seignobos "Des Mondes Oubliés"
Il G-5, l’ennesima missione militare mirata
a contrastare il terrorismo e i traffici illegali nella fascia sahelo-sahariana,
ha fatto il suo debutto sul terreno a fine ottobre in una zona all’incrocio
delle frontiere tra Mali, Burkina e Niger con qualche centinaio di uomini che
diventeranno 5000 nel marzo 218. Vi contribuiscono cinque paesi: Mauritania,
Mali, Burkina-Faso, Niger e Ciad, sia in termini di effettivi che finanziariamente,
anche se la maggior parte dei fondi, ancora latitanti, sarà sborsata da paesi
europei e da Stati Uniti. Dovrà coordinarsi con le missioni già da anni in
azione nella stessa immensa fascia di savana tra Senegal e Somalia: la forza
francese Barkhane (circa 4000
uomini), la Minusma (forza
multidimensionale dell’ONU in Mali, circa 13.000 uomini), e la Forza
multinazionale mista di lotta contro Boko Haram, FMM, in teoria composta da più di ottomila uomini, posta sotto
l’egida della Commissione del bacino del lago Ciad[2],
che non si sa che cosa faccia. A migliaia di km più a est è presente dal 2007
l’AMISOM, la missione dell’Unione
Africana in Somalia, cui partecipano cinque paesi limitrofi con le loro truppe
(22.000 soldati). In più sono presenti forze speciali non dichiarate di Francia
e USA.
Imponente
schieramento, ma quanto efficace? E soprattutto: è la risposta militare e
securitaria, finora privilegiata e promossa in coro da leader africani,
europei, onusiani e statunitensi, la più adatta a raggiungere l’obiettivo
dichiarato di sconfiggere le cangianti insorgenze islamiste diffuse in un’area
di milioni di km2, se non è accompagnata da tutta un’altra serie di
misure di tipo sociale, politico, economico e culturale? Gli scacchi subiti
finora in Mali non suggeriscono nulla?
La risposta negativa
di eminenti ricercatori, esperti e think-tanks è piuttosto netta, sulla base di
ricerche, analisi e conoscenze nutrite di inchieste e studi di anni sul
terreno. Il “no” è espresso concretamente, nei fatti e nei comportamenti, dalle
popolazioni interessate che sono le prime vittime designate ma anche le
protagoniste delle insorgenze e degli attentati, dei sequestri e dei roghi di
case e beni. La ragione è semplice. Da un lato le decine di gruppi islamisti o
apparentemente tali hanno saputo individuare e insinuarsi nelle crepe dei
conflitti irrisolti specifici delle varie comunità e arruolare adepti
atteggiandosi a vindici delle loro frustrazioni e difficoltà, mentre dall’altro
hanno trovato terreno fertile nel sentimento, generalizzato, in zone rurali e
lontane dai centri del potere, di alienazione e distanza dallo Stato e dai suoi
rappresentanti, percepiti come estranei, corrotti e dunque nemici. E in ogni
paese le circostanze, la conformazione geografica del territorio, i gruppi
etnici e quindi i modi e i tempi di infiltrazione dei proteiformi gruppi
jihadisti sono diversi e diversi dovrebbero essere gli approcci e i rimedi.
Qualche anno
fa, ai tempi del Labour di Tony Blair, andava di moda una frase in ambiente
anglosassone riferita alla guerra di occupazione in Iraq: “conquistare la mente
e il cuore (degli occupati)”. Ciò che non è riuscito in Iraq sembra essere
riuscito a molti dei gruppi islamisti; i predicatori colonizzano “the hearts
and minds” di contadini e pastori saheliani, acquisendoli non tanto e solo a
una causa religiosa o ideologica, ma alla ribellione e al saccheggio, al
sabotaggio e all’attacco di gruppi rivali, antichi o recenti, o addirittura
affermandosi come unici attori in grado di fornire servizi a assicurare ordine,
fermo restando che banditismo, criminalità comune e vendette personali entrano
in gioco. Chi non aderisce fugge e si lascia dietro tutto. Il risultato è il
sovvertimento e la distruzione dei legami comunitari, delle reti commerciali
preesistenti, del tessuto socio-economico, delle istituzioni educative e della
convivenza civile; si installa la diffidenza e la paura, si è costretti all’abbandono
di campi e pascoli per cercare rifugio in squallidi accampamenti dove si
dipende dall’aiuto umanitario. Per chi rimane, la rovinosa chiusura delle
frontiere rende l’approvvigionamento in beni essenziali un’odissea quotidiana.
