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lunedì 12 dicembre 2022

SINGOLARE PSICOPATOLOGIA CLIMATICA

 

CAMBIAMENTO CLIMATICO: L’IO, L’ALTRO E I NEURONI SPECCHIO

In fiamme

 

Se si prova a fare brevemente una ricerca su Google associando il concetto di psicopatologia a cambiamento climatico si trova una sequenza di titoli che rimandano ad alterazioni psichiche diffuse legate ad ansia, paura del futuro, per sé e/o figli e nipoti, esitazione o rifiuto di procreare, si parla di eco-ansia, di depressione, di disturbi legati ad aumento di consumo di sostanze psicotrope. Se poi si è incappati in fenomeni atmosferici eccezionali con pericolo di vita, si hanno conseguenze più gravi: si tratta di un recente campo di ricerche e trattamenti per psichiatri, psicoterapeuti e psicologi. Molto comprensibile.

Ma trovo strano che non emerga affatto un interrogativo inquietante che riguarda un aspetto direi centrale di tutta la questione, e cioè quel che sta dentro la testa di coloro che hanno, o meglio avrebbero e avrebbero avuto nel passato prossimo, il potere di dirottare i pericoli maggiori inerenti alla trasformazione del clima sulla Terra e non solo non l’hanno fatto e non lo stanno facendo pur avendone la facoltà, ma persistono a degradarlo, e guardano ad un futuro che si prospetta grazie a loro sempre più minaccioso esibendo una protervia e un’incuranza olimpiche, come se abitassero su un altro pianeta edenico. Forse pensano che la loro ricchezza e potenza li trincerino dietro corazze impenetrabili, loro, la loro progenie e il loro entourage? O sono talmente ignoranti e analfabeti al di fuori di quanto riguarda affari e profitti da pensare che tutti gli innumerevoli incontrovertibili studi e rapporti degli ultimi quaranta anni di migliaia di scienziati siano favole, esagerazioni? Che fenomeni atmosferici sempre più distruttivi rientrino nell’altalena di cicli climatici solo un po’ più capricciosi che in passato?

La rete dei principali responsabili del crimine ecologico

E’ stupefacente apprendere ad esempio dal Five Years Report del 2020[1], frutto del lavoro di indagine di vari scienziati coordinati da Urgewald (https://www.urgewald.org/en/english), un’organizzazione tedesca non-profit nata 25 anni fa che si batte per la salute ambientale e i diritti umani, cresciuta fino a diventare un’influente centrale di analisi e denuncia nei confronti dei responsabili attuali della marcia verso il collasso climatico, che due giorni prima del quinto anniversario dell’accordo di Parigi sul clima (Le Bourget, 12 dicembre 2015) un rapporto stilato da 18 ONG stigmatizzava “12 progetti riguardanti i combustibili fossili tra i più devastanti che sono attualmente in corso di attuazione o in fase di pianificazione. Soltanto questi progetti di espansione (dell’uso dei combustibili fossili) consumerebbero i ¾ del bilancio di Co2 rimanente se vogliamo avere un 66% di probabilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5 ° Celsius.” E più avanti:” Il rapporto rivela che le istituzioni finanziarie hanno fornito 1,6 trilioni (migliaia di miliardi) in finanziamenti e garanzie dal gennaio 2016, e fino all’agosto 2020 avevano investito 1,1 trilioni di dollari in obbligazioni e partecipazioni azionarie nelle 133 società responsabili dei 12 progetti.” Per quanto riguarda le banche, le società che hanno più beneficiato dei finanziamenti dopo l’accordo di Parigi sono BP[2], Exxon Mobil, Petrobras, State Grid, Corporation of China and Occidental Petroleum, con un totale di 358 miliardi di dollari di prestiti e garanzie tra gennaio 2016 e agosto 2020. E chi ha investito di più in questa marcia verso il disastro? Gli USA prima di tutti, con Black Rock, Vanguard, State Street, Capital Group. Seguono i Fondi Pensione del governo norvegese (ricordo il titolo di un articolo di le Monde Diplomatique di circa trent’anni fa: “giocarsi la pensione in borsa”), UBS (Svizzera), Deutsche Bank (Germania), la banca preferita dal nostro Cassa depositi e Prestiti via Banco Posta, e Legal & General (UK).

