L’INQUIETANTE VICENDA DELLO SCULTORE ARNOLDO
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Maschera Dogon, Mali |
…La vita, qualche cosa
Che tutti supponiamo senza averne le prove…
Eugenio Montale, da Diario del ’71 e del ‘72
Era una bella giornata d’aprile e già di prima mattina Arnoldo, ebanista e scultore assai noto in città, era al lavoro. Scolpiva lentamente, con gesti sapienti levigava e perfezionava una testa femminile ormai quasi completamente emersa dal blocco di legno di sandalo. Non usava spesso questo legno profumato, ma l’aveva scelto per raffigurare la figlia di un suo cliente affezionato, una bella ragazza di