Le truppe
francesi, dell’ONU o dell’Unione Africana sono spesso percepite, più che come
baluardo contro gli assalitori, come forze d’occupazione, e contribuiscono così
a rinfocolare il sentimento di ostilità e alienazione verso le autorità statali
che le utilizzano; e questo a parte il rischio di incidenti ed errori
catastrofici. Ad esempio, sembra molto probabile che nella notte tra il 23 e il
24 ottobre scorsi la forza francese Barkhane abbia ucciso 11 soldati maliani
ostaggio dal Gruppo di appoggio all’Islam e ai musulmani (JSIM acronimo arabo) durante un’azione contro una base jihadista[3].
In Niger, il 4 ottobre erano morti tre soldati statunitensi delle forze speciali
insieme a cinque nigerini per mancanza di informazioni adeguate sui pericoli
della zona e di supporto logistico immediato. Ecco alcuni esempi di situazioni
che le armi soltanto non risolvono.
BACINO DEL LAGO CIAD
A partire dal gennaio 2015, Boko Haram[5] fa irruzione sulle rive meridionali del lago e incendia un villaggio dello stato nigeriano del Borno, Baga Kawa, facendo centinaia di morti. Più che la Nigeria, impegnata nella corsa alle elezioni presidenziali, reagisce il Ciad: il lago è il “suo” lago, dice Seignobos, e non si tocca. Ma le forze ciadiane, reputate per le loro doti di combattenti, si scontrano contro la geografia reticolare della zona: i terroristi locali, aiutati dalla manovalanza di ragazzini di strada, che vanno in moto, conoscono i meandri palustri e si perdono nel nulla.
Boko Haram ha dalla sua parte la demografia: recluta adepti tra gli sterminati ranghi dei ragazzini e degli adolescenti, degli scioperati che penzolano senza arte né parte tra le moschee, le stazioni degli autobus e taxi-brousse, i mercati e le agenzie di viaggio, pronti a seguire chi li arringa e dà loro qualche soldo. Se si proibisce l’uso delle moto, dopo che i motociclisti sono bollati e temuti come possibili attentatori, si usano i cavalli, e allora si proibiscono anche i cavalli, in una rincorsa grottesca. Oltre alle moto, i terroristi possono contare sulle veloci piroghe che i pescatori Buduma -Yedina pilotano nel labirinto dei canali che soltanto loro conoscono, da un santuario di Boko Haram all’altro: sono loro la carta vincente, i soli conoscitori dei segreti e dei nascondigli lacustri. Come possono delle truppe straniere essere d’aiuto in questo labirinto acqueo?
Ma perché i pescatori Buduma-Yedina si sono alleati con Boko Haram? Per capirlo bisogna conoscere gli antecedenti che risalgono agli anni 1970/1980 e al boom demografico che trasforma le rive meridionali del lago. Dopo la grande siccità del 1973 e la sua replica nel 1984, il “grande lago” diventa il “piccolo lago”, e cambia l’economia della zona. I pescatori locali (Yedina, Kanuri, Kanemba) si trasformano anche in coltivatori e in commercianti a seconda delle stagioni, le frontiere sono aperte e fluide, c’è prosperità e circolazione di derrate tra tutti i paesi che si affacciano sul lago.
Un’abbondanza che attira frotte di grandi commercianti Haussa dall’entroterra, sempre più numerosi: questi hanno capitali, annusano la possibilità di lauti affari a partire dalle opportunità che offre la nuova dinamica della zona e si moltiplicano, fino ad avere in mano il monopolio del commercio di carburante adulterato, del natron (carbonato sodico idrato) e del legno. Così Baga Kawa diventa nei primi anni 2000 una borgata Haussa e i piccoli commercianti-pescatori autoctoni Kanuri, Yedina e Buduma sono emarginati. Gli Haussa rappresentavano il 5% della popolazione nel 1976; dopo 30 anni sono la stragrande maggioranza. Si capisce quindi come le popolazioni autoctone, sentendosi espropriate, abbiano intravisto in Boko Haram il mezzo per vendicarsi e riprendersi il controllo economico del loro territorio. L’attacco a Baga Kawa è stato preceduto da una campagna contro i commercianti usurai Haussa, ricattati, sequestrati e a volte uccisi. Questa campagna è valsa a Boko Haram la riconoscenza delle comunità locali dei pescatori e la penetrazione nelle loro file.