Cartina del Mozambico

Tra i dodici studi di caso analizzati nel rapporto spicca quello sul Mozambico, paese dove ho lavorato quattro anni tra fine anni 1970 e inizio anni 1980. Erano i primi anni di indipendenza[3] e le condizioni di partenza dal punto di vista economico e sociale e della qualificazione della forza lavoro erano difficilissime. Il Portogallo, la potenza colonizzatrice, aveva dissanguato il paese e lasciava dietro di sé miseria e analfabetismo, ma anche la risorsa insostituibile di un pugno di dirigenti, donne e uomini, rivoluzionari entusiasti, capacissimi, colti e consacrati al benessere del proprio popolo.  La FRELIMO, fronte di liberazione del Mozambico aveva combattuto e vinto una guerra di guerriglia iniziata nel 1965, scendendo dalla boscaglia del nord della provincia di Cabo Delgado fino alla capitale Lourenço Marquez, ora Maputo. Era un piccolo gruppo di donne e uomini dal valore inestimabile. E la popolazione se ne rendeva conto ed esisteva una grande fiducia reciproca, una forte volontà di riscatto e di “sviluppo”. La decade del 1980/90 era stata dichiarata dal presidente Samora Machel (assassinato nel 1986 dai servizi segreti dell’Africa del Sud dell’apartheid) “a decada da saída do subdesenvolvimento”, la decade dell’uscita dal sottosviluppo. Fu invece la decade di una guerra feroce, complessa, le cui cause furono sia esogene che endogene, ma in ultima analisi frutto dell’opera destabilizzatrice condotta dagli Stati Uniti soprattutto e Africa del Sud in tutta l’area australe. Dopo gli accordi di pace del 1992 il Mozambico pur con alti e bassi si era risollevato dal baratro ma oggi tutto è cambiato. La Frelimo, diventata da tempo “il” Frelimo, partito che non può perdere le elezioni anche a costo di brogli, ha cambiato volti e pelle, trasformandosi in un gruppo dirigente sostanzialmente predatore, non distinguendosi dalla media dei dirigenti africani (e non solo), più spesso dediti ad accumulare beni per sé e a conservare il potere che a tutelare gli interessi del popolo. Jean François Bayart in un libro sul Cameroun degli anni 1970 la battezzò: la politica del ventre. 

Chi investe nella distruzione del pianeta Terra

Riprendiamo il Five Years Report: tra il 2010 e il 2013 nel nord del Mozambico sono stati scoperti estesi giacimenti di gas, più di 3 trilioni di metri cubi di gas, il che rende il Mozambico il nono paese al mondo per riserve di gas. E’ subito scattata la “resource curse”, cioè il paradosso per cui i paesi con più risorse naturali finiscono con l’arricchire soltanto un sottile strato privilegiato di dirigenti e affaristi locali e ingrassano, esportando materie prime, le multinazionali mentre il popolo rimane nella miseria. Il petrolio della Nigeria non ha certo favorito chi abita nel Delta del Niger, ha inquinato e distrutto le fonti di sostentamento tradizionali e danneggia gravemente la salute degli autoctoni. La RDC è un altro esempio flagrante di maledizione delle risorse.

