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sabato 12 maggio 2018

LO SPECCHIO ROTTO DEL LEVANTE


ISRAELE PALESTINA E LO SPECCHIO ROTTO DEL LEVANTE***




La partizione della Palestina secondo la Risoluzione 181 dell'ONU del 1947


Anni fa, leggendo La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana di Alberto Asor Rosa mi colpì il concetto di un Israele che era “puro Oriente” e si era fatto Occidente erigendosi a Stato nel 1948, concetto su cui assai in seguito si è discettato per dissentire o per riconoscerlo come intuizione aderente alla realtà storica. Andando a rileggere il capitolo pertinente del libro in questione[1], non posso che constatare, oggi più che mai, la perspicacia della formula dalla concisione lapidaria di un trapasso vero e proprio da una tradizione millenaria inestricabilmente connessa all’Oriente nel cui seno era nata, coerente anche se dispersa in mille rivoli per il mondo, ad “un’altra storia”. Quello che la Dichiarazione Balfour del 1917 avallò come possibile futuro “focolare ebraico” si è metamorfosato in una potenza militare, tecnologica e infine politica di tipo imperiale, non solo parte integrante di un blocco di alleanze occidentali, ma punta di lancia di un Occidente che dopo il 1989 sceglie sempre di più la guerra come strumento di regolazione dei conflitti e di annichilimento di chi stigmatizza come nemico, stato canaglia, parte di un fantomatico asse del male. 
Akberto Asor Rosa

Il filo del ragionamento di Asor Rosa parte dal riconoscimento di una alterità costituzionale dell’ebraismo nei confronti dell’Impero, quindi del Potere in quanto tale, sin dai tempi romani[2], alterità che si prolunga come un filo rosso attraverso tutta la storia della diaspora e si concretizza nel rifiuto della stragrande maggioranza degli ebrei, nei vari contesti, di assimilarsi o di convertirsi E da questa diversità che non si fa scalfire, che non vuole sottomettersi né sciogliersi tra i gentili nascono l’ostilità, le persecuzioni, la cacciata dalla Spagna castigliana dei re cattolici, gli autos da fé, gli Shylock e la nascita dei ghetti e infine l’abiezione nazifascista e la Shoa.  Episodi cruciali come l’emancipazione e la cancellazione dei ghetti nell’’800 e la lenta marcia verso l’assimilazione e l’accettazione degli ebrei da parte dei gentili, soprattutto degli strati medio e alto borghesi, e le relativamente scarse conversioni non intaccano in profondità secoli di antigiudaismo sedimentati nella psiche sociale collettiva europea, e ciò che questi sedimenti comportavano emerse in pochi anni con violenza inaudita.  
Haggadah

Dopo i campi di sterminio che lo stesso Occidente non riuscì né volle [3]– è bene sottolinearlo- denunciare e combattere, gli stessi poteri che non avevano potuto e voluto salvare ebrei, rom e omosessuali si affrettarono a “risarcire” l’abominio concedendo al principale “azionista” superstite il vagheggiato “focolare ebraico”, calpestando così i diritti storici di un altro popolo. Un popolo per la stragrande maggioranza di contadini che non sapeva neppure cosa stesse avvenendo nella civile Europa tra il 1941 e il 1945. 
In un saggio del 1948 apparso nel 1950 Hannah Arendt parla esplicitamente di “incompatibilità delle rivendicazioni” (di ebrei e arabi): prima del Piano di partizione “…nel movimento sionista si progettava e si discuteva apertamente il trasferimento degli arabi di Palestina nei paesi confinanti. Questa incompatibilità non è solo una questione politica. Gli ebrei sono convinti, e hanno dichiarato molte volte, che il mondo –o la storia, o qualche etica superiore – deve loro la riparazione dei torti di duemila anni, e più specificatamente, un risarcimento per la catastrofe dell’ebraismo europeo che, secondo loro, non fu semplicemente un crimine della Germania nazista, bensì dell’intero mondo civile. Gli arabi, d’altro canto, rispondono che la somma di due torti non costituisce un diritto…”[4]. 
In un clima di tensione crescente si arrivò al Piano di partizione del 1947 dell’intera Palestina storica in due stati, uno arabo e uno ebraico.