Seignobos sottolinea come siano falsi alcuni luoghi comuni applicati senza conoscenza di causa: a volte non sono le zone più povere a soccombere alle lusinghe dei jihadisti: la zona del lago era assai ricca. Ora non più: milioni di persone sono state costrette a fuggire, le frontiere chiuse rendono difficili gli scambi, i prezzi sono alle stelle e i commerci languono. Ed è tutto il bacino del lago ad essere in crisi, nel sud-est del Niger e nel nord del Camerun. Quest’ultima regione ha la forma di un lungo fumaiolo piegato verso ovest, incuneato tra Ciad a est e Nigeria a ovest, e si trova a cavallo del lago Ciad o meglio di quel che ne resta a nord. Prima dell’arrivo di Boko Haram era già la più povera del paese: il 74% della popolazione era sotto il livello di povertà mentre la percentuale nazionale scende a poco più del 37%[6]. Dopo l’arrivo di Boko Haram tutta la rete commerciale abituale con la Nigeria è saltata. I grandi commercianti vanno ad approvvigionarsi nelle città del sud, a Yaoundé o Douala, mentre i piccoli rischiano la pelle andando in moto in Nigeria passando più a nord, allungando il viaggio di 100 o più km e i prezzi salgono di conseguenza. La solidarietà e l’aiuto umanitario arginano il disastro: le ONG presenti danno lavoro a decine di locali e i contadini sfollati possono usufruire di appezzamenti concessi loro gratuitamente; 220.000 persone in fuga dall’estremo nord sono accolte da famiglie solidali in zone più sicure[7]. Il nord del Camerun era una zona turistica grazie alle sue bellezze naturali: ovviamente è stata disertata dopo i primi attentati.
Rhumsiki, Nord Camerun
BURKINA FASO: LA ZONA DEL SOUM[8]
Nell’ottobre
del 2014 il Presidente del Burkina, Blaise
Compaoré[9]
è destituito da un sollevamento popolare, e nel 2015 comincia ad addensarsi la
minaccia jihadista sul nord del paese. La diagnosi più facile è quella di un
travaso delle azioni jihadiste dal Mali, in guerra già dal 2012 contro la
rivolta Tuareg scoppiata nel nord che ha innescato micce di contenziosi
inter-comunitari sfruttati dagli islamisti nel centro del paese.
Ma non si
tratta solo di questo: c’è un focolaio endogeno nel nord-est burkinabé, nella
provincia del Soum, dove da anni sono bene accolte e molto seguite le prediche
di un oratore della regione, certo Malam
Ibrahim Dicko, che crea un suo gruppo chiamato Ansarul Islam (notare come la parola araba Ansar, “ausiliari”,
viene piegata alla pronuncia locale). Malam comincia a predicare nel 2009 ed ha
subito successo, si crea un suo seguito, reclutando soprattutto tra i Fulani (in francese, Peul) che rappresentano l’etnia
maggioritaria nella zona ma sono stratificati socialmente tra l’élite dei
nobili e i Rimaibé, gli antichi schiavi. I Peul sono arrivati nell’area tra il
XV e il XVIII secolo ed hanno spodestato gli autoctoni agricoltori, per lo più
animisti, diffondendo la loro fede musulmana. La stratificazione sociale e le
divisioni si sono perpetuate fino ad oggi, ed ecco che la predicazione di Malam
coglie nel segno, arruolando soprattutto i Rimaibé (ma non solo). I toni sono
quelli del fustigatore delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali:
attacca le famiglie altolocate dei marabout (santoni) che si trasmettono le
prerogative di casta proprie degli imam e strumentalizzano la loro autorità
religiosa, estorcendo soldi ai fedeli. Malam è arrestato nel 2013 dai francesi
in Mali, e nelle prigioni maliane il suo mentore sarà Hamadou Koufa, che fa
parte di un gruppo armato, Il Fronte di
Liberazione del Macina, implicato in
vari attentati in Mali.
Provincia del Soum, Burkina, in rosso |
Rientrato in patria, Malam organizza la prima azione armata nel dicembre 2016 con un attacco a un posto militare a Nassoumbou e ufficializza l’ingresso di Ansarul Islam nella galassia jihadista. Poi si dà alla macchia e pare sia stato ucciso, ma quello che ha seminato non si estingue con lui; il suo discorso di tribuno che si scaglia contro i privilegi dei potenti ha fatto presa e riecheggia in un’area che è tra le meno povere del paese (ancora a smentire che sia solo la povertà a nutrire il jihad), ma che si sente trascurata e non riesce ad approfittare delle ricchezze che pure sarebbero a portata di mano. Il Burkina ha miniere d’oro[10], terre agricole fertili e armenti numerosi: la frustrazione nasce dalla mancanza di mezzi e infrastrutture per sfruttare le risorse esistenti. Anche qui lo stato è assente e sordo alle esigenze locali; i funzionari che arrivano da sud non parlano il fulfulde, la lingua più diffusa localmente, i pastori Peul si lamentano perché non riescono a farsi consegnare i documenti o a ottenere aiuto per recuperare il bestiame rubato e li accusano di essere insensibili, infidi e corrotti.