La provincia di Cabo Delgado in guerra

La provincia del nord del Mozambico, culla della lotta per l’indipendenza, Cabo Delgado, da paradiso naturale si è trasformata in focolaio di ribellione pseudo-jihadista a partire dal 2017, certamente foraggiata e fomentata con l’aiuto di gruppi esterni, ma inequivocabilmente generata localmente dal malcontento per lo sfruttamento di risorse che lungi dal migliorare le condizioni degli abitanti li escludeva e inquinava la natura dalla quale traevano sostentamento. A tutt’oggi gli attacchi dei cosiddetti “chababos”, corruzione mozambicano-portoghese dell’arabo al shabaab, cioè i giovani, si moltiplicano e hanno causato quasi 4000 morti, poco meno di un milione di sfollati che marciscono in miseri accampamenti, e i ritorni, quando possibili, verso i villaggi d’origine depredati sono deludenti perché mancano condizioni di vivibilità. Numerosi studi hanno dimostrato, anche con ricerche sul campo, che la religione c’entra ben poco: le ragioni alla radice della ribellione sono economiche, sociali, culturali, in un ambiente certo storicamente islamizzato. Tra le multinazionali che intendono sfruttare i giacimenti c’è il colosso Total Energy, ma anche ENI e Exxon Mobil, che vista la mala parata per l’espansione dell’insurrezione che tracima da Cabo Delgado verso ovest e verso sud, si concentrano sui giacimenti offshore. Tutto ciò mentre il governo cerca una soluzione prevalentemente militare (facendo ricorso alle forze scelte del Rwanda e del Sud Africa che spalleggiano l’esercito mal equipaggiato) a profondi problemi sociali ed economici. E’ la stessa sciagurata scelta militare che i capi di stato di Mali e Burkina Faso, ora militari andati al potere dopo ripetuti colpi di stato, hanno fatto, trascurando scientemente le cause profonde delle sanguinose insurrezioni armate. Ormai il Sahel brucia letteralmente, la descolarizzazione imposta dalla minaccia delle armi e dei sequestri dilaga, i profughi interni sono centinaia di migliaia e dipendono dagli aiuti umanitari, che da anni rimpiazzano le politiche di sviluppo di tempi ormai lontani. Tale conflittualità è esacerbata dalla crescente competizione per l’accesso a risorse come terra coltivabile, acqua, pascoli sempre più scarsi, dai periodi di siccità sempre più frequenti e lunghi, dalle difficoltà a sopravvivere. 

Somalia Centrale vicino Baidoa

La Somalia sta vivendo la sua peggiore siccità da quaranta anni. Il Pakistan è stato sconvolto pochi mesi fa da inondazioni epocali. E anche il Mozambico è stato colpito di recente da cicloni devastatori che aumenteranno prevedibilmente in intensità: nel 2019 il ciclone Idai provocò più di mille morti tra Mozambico, Malawi e Zimbabwe[4]. Ma tali sconvolgimenti non sembrano turbare i sonni e le scelte degli AD e degli azionisti. Né dei governi. L’ONU appare impotente con lamentele e denuncie.

La "Resource Curse"

Quello che stupisce è che non solo il Mozambico ma sempre più dirigenti africani che constatano la scoperta recente di insperati giacimenti di combustibili fossili nei loro paesi optino per il loro sfruttamento senza rendersi conto (o chiudendo volontariamente qualche interruttore nel loro cervello) che i danni che avranno per il peggioramento delle condizioni climatiche potranno superare i vantaggi che ricaveranno nell’immediato dalla monetizzazione delle nuove risorse. Il Senegal, l’Uganda, la Tanzania, la RDC stanno compiendo scelte che implicheranno conseguenze deleterie. Quali migliori fonti di energia rinnovabile del sole, degli immensi fiumi africani, delle cascate africane? Essi dovrebbero sollecitare il trasferimento delle tecnologie per meglio sfruttarle. Ma i soldi non andrebbero nelle tasche giuste. L’oleodotto che si vuole costruire tra Uganda e Tanzania è stato dichiarato “una bomba climatica”. E la RDC si vuole giocare la foresta del bacino del Congo, il primo polmone del pianeta, per assorbimento di CO2.[5]

Lo scienziato Giacomo Rizzolatti

E qui tornerei al punto di partenza di questo scritto. E’ troppo ingenuo chiedersi con quale coscienza si perseguono scelte che porteranno a catastrofi inaudite con altissima probabilità? Come si cancellano le immagini dei disastri naturali a catena, di persone scheletriche, dei naufraghi climatici nel Mediterraneo, nell’ Atlantico, degli accampamenti di tende fatte di cartone e tela?

