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mercoledì 26 giugno 2024

MEXICO! DOPO IL DIVERTIMENTO LO SGOMENTO

 

AVVENTURA IN MESSICO

Viajar! Perder países!

Ser outro constantemente,

Por a alma não ter raízes

De viver de ver somente![1]

 

Testa della civiltà Olmeca a Villahermosa **

 26 giugno 2024

Decennio 1980. All’epoca vivevo e studiavo per un Master, con figlio a scuola, negli Stati Uniti, in Massachusetts. A giugno mi sembrò opportuno approfittare del fatto che il Messico si trovasse quasi a due passi; mi risonava all’orecchio una canzonetta di Vasco Rossi, vado in Messico, vado al massimo. Le nostre finanze non erano abitualmente floride, in più d’estate la mia principale fonte di reddito, un posto di assistente all’università, si prosciugava fino al successivo semestre autunnale. Facendo i conti, quanto possedevo non avrebbe coperto il mese e mezzo di viaggio, durata che pensavo minima per visitare un paese così vasto e ricco di tesori culturali. Quindi mi accordai con mia madre in Italia che mi inviasse un assegno, che mi spettava a una certa data, presso la banca di Oaxaca, città che era sull’itinerario verso il nord, in modo da poter completare il giro del paese da Cancún. Riscosso il mio ultimo stipendio all’università, mi affrettai a comperare un biglietto A/R per due New York-Cancún, contando sull’ospitalità a New York di un amico sia all’andata che al ritorno. Mi sembrava di avere organizzato il tutto in modo soddisfacente. Così partimmo all’inizio di luglio pieni di aspettative. A New York riuscimmo a visitare il Guggenheim, ricordo la soddisfazione di poter ammirare la fantastica architettura del Museo di Wright e i Kandiskij e Chagall alle pareti.

Isoletta di Cozumel

Arrivo all’aeroporto di Cancún, primo pomeriggio. Al controllo dei documenti, un fuori programma si risolve ragionevolmente, nonostante il mio ancora zoppicante spagnolo. Mio figlio è minorenne, e benché abbia il suo passaporto regolare e sia evidente che abbia già viaggiato dall’Italia negli Stati Uniti con me, il funzionario mi chiede l’autorizzazione paterna. Chiarisco che ho io la “patria” potestà, sono separata da mio marito da anni, ma fatico alquanto a fargli capire quanto la sua richiesta sia fuori luogo. Infine sfuggiamo alle sue grinfie, e scartando i taxi, troppo costosi, all’insegna del motto: chi non ha soldi ha tempo, facciamo autostop arrivando tranquillamente in città. Fu facile trovare un alloggio. Avevo comperato una guida in inglese, credo Mexico on a shoestring, Messico al risparmio, non ricordo quale fosse il nostro budget massimo quotidiano, ma certo striminzito. Tuttavia riuscimmo a visitare la bellissima isoletta di Cozumel, con un mare dalle eteree trasparenze, ma per risparmiare non noleggiai la barca con il fondo di vetro che lasciava contemplare i fondali corallini. Peccato. Ho un ricordo incandescente dell’autobus che prendemmo a Cancún: una calca di sudatissimi corpi umani con galline in piena rivolta, ma in compenso una meravigliosa visione, sagomata da mani e teste, di due compatte muraglie verdissime di giungla, così fitte da sembrare impenetrabili. Dopo Cozumel andammo a Merida e lì ci procurammo, più per souvenir che per altro, delle amache, imperdibili secondo la nostra guida, in un negozio specializzato indicato con tanto di indirizzo, Le amache in Sudamerica sono spesso usate come letti dagli squattrinati.  Fu un acquisto provvidenziale.

Palenque, sito archeologico

Le altre tappe che spiccano nella memoria sono Palenque, Chichén Itzá, San Cristóbal de las Casas, Puerto Escondido.Prima di giungere alla fatale Oaxaca. Di Villahermosa, dove passammo al ritorno, ricordo solo di aver visto delle teste olmeche, forse riproduzioni in città.

Arrivammo a Palenque, in un paesaggio di giungla esuberante, con un treno notturno che faceva mille fermate. In un bagno della stazione di Merida, alla partenza, evitai uno scorpione, proprio sulla porta. Allora non c’era l’attuale flusso massiccio di migranti dal Centro America, e trovammo un treno semivuoto, cercammo di dormire allungati sui sedili. Anni fa mi colpì un reportage di un giornalista del Guardian, che intervistava due ragazzi di qualche stato centramericano diretti verso “el Norte”[2] proprio sul treno per Palenque. Arrivammo al mattino e trovammo subito posto in un campeggio, unici clienti noi e un ragazzo inglese. Dei famosi monumenti Maya in loco è svanita la memoria, mentre ricordo la nostra piccola canadese verde e una magnifica cascata in mezzo alla giungla tra foglie gigantesche. Facemmo il bagno nella grande pozza sottostante.