Mandrie a Goulukum, Senegal |
Se Ansarul Islam non è (ancora?) riuscita a generalizzare la violenza come nel nord-est della Nigeria o intorno al Lago Ciad, le condizioni di scontento sociale sono un brodo di coltura pericoloso. Le autorità del Burkina hanno compreso finalmente che una risposta non militare era urgente e all’inizio del 2017 hanno lanciato un programma di sviluppo locale. Ma quel che l’International Crisis Group raccomanda come corollario agli investimenti è la ricerca di un avvicinamento tra funzionari e popolazione e la mobilitazione di attori locali che possano instaurare un dialogo tra gruppi e interessi diversi. Chi lo farà?
Il 17
novembre scorso si è verificato l’ennesimo attentato in un villaggio nel Soum
che ha provocato sei morti. Gli attentatori si sono rifugiati nelle loro
retrovie in Mali. Se si consolida e ripete il trapasso di forze tra insorgenze islamiste
attraverso le due frontiere sarà sempre più difficile fermarle[11],
tanto più che la guerra si diffonde nelle zone centrali del Mali dove l’etnia
Peul è maggioritaria.
Nel Niger, la violenza jihadista nella zona
di confine con il Mali la cui responsabilità viene attribuita al gruppo
denominato Stato Islamico nel Grande
Sahara (Islamic State in the Greater Sahara) incrocia i conflitti
inter-comunitari tra nomadi Peul e i loro rivali Tuareg e Doosak. Un rapporto dell’ICG
del 5 ottobre scorso spiega questo intreccio perverso e le ragioni della penetrazione opportunista jihadista soprattutto
tra i giovani pastori Peul[12].
Nella Somalia centrale e meridionale gli Al Shabaab che sembravano quasi
sconfitti due anni fa hanno ripreso forza nel 2016, giocando anche loro sulle
variabili degli interessi dei vari clan rivali[13],
nonostante sia stato eletto un nuovo Presidente, Mohamed Abdulahi Mohamed, che
gode di un certo consenso popolare. Tuttavia pare che gli Al Shabaab non siano
i responsabili dell’attentato gravissimo di Mogadiscio del 14 ottobre scorso che
ha provocato almeno 300 morti e più di 200 feriti, non rivendicato: sembra che
si possa trattare di una conseguenza dello scontro in atto tra Arabia Saudita e
gli Emirati da un lato e Qatar e Turchia dall’altro[14],
poiché la Somalia è vicina al Qatar che ha anche finanziato le elezioni.
Se Mao fosse ancora vivo, forse
ritratterebbe il suo famoso detto: “Grande è il disordine sotto il cielo, la
situazione è eccellente”.
Villaggio disegnato da Charles Seigobos |
[1] Parola
araba che significa «bordo, riva» rispetto al mare di sabbia del Sahara
[2] Institute for Security Studies, La Force
multinationale de lutte contre Boko Haram : quel bilan ?, 31 agosto 2016
[3]
http://www.france24.com/fr/20171108-operation-barkhane-mali-soupcon-bavure-armee-francaise-lors-raid
[4] Lac Tchad : tout comprendre de la stratégie des terroristes de Boko Haram, Le Monde Afrique, 11/07/2016
[5]
Movimento jihadista tra i più crudeli e distruttivi, nato nei primi anni 2000
nello stato del Borno, Nigeria del nord-est e dilagato grazie anche alla
repressione brutale e indiscriminata dell’esercito nigeriano e alla negligenza
e corruzione del governo nazionale e locale negli stati vicini. Secondo un articolo di Marco Cochi del 31 ottobre 2017 apparso su Nigrizia, "Metamorfosi Boko Haram", il gruppo si starebbe trasformando sempre più in una gang criminale dedita al traffico di droga e armi.
[6] Rapporto
International Crisis Group (ICG), 25 ottobre 2017
[7] Rapporto
ICG, 25 ottobre 2017
[8] https://www.crisisgroup.org/fr/africa/west-africa/burkina-faso/254-social-roots-jihadist-violence-burkina-fasos-north
[9]
Circolano varie voci su patteggiamenti tra il suo regime e i gruppi jihadisti.
Lo stesso Compaoré è intervenuto dal suo esilio in Costa d’Avorio per smentirle
(https://www.voaafrique.com/a/compaore-sort-de-son-silence-pour-dementir-tout-lien-avec-des-terroristes/4120381.html)
[10] http://www.liberation.fr/apps/2015/08/orpaillage-burkina/
[11]
Notiziario RFI ore 8.00 a.m.
[12] Niger Clash Kills U.S. and Nigerien Troops, 5 ottobre 2017
[13]
http://blog.crisisgroup.org/africa/somalia/2016/02/11/somalia-why-is-al-shabaab-still-a-potent-threat/
[14]
http://www.fides.org/it/news/63073-AFRICA_SOMALIA_Lo_scontro_tra_Qatar_e_Arabia_Saudita_dietro_l_attentato_di_Mogadiscio#.WhGaIXlrzIU