Nel 1992 il maggiore neuroscienziato italiano, Giacomo Rizzolatti, scoprì i cosiddetti neuroni specchio, che si ipotizza siano alla base dell’empatia, oltre che della socialità e dell’apprendimento. E’ eloquente il titolo di un suo libro scritto a quattro mani con Corrado Sinigaglia: So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio[6]. La comprensione delle azioni dell’altro, delle sue motivazioni, la capacità di immedesimarsi nella situazione altrui e quindi di condividerne sensazioni e sentimenti è fondamentale per lo sviluppo armonioso dell’essere umano, ma non solo. I neuroni specchio sono presenti nel cervello dei primati, quindi di gorilla, scimpanzé e orangutan. E allora non sono presenti nel cervello dei dirigenti di Exxon Mobil o Total Energy, ecc? Si ma…

Rizzolatti precisa che i neuroni specchio pertengono alla sfera intuitiva, e si attivano se io riconosco me stesso nell’altro. Se la mia cultura acquisita mi dice che l’altro, il mio prossimo si diceva una volta, è totalmente “altro” da me, l’identificazione non scatta, i neuroni non si attivano, non “sparano”. Quindi si possono spegnere, tacitare. La sfera culturale prevale. I rumeni sono simili a me, gli arabi, i musulmani, i neri no.

Evidentemente questo accade sempre più spesso, a partire dalle politiche criminali rispetto alle migrazioni internazionali, nei confronti di chi cerca di fuggire da paesi che ardono o che sprofondano per frane e allagamenti, o in guerra, anche quando i cadaveri vengono sfrontatamente rigettati sulle spiagge europee dell’Andalusia, di Lampedusa o di Samos. Tanto più facile ignorarli se si abita a New York, a Milano o a Bruxelles, così lontano da Cabo Delgado, dal Delta del Niger o da un villaggio del Burkina Faso ma pare anche dalle coste mediterranee. Finché non arderà o sprofonderà il terreno anche sotto i piedi dei ricchi e potenti? 

Un manifesto della FGCI del 1994

 

 


[1] https://www.urgewald.org/five-years-lost

[2] BP si vantava che il suo acronimo non significasse più British Petroleum bensì “Beyond Petroleum”, oltre il petrolio.

[3] Anno Indipendenza 1975

[4] https://www.focus.it/scienza/scienze/da-tempesta-a-ciclone-che-cosa-e-successo-in-mozambico

[6] Ibs, 2005

martedì 1 novembre 2022

LE DONNE IN FUGA DAI JIHADISTI IN BURKINA FASO NON POSSONO TWITTARE "ME TOO"

 

SAHEL IN GUERRA (** fonti dell’articolo)

Mariam Ouédraogo, giornalista burkinabé

 

La giornalista burkinabé Mariam Ouedraogo ha vinto il premio Bayeux Calvados-Normandie per corrispondenti di guerra (8/10/2022) con un reportage sulle angherie inflitte alle donne che, quasi tutte con i loro piccoli sulla schiena, fuggivano dai villaggi del Burkina Faso, assaliti e spesso incendiati dai gruppi jihadisti, villaggi anche dilaniati da conflitti inter-comunitari sanguinosi, sorti e aggravati dall’insicurezza totale e dalla penuria. Centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, violenza e crudeltà selvagge, terre coltivate abbandonate. Quasi ovunque nel Sahel dal 2012infuria una vera e propria guerra con focolai innumerevoli.

Folla a Kaya mentre passano le truppe francesi che lasciano Il Burkina

Il Burkina Faso è parte di quella vastissima fascia di savana (6 milioni di km2), il Sahel, che va dal Gambia e Senegal a ovest fino all’Eritrea a est; era questa la “riva”[1] che le carovane medioevali salutavano a sud come una benedizione dopo la terribile traversata del Sahara. Alberi e ombra, acqua, riposo, cibo, e le accoglienti città di Timbuctu, Agades, Gao.  Per secoli non molto è cambiato, fino all’arrivo della colonialismo europeo alla fine del 1800 e la trasformazione dell’agricoltura di sussistenza in agricoltura commerciale da esportazione[2], che ha impoverito la terra e l’ha resa dipendente dai concimi chimici importati. A partire dal 1960 la vegetazione si è sempre più rarefatta a causa di siccità ricorrenti e più frequenti, le piogge dell’hivernage (così nel Sahel è chiamata la stagione piovosa) mancano sempre più spesso all’appello o si trasformano in inondazioni devastanti che rapiscono l’humus e inaridiscono i campi coltivati, l’esodo rurale aumenta e la vita nei villaggi si fa sempre più dura. Si veda il grafico qui sotto, tratto da un articolo del Monde Diplo del dicembre 2004 a firma Edgard Pisani.