Fellah palestinese nei campi, primi anni 1900



















La ragione del cosiddetto “rifiuto arabo” a tale piano e l’opposizione alla Risoluzione n. 181 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che la sancì risulta evidente se si guarda alle cartine che mostrano l’estensione degli insediamenti ebraici del ‘47 e la percentuale di territorio attribuita alla minoranza ebraica: il 37% della popolazione (gli ebrei) che possedeva in quel momento il 7% della terra riceveva il 55% del territorio, mentre alla maggioranza palestinese, circa 1.200.000 persone, andava il restante 45%. La giustificazione per questa discrepanza era l’anticipazione di una migrazione ebraica futura verso Israele. Ma ciò non toglie che lo scotto del “risarcimento” sarebbe stato pagato dai palestinesi. Da questo momento la frattura che si era andata aggravando sempre di più tra i coloni ebrei del primo yishuv[5] e la popolazione palestinese sin dagli inizi del 1900 ed era già esplosa con le sollevazioni del 1929 e la rivolta del 1936/39 diviene insanabile ostilità che sfocia in una serie ininterrotta di guerre, anzi, un’unica guerra senza soluzione di continuità che arriva fino ad oggi.


E’ ciò che denuncia Asor Rosa: per impadronirsi della terra miticamente promessa, Israele si vende l’anima e recide le sue radici più genuinamente ebraiche, rinuncia alla sua alterità atavica, abiura la mitezza che lo ha reso vittima per secoli e passa nel campo dei carnefici: “Per salvarsi, l’ebraismo, che era Oriente, ha dovuto diventare Occidente. Il fatto che l’Occidente accettasse finalmente l’ebraismo, invece di cercare di sopprimerlo, ha richiesto come contropartita che l’ebraismo accettasse l’Occidente.” E l’Occidente in quanto Potere significa conquista e guerra contro chi viene percepito come perdente storico, come abitante della e dalla parte sbagliata dell’orbe terraqueo secondo i disegni geostrategici delle grandi potenze occidentali.Qui accanto, una rappresentazione amara e ironica dell'Atlante del Le Monde Diplomatique (2009) di quel che resta della Palestina: isolotti nel mare israeliano. E il mare monta.

Oggi Israele, unico detentore non dichiarato di testate nucleari nella regione, è la pedina centrale dell’Occidente nel mosaico del Medio Oriente in cui gioca un ruolo essenziale, punta di lancia nello sconquasso di quello che era una volta il Levante. Certo non si può rimpiangere l’Impero Ottomano, il grande malato d’Europa e la sua disintegrazione, ma si può rimpiangere la continuità linguistica, antropologica e spirituale della tradizione letteraria e culturale levantina, rievocata in questo passo che ho trovato struggente tratto dai ricordi di tal Ya’aqub Yeoshua in Childhood in Old Jerusalem citato nel libro dello studioso e cattedratico ebreo Ammiel Alcalay[6]

I figli e le figlie della famiglie sefardite erano patiti di musica araba. Vigilavano accuratamente sulla disponibilità delle più recenti canzoni composte a Gerusalemme o che provenivano dall’Egitto. Tutti amavano le opere del poeta arabo Salama Hijazi Muhammad al-‘Ashaq come quelle di altri che arrivavano in tournée a Gerusalemme e organizzavano riunioni poetico-musicali nei caffè arabi, ai tempi in cui il pubblico si sedeva su bassi sgabelli di vimini e fumava il narghilè. Tutti andavano a sentire il gruppo egiziano di George al-Abyad quando arrivava a Gerusalemme prima della guerra del 1914-‘18. I caffè della Città Vecchia e della Porta di Damasco fungevano da centri culturali e di intrattenimento sia per arabi che per ebrei. Non c’è dubbio, anche, che diverse melodie tratte dalla poesia e musica araba si insinuassero nei piyyutim, le liriche e gli inni che i rabbini e cantori (hazan) intonavano le sere del venerdì a casa e nelle sinagoghe.”
Porta di Damasco, intorno al 1900
 
Da queste frasi traspare la continuità culturale e la contiguità fisica tra ebrei e arabi che regnava in questa parte di mondo prima del 1914 e si misura l’entità della violenza dell’irruzione della guerra e dell’imperialismo occidentale che nel 1916, con l’accordo Sykes-Picot, si divide le spoglie degli ex domini ottomani e le fraziona in sfere distinte di influenza. D’altra parte, gli ebrei che vivono in quel periodo nei paesi arabi sono di cultura araba e perfettamente assimilati nel contesto da secoli. 
Ben Gurion
In pochi anni si consuma la frattura che sbriciola lo specchio mediorientale. L’imperialismo che sta sbranando l’Africa, che aveva sbranato l’America meridionale, sbrana anche il Medio Oriente.  La Palestina viene attirata nel vortice che ne cambierà la natura e il destino man mano che l’yishuv si allarga e si delinea lo scontro tra le istanze ebraiche e la compagine araba. Anche il filone del sionismo socialista con le sue pratiche egualitarie, i figli del sogno che crescono nei kibbutzim e i moshav dove non esiste divisione del lavoro, dove la cassa è solo comune e la regola che vige è la rotazione dei compiti tra tutti i membri, è oggettivamente dentro il disegno colonizzatore che lucidamente si esprime nelle parole di Ben Gurion ai tempi della rivolta araba del 1936/39: “C’è un conflitto di fondo. Noi e loro vogliamo la stessa cosa. Vogliamo entrambi la Palestina”[7]