Piramide di Chichén Itza'

 L’unica piramide/tempio di cui serbo un ricordo netto è quella di Chichén Itzá perché l’ascesa dei gradoni mi fu veramente difficile dato il mio metro e mezzo di altezza, una fatica improba nel sole di luglio, e la discesa fu egualmente perigliosa[3]. Avevo una tuta di cotone rosso con maniche lunghe, che usavo in Massachusetts in bicicletta, probabilmente non l’abbigliamento più adatto. Ma una volta conquistata la cima la vista era impagabile. Mio figlio si arrampicava veloce, come lo invidiavo. Ma eravamo contenti del viaggio, una visione nuova ogni giorno, come dice Pessoa. Poi andammo a San Cristóbal de las Casas, quasi al confine con il Guatemala, dove restammo alcuni giorni anche per riposare. Mi piacevano molto le strette viuzze acciottolate della città, tutte arrampicate attorno al monte, dappertutto avevamo trovato locande molto accoglienti, ma a San Cristóbal l’albergatrice era particolarmente cordiale, quasi affettuosa.

Cattedrale di San Cristobal de las Casas

Incontrammo un gruppo di migranti guatemaltechi che vendevano oggetti artigianali in piazza, ne comprammo due o tre. Uno di questi sopravvive ancora sul ripiano del comò tra i miei amatissimi reperti di viaggio; ignoro che animale possa essere. Infine, dopo tanta terraferma, ci dirigemmo verso la costa del Pacifico, naturalmente scartando la famosa Acapulco, un po’ a caso scelsi Puerto Escondido, ispirata dal toponimo. Per andarci facemmo di nuovo autostop, bisognava cominciare a centellinare il peculio rimasto. Scoprimmo una bella spiaggia, trovammo un albergo alla nostra portata, ma ricordo che salendo stradine di terra battuta bisognava evitare accuratamente di calpestare rigagnoli puzzolenti. Abbandonammo subito smanie di nuoto: onde gigantesche erano cavalcate da audaci surfisti, catturavano la vista e si sarebbe rimasti ad ammirarli per ore, instancabili, in bilico su masse possenti di spuma e poi, dopo una breve caduta, presto di nuovo ritti sui flutti. Ci bagnammo...i piedi, c'era un risucchio fortissimo, dalla guida imparai che si dice “undertow” in inglese.
Animaletto ignoto guatemalteco

Dopo la tappa oceanica arrivò il momento di piegare di nuovo verso l’entroterra e puntare verso Oaxaca, per la seconda fase del viaggio: la salita a Città del Messico e il ritorno. La valle di Oaxaca è una famosa zona archeologica Zapoteca[4], quindi la tappa sarebbe stata di qualche giorno. Anche qui albergo trovato in pochi minuti: quanto rimpiango oggi il poter arrivare quasi ovunque senza prenotazione! 

Pensavo che ormai i soldi per continuare il viaggio fossero atterrati in banca, per cui ci andai subito ma mi dissero che non c’era nulla per me. Non mi preoccupai troppo e facemmo i turisti ancora per qualche giorno.

Campo da gioco del Monte Alban

Andammo a visitare i monumenti del Monte Albán, ricordo un grande campo da gioco per la palla, il juego de pelota Maya[5] ma non molto altro. Aspettando l’autobus del ritorno seduti su un muretto sfogliavamo la guida, e quando finalmente arrivò ci alzammo precipitosamente, ma la guida restò sul muretto. Fu una dimenticanza profetica, da quel giorno non fummo più spensierati viaggiatori ma diventammo profughi. Infatti, quando andai  in banca il giorno successivo, mi assicurarono che ancora non era arrivato il denaro, e a questo punto pensai di destinare parte del poco contante rimasto per chiamare mia madre. Telefonata intercontinentale cara come il fuoco. Bastò un minuto o forse furono due e si chiarì tutto. Mia madre era andata in montagna e aveva rimandato l’invio dell’assegno a quando fosse rientrata. Era la catastrofe. Tornammo all’albergo e informammo la padrona che non saremmo più potuti restare una notte di più, ero al verde e avremmo cercato un posto dove appendere le nostre amache per dormire. A questo punto la signora disse, quasi letteralmente: “Ah no, finché resterete a Oaxaca non vi mancheranno mai un letto e una tortilla”. Mi vennero le lacrime agli occhi, le regalai i miei orecchini non avendo molto altro. La santa donna ci trasferì in una stanza a due letti più modesta all’ultimo piano, e ci rifornì di cibo per alcuni giorni, non molti, perché scoprii che a Oaxaca c’era un console americano (USA), io avevo il mio regolare tesserino di studente all’Università del Massachusetts, e per fortuna il mio libretto di assegni. Ad Amherst avevo lasciato una certa somma in deposito. La console mi dette, fidandosi, l’equivalente dell’importo dell’assegno che le firmai, un minimo calcolato per arrivare a Città del Messico all’ambasciata italiana per chiedere un prestito più consistente che ci permettesse di raggiungere Cancún in tempo per poter rientrare negli Stati Uniti, senza perdere il biglietto.