Il grafico rosso in discesa designa l'Africa: la produzione alimentare scende dal 1960 in poi

L’ultima tappa letale di questo declino che già sembrava difficilmente arrestabile, poiché si innestava su un cambiamento climatico spietato, è iniziata dopo la sciagurata cacciata di quell’aborrito e temuto Gheddafi che era sì dittatore ma pur sempre l’unico che era riuscito a fare di tribù guerriere sparse su un territorio di quasi 1.300.000 km2, di comunità acefale autonome, uno Stato senza radici, inventato, ma con servizi, ospedali, scuole e università, istituzioni funzionanti. Reprimendo e stroncando qualunque opposizione nascente, ma non molto diversamente da altri capi di stato vicini anche peggiori, indisturbati o vezzeggiati dalle stesse potenze che hanno fatto della Libia un bubbone ingovernabile dal 2012 con la presunta “liberazione”. Un bubbone dal quale si sono riversati fiumi di armi, armamenti e islamisti agguerriti che sono dilagati a sud verso il Sahel, a cominciare dal nord del Mali, dove hanno incontrato un terreno favorevole incrociando e fondendosi con la storica ribellione Tuareg, che dal 1991 aveva avuto un risveglio, con rivendicazioni vecchie di decenni: più servizi, presenza dello Stato, no alla discriminazione etnica negli impieghi, riconoscimento della propria lingua e cultura, autonomia amministrativa. Dopo essersi impadroniti di una bella fetta di territorio e avere espugnato Timbuctu, saccheggiando e distruggendo un patrimonio culturale secolare e avere creato migliaia di profughi, gli islamisti hanno cominciato la loro discesa a sud. All’ inizio del 2013 stavano per raggiungere Segou (centro-sud del Mali). Fu allora che l’allora presidente francese François Hollande decise in quattro e quattr’otto di inviare una spedizione militare per fermarli prima che arrivassero alla capitale Bamako. La Francia è la potenza europea ex colonialista in Africa Occidentale che ha conservato nei decenni una fortissima influenza economica e culturale nell’area. Fu l’inizio dell’intervento esterno nel Sahel, prima solo francese con l’operazione chiamata Serval, che poi divenne, consolidandosi e moltiplicando il numero delle truppe e degli armamenti, l’operazione tutta francese Barkhane. L’intervento militare francese fu coadiuvato successivamente da altri interventi militari internazionali: G5, che coinvolgeva cinque Stati della regione, MINUSMA, a responsabilità onusiana, infine Takuba, una task force europea con comando francese. Sin dall’inizio era chiaro che le forze islamiste avevano fagocitato progressivamente li malcontento locale, le rivendicazioni di migliaia di giovani e meno giovani, una ribellione latente contro l’assenza di servizi essenziali soprattutto nelle aree rurali, contro il malgoverno, il malaffare, l’indifferenza dei potenti verso le sofferenze del popolo, la corruzione onnipresente. Il tutto inasprito dalla scarsità crescente delle risorse naturali e dalla predazione del sottosuolo.  Si formarono milizie locali per la difesa dei civili, con complicazioni ulteriori tra comunità diverse. Tutti gli esperti dell’area avevano messo in guardia contro l’approccio prevalentemente se non unicamente militare di questi interventi internazionali costosi che fra l’altro comportavano spesso gravi abusi, uccisioni ingiustificate ed errori intollerabili da parte sia delle forze militari locali che straniere. Il risultato disastroso è stato il dilagare in dieci anni dei gruppi armati islamisti dal Mali al Burkina, al Niger e al Ciad, ultimamente nel nord del Benin, con azioni armate sanguinose e assalti anche in Costa d’Avorio e una ostilità crescente verso le truppe francesi. Si sono rafforzate e moltiplicate le formazioni jihadiste[3] che hanno provocato migliaia di morti e milioni di profughi interni. Sia in Mali che in Burkina Faso rispettivamente si sono succeduti 2 colpi di stato militari, la Guinea Conakry (ancora fortunatamente non toccata dagli attacchi jihadisti) e il Ciad hanno avuto ciascuno un colpo di stato, tutto il Sahel è sconvolto e all’orizzonte non si scorge ancora un mutamento di rotta in chi detiene il potere rispetto all’approccio militare. La missione Barkhane è stata cacciata via sia dal Mali che dal Burkina a forza di manifestazioni ostili contro i francesi, e ora ha il suo quartier generale in Niger, che pare meno esposto agli assalti islamisti. Sia in Mali che in Burkina si sono aperte le porte ai mercenari russi del gruppo Wagner, già accusati di efferatezze nella repubblica Centrafricana; in Mali hanno sostituito i francesi e già l’International Crisis Group[4] ha documentato loro atti criminali. Questo sommario e lacunoso riassunto è solo una necessaria premessa per inquadrare in un contesto di vera e propria guerra il coraggioso reportage della giornalista burkinabé Mariam Ouedraogo sulle donne rurali in fuga dai villaggi del Burkina F. messi a ferro e a fuoco, di cui traduco ampi brani qui di seguito.