Eppure anche allora vi fu chi vide che non c’era alternativa alla cooperazione arabo-ebraica e prospettò uno stato binazionale. Hanna Arendt menziona un incontro a Damasco nel 1913 tra leader arabi e sionisti che “doveva preparare una conferenza arabo-ebraica in Libano”[8], i negoziati tra Judah L. Magnes, Presidente dell’Università  Ebraica di Gerusalemme, con il Supremo Consiglio arabo alla fine del 1936, dopo lo scoppio della rivolta palestinese, le affermazioni di Aznam Bey, segretario della Lega Araba, nel 1945, riguardo alle “concessioni di vasta portata per soddisfare il desiderio degli ebrei di vedere in Palestina l’istituzione di una patria spirituale e anche materiale” (ibid., pag. 199). Infine, Hannah Arendt cita brani del discorso di Charles Malik, rappresentante del Libano all’ONU, davanti al Consiglio di Sicurezza il 28 maggio del 1948, quindi dopo la proclamazione dello Stato di Israele: “Il vero compito della capacità politica mondiale è quello di aiutare gli ebrei e gli arabi a non rimanere costantemente estranei gli uni agli altri.” Gli fa eco l’affermazione di Judah Magnes: “Il nostro punto di vista si basa su due assunti: il primo è che la cooperazione arabo-ebraica è non solo essenziale, ma anche possibile. In alternativa c’è la guerra…” (ibid. pag. 201). Appunto, la guerra. Judah Magnes propugnava l’idea di uno stato misto.

Manifestazione a Nablus sett. 2017, da Limesonline, foto AFP
 Oggi constatiamo la catastrofe cui la guerra infinita post 1948, il fallimento delle trattative di pace dopo Oslo, la giudaizzazione galoppante della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, la colonizzazione e l’estremismo religioso ortodosso che usano la Bibbia come un libro del catasto hanno condotto. Gaza è già invivibile ma lo sarà a tutti gli effetti e secondo tutti i parametri nel 2020, secondo un rapporto dell’ONU del 2012, “se non vengono adottate misure urgenti per migliorare l’approvvigionamento idrico, energetico, la sanità e la scolarizzazione”[9]. I provvedimenti urgenti sono finora consistiti nella guerra del 2014, operazione “Margine Protettivo” e nel sigillare ulteriormente la Striscia.  Le voci di protesta e di pace che si levano all’interno d’Israele sono ultra minoritarie. Le pressioni esterne, peraltro deboli, non possono sostituire la volontà dei protagonisti, e soprattutto di Israele asse pigliatutto accecato dall’orgia del potere.
Ma un popolo intero che rivendica i suoi diritti ha dalla sua la forza del diritto e della giustizia, e a meno di sprofondare nella barbarie più infame e fare esplodere l’intero Medio Oriente è giocoforza inventare un futuro comune, mettere mano alla costruzione di un altro specchio.
La domanda non è “se” questo avverrà, ma “quando”.

*** In questo scritto ho volutamente lasciato da parte accenni agli ultimi tragici sviluppi del conflitto dopo la sventurata decisione degli USA di spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme che fa strame una volta di più del diritto internazionale. La strada della lotta per uno Stato binazionale veramente democratico è inevitabilmente aperta e sempre più si delinea come percorso obbligato e via crucis cruenta.



[1]Alberto Asor Rosa, Einaudi, 2002. IX. Occhio per occhio, dente per dente, pag. 97
[2] Con eccezioni: si pensi al Sinedrio, alleato di Roma e ai suoi seguaci
[3] Jan Karski, La mia testimonianza di fronte al mondo, Adelphi, 2013
[4] Hannah Arendt, Pace o armistizio nel Vicino Oriente? in Ebraismo e Modernità, Feltrinelli, 1993, pag. 188
[5] In ebraico, “insediamento”.
[6] Ammiel Alcalay, After Jews and Arabs: Remaking Levantine Culture, University of Minnesota Press, 1992, pag. 109
[7] Benny Morris, Vittime, Rizzoli 1999, pag. 177
[8] Op.cit., pag 198
[9] Nidal Al-Mughrabi, “Gaza not ”liiveable” by 2020 barring urgent action: UN”, https://www.reuters.com/article/us-palestinians-gaza-un/gaza-not-liveable-by-2020-barring-urgent-action-u-n-idUSBRE87Q0OE20120827