Da quel momento il viaggio divenne un’odissea variegata. Comprai dei biglietti in autobus notturno per Città del Messico in modo da arrivare il mattino, una cavalcata selvaggia tra le montagne. Appena sbarcati dall’autobus cercammo di prendere il metrò, ma rinunciammo perché la massa imponente di persone che aspettava alla fermata si precipitava verso le bocche spalancate dei treni in una ressa spaventosa, c’era da rimanere schiacciati. Quindi autobus urbano di ripiego, ricordo vagamente che mi fecero un prestito anche in questo caso al risparmio, per il ritorno. Credo che alla data fatidica della partenza mancasse una decina di giorni, e mi fu chiaro che avremmo dovuto fare autostop e confidare nella buona sorte. Comprai due biglietti d’autobus notturno di nuovo verso sud per Vera Cruz, nuovo sballottamento su e giù per le montagne con un autista mattacchione che correva a rotta di collo tra burroni a picco. Alle mie preghiere di rallentare sghignazzava divertito: “la signora ha paura!”, e mi pareva che accelerasse. C’era solo da chiudere gli occhi e sperare. Da Vera Cruz cominciammo a fare autostop e fummo molto fortunati, perché riuscimmo sempre a raggiungere le mete intermedie prestabilite. Una sera arrivammo in un piccolo centro in festa, ci offrirono la cena (mi chiesero se avessi prenotato!). Io cercai di mettermi l’unico vestito decente, era azzurro un po’ stropicciato, ma fu ammirato, incredibilmente. Ci potemmo lavare nei bagni di uno strano palazzo disabitato, di fronte ai tavoli della cena; appendemmo le amache sotto il tetto, ma mancava la parete esterna, per cui frenetici voli di rondini si incrociavano sopra di noi, tra monticoli di guano per terra. Nessun altro ci disturbò. Un’altra notte dormimmo in una stamberga dove le pareti della stanza erano di masonite, per chiudere la porta bisognava mettere un gancetto. Facemmo una doccia, ma mi accorsi che l’acqua era alquanto puzzolente, vicinanza dubbia di tubature fognarie. Mio figlio dimenticò per pochissimi minuti l’orologio nel bagno, quando tornò di corsa era già sparito. Tra chi ci diede gli innumerevoli passaggi emerge il ricordo di un ometto che aveva un vecchio maggiolino Volkswagen, anche lui correva troppo. Quando lo pregavo di non accelerare, sorrideva sornione e diceva: “Ma si figuri se voglio rovinare questo gioiellino di macchina. Ma lei sa dove si trova il fungo miracoloso? Ne mangio sempre. Si trova nella merda!” Probabilmente del fungo miracoloso faceva scorpacciate, ad un certo punto lo ringraziammo e con sollievo scendemmo dal suo trabiccolo. Infine Cancún fu raggiunta il giorno precedente la data della partenza dell’aereo. Data la dieta rigorosa, nell'ultimo autobus urbano a Cancún mio figlio ebbe un capogiro, cagionando un po’ di trambusto. Appena scesi gli comprai un grosso panino con gli ultimi soldi. Per non rischiare di arrivare in ritardo per l’aereo, facemmo subito l’autostop sulla strada dell’aeroporto e ci fermammo ad una rotatoria alberata, dove appendemmo le nostre amache per l’ultima notte messicana. Piovve leggermente ma me ne accorsi appena. Mi svegliò uno strano rumore il mattino presto: zac! zac! Stavano potando gli alberi! Mi prese un accidente per paura che ci tagliassero le asole delle tende! Dopo sommarie abluzioni, riprendemmo il cammino e trovammo l’eldorado, l’agognato aeroporto. Un funzionario mi chiese di pagare la tassa turistica per uscire dal paese, gli risposi che non avevo una lira e che se non fossimo partiti saremmo dovuti rimanere a bivaccare lì o essere ricoverati in ospedale! Fui convincente e salimmo sul velivolo benedetto. Quando arrivammo a JFK[6] e trovammo il nostro amico con auto che ci aspettava, ebbi la tentazione di chinarmi a baciare la terra.

 

** Tutte le foto sono tratte da Wikipedia, mi scuso per la loro approssimazione e qualità. All'epoca credo non avessi portato una macchina fotografica con me, e anche se l'avessi avuta chissà dove sarebbero finite le foto!



[1] Fernando Pessoa, Poesie. A cura di Luigi Panarese, Passigli editori, 1993. (Viaggiare! Perdere paesi!/essere altro costantemente,/non aver radici per l’anima,/da vivere soltanto di vedere!)

[2] Titolo di un film del 1983, diretto da Gregory Nava e basato su decine di interviste a migranti e funzionari di frontiera, visto nel 1985 negli Stati Uniti: il “mitico” e assassino, Nord.

[3]Mi dicono che ora l’ascesa alla piramide sia proibita, dopo qualche incidente probabilmente mortale.

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Zapotechi

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Monte_Alb%C3%A1n#Monumenti

[6] Principale aeroporto di New York