Ritiro della missione Barkhane dal Burkina

ASSE DABLO-KAYA : LA VIA DELL’INFERNO DELLE DONNE PROFUGHE INTERNE

Di Mariam Ouedraogo, edizioni JK Sidwaya

Dopo numerose incursioni a Dablo, una delle 11 circoscrizioni della provincia di Sanmantenga, nel centro nord del Burkina Faso all’inizio di novembre 2021, individui armati hanno imposto un ultimatum alle popolazioni affinché abbandonassero la zona. Ne sono seguite partenze in massa verso Barsalgho e Kaya[5]. Durante la fuga donne e ragazze, punite a colpi di frusta (10/25 frustate ciascuna) sono state derubate di tutti i loro beni dai terroristi, addirittura private dei sandali che indossavano. La loro colpa era l’avere indugiato nei villaggi dopo la scadenza dell’ultimatum. Nella loro zona inoltre erano presenti i volontari per la difesa della patria (VDP)[6], uomini che combattono appoggiando le forze regolari statali (FDS), e questa presenza si è ritorta contro di loro. Incontrate nel dicembre 2021 a Kaya, a 85 km da Dablo, dove si sono rifugiate, queste donne sequestrate, picchiate e violentate raccontano l’inferno che hanno vissuto sulla via della fuga verso la salvezza. I nomi sono inventati.

La prima donna del gruppo riceve le frustate(i disegni sono nel reportage)

La prima azione dei terroristi a Dablo risale al 12 maggio 2019. Il primo obiettivo colpito è la chiesa cattolica. Il bilancio è di sei morti. Da allora, le incursioni terroriste si sono moltiplicate nella zona, causando numerosi morti e movimenti di popolazioni verso Kaya. Dablo cade nelle mani dei terroristi dopo il ritiro della guarnigione della gendarmeria, il 22 novembre 2021. Dopo tre giorni se ne vanno anche i volontari per la difesa della patria. Sentendosi ormai alla mercé dei terroristi, a loro volta gli abitanti decidono di arrangiarsi da soli e fuggire, chi verso Barsalgho, chi verso Kaya. Alcuni, prevedendo la mala parata, erano già partiti …(ed erano stati) accolti nello stadio regionale del Centro-Nord, nel settore di Kaya.

 Dopo un viaggio di quasi 85 km … queste profughe, donne mature[7] e ragazze con i loro piccoli in fuga dalla morte hanno dovuto affrontare la crudeltà di altri carnefici identici a coloro che le avevano cacciate dei loro villaggi, che esse designano come “gli uomini della boscaglia” (brousse in francese). Sono state derubate di tutto: viveri, bestiame, abiti, utensili da cucina, documenti d’identità e cellulari. Le carrette e gli asini che servivano a trasportare i bambini e le persone più anziane sono state trafugate. Alcune donne sono state persino private dei sandali che proteggevano i piedi dalla polvere rovente della strada e dalle spine[8]. Come se ciò non bastasse, le donne e le ragazze hanno anche subito punizioni corporali, cioè da 10 a 25 frustate. Quel giorno del 25 dicembre 2021, Natale, l’emozione era al colmo quando abbiamo incontrato una ventina di loro a Kaya. Alcune di loro avevano lasciato Dablo la sera del 2 novembre. Alcune erano arrivate a Barsalgho dopo l’ incontro nefasto sulla strada.

Rainatou col suo bebé

“Dopo aver camminato quasi 9 km abbiamo incrociato sette uomini armati che ci hanno preso i bagagli e messo da parte i bambini. Ci hanno riunito su un lato, intanto aspettavano istruzioni dai loro capi”, racconta Oumou che ha 37 anni e sei figli. Spiega che oltre le armi avevano “dei grossi telefoni con antenna” (certo dei satellitari). “Nel nostro gruppo c’era una donna che capiva la loro lingua che li ha supplicati di lasciarci partire con i nostri averi”, continua. Ma quando (i banditi) hanno capito che erano ascoltati e compresi, hanno cominciato a sussurrare …Dopo un po’ uno di loro è arrivato con la sentenza: le donne saranno frustate a turno. Dato che allattava, Rainatu ha ricevuto 15 frustate (soltanto!). Oumou è stata la prima a ricevere i colpi. “Mi ha detto che avrei ricevuto 17 frustate. Mi sono sdraiata davanti a lui mentre mi frustava, un altro contava i colpi”, dice lei mostrando la schiena zebrata di cicatrici nere. “Dato che ero la prima, mi colpiva con tutta la sua forza. Man mano che le altre donne venivano frustate, i colpi erano meno vigorosi, era stanco”. Il dolore era così forte che il giorno seguente Oumou ha dovuto ricorrere alle cure del Centro sanitario e promozione sociale di Barsalgho. L’infermiere ha diagnosticato un trauma causato da colpi e ferite al dorso. Anche Awa, 33 anni e madre di 6 bambini ha ricevuto 22 colpi, Rainatou, 25 anni con 3 figli se l’è cavata con un numero inferiore di frustate grazie al suo lattante di 17 mesi. “Dopo le frustate mi ha detto di riposarmi per potere allattare il bambino”. Le ragazzine del gruppo, Angèle di 10 anni e Françoise di 17 anni sono state risparmiate. Ma la loro cuginetta Thérèse, egualmente di 17 anni, ha preso 10 frustate perché era più alta. Clémentine, di 40 anni, con 5 figli, è stata punita più delle altre. “Prima mi hanno dato 20 frustate, ma quando hanno scoperto che avevo nascosto due cellulari sotto i miei pagnes[9] mi hanno colpito altre 5 volte”, dice. Un altro gruppo di donne ha vissuto lo stesso calvario.

I 50 anni di Christine, 7 figli, non l’hanno salvata: ha subìto 19 colpi, Solange, 7 figli, 20 frustate. Solo due vecchie trasportate sulle carrette sono state risparmiate. “Hanno preso le due capre di mia suocera. Una capra aveva appena partorito. Quando le due vecchie li hanno supplicati di lasciar loro almeno gli animali, uno di loro ha restituito il capretto, ironizzando che lo avrebbero nutrito con il biberon. La loro crudeltà era infinita. “Se gridi di dolore la frustata non conta, se ti tocchi la ferita riprendo il conto da zero”. In più ci filmavano ridendo, dice Solange. Un’altra aggiunge: “Bisognava assolutamente astenersi dal lamentarsi per non far ripetere le frustate”….Queste punizioni, secondo i terroristi, sono dovuti non solo al fatto di aver fatto scadere l’ultimatum della partenza da Dablo, ma anche di essere le mogli di Koglwéogo (uomini di gruppi di autodifesa) e dei VDP ( volontari della difesa) che collaborano con l’esercito burkinabé (FDS). “Voi collaborate con le FDS ma oggi siete in nostro potere. Chiamatele chiedendo che vengano a salvarvi”, gridavano alle donne con sarcasmo. “Alla fine della “punizione” un gruppo di uomini ha portato via verso la boscaglia tutti i nostri bagagli”. Un altro gruppo, fucili in spalla, le ha scortate fino alle porte di Barsalgho, per assicurarsi che non tornassero indietro.


 

Alcune donne non hanno voluto proseguire senza nessuna provvista e a piedi nudi, e sono tornate indietro per cercare di trovare qualche cosa al villaggio abbandonato. Disgraziatamente, sulla via del ritorno, hanno incontrato di nuovo i terroristi….

Anche se la strada dell’esilio è stata particolarmente traumatizzante per le donne di Dablo, bisogna riconoscere che già nel villaggio avevano vissuto l’inferno …”Durante la raccolta delle arachidi eravamo 17 nel campo; (dei terroristi) ci hanno colpito con dei rami”, dice Rainatou. Céline aveva ricevuto 16 colpi con un cavo metallico… Bintou, cinque figli, confida:” Siamo scese nel nostro campo senza i lattanti. (I terroristi) ci hanno picchiato e portato al villaggio di Roffi, lontano da Dablo. Siamo scappate e tornate dai nostri bambini. Oltre ai colpi ricevuti, alcune sono state ripetutamente violentate. “Mi hanno violentato e bastonato più volte, prima che riuscissi a scappare. La stessa cosa è successa alle mie vicine”, dice una di loro. A forza di stupri e bastonate, le donne e le ragazze si lamentano di dolori e di uno stress permanente. …. Oggi queste donne sono costrette a curarsi per dolori alla schiena, alle gambe, insonnia e disturbi del sonno. Così è per Rosalie, 16 anni, 15 frustate, Blandine, 12 anni, 15 frustate, Cathérine, 16 anni, tutte gravemente traumatizzate dopo i colpi ricevuti. … Quanto a Françoise, grida durante la notte. “Ogni volta urla durante il sonno e quando si sveglia racconta che è inseguita da uomini armati. Per sfuggire loro si getta in un pozzo”, dicono le sue cugine. Tutto ciò non è stato mai confidato ai genitori, e anche meno agli infermieri o al centro sociale. Esse restano murate nel loro silenzio soffrendone.

Ogni commento sarebbe fuori luogo. Posso solo aggiungere che quando ho lavorato in Ciad nel 2007 con donne rifugiate sudanesi che venivano dal Darfur, ho ascoltato racconti quasi analoghi. La radio francese Radio France International ha diverse edizioni al giorno su quanto accade in Africa, soprattutto francofona, ma non solo (www.rfi.fr)

(**) Fonti principali:

1.   Marco Aime, Andrea de Giorgio. Il grande gioco del Sahel. Bollati Boringhieri, 2021

2.   Reportage:  Mariam Ouédraogo. Axe Dablo-Kaya: la route del l’enfer des femmes deplacées internes, https://www.sidwaya.info/blog/axe-dablo-kaya-la-route-de-lenfer-des-femmes-deplacees-internes/

3.   Joseph Borrel, The terrorist threat is expanding in the Sahel, https://www.eeas.europa.eu/eeas/terrorist-threat-expanding-sahel_en

4.   ISE, Violent extremism in the Saher, Febr. https://blogs.lse.ac.uk/africaatlse/2022/02/15/violent-extremism-in-the-sahel-strengthening-grip-west-africa-mali-burkina-faso-niger-jihadi/

5.   I.C.G. A course correction for the Sahel stabilization strategy, 1/02/2021, https://www.crisisgroup.org/africa/sahel/299-course-correction-sahel-stabilisation-strategy

 

 

 

 

 

 

 



[1] Sahil in arabo significa appunto riva, da cui Sahel.

[2] Come il cotone e le arachidi, le care “noccioline” da aperitivo.

[3] I gruppi maggiori attualmente sono lo Stato Islamico nel Grande Sahara e il Gruppo di appoggio all’Islam e ai Musulmani (JNIM).

[4] L’I.C.G. è una organizzazione internazionale di ricerca e documentazione sulle varie crisi a livello mondiale.

[5] Kaya è uno dei maggiori centri della regione, sulla strada che va verso la frontiera con il Niger.

[6] Una delle milizie di civili di cui si parlava sorte un po’ dappertutto data l’assenza della difesa di polizia e militari.

[7] Nel Sahel, una donna matura può avere solo 30 anni o poco più.

[8] E dovevano camminare per 85 km!

[9] I pagnes (in francese) sono le fasce di tessuto stampato a colori vivaci che le donne rurali in Africa annodano in vita, che vengono usate anche per appendere e fasciare i bambini piccoli sulla schiena, difendersi dal freddo, stendersi a terra, ecc. Hanno nomi diversi a seconda dei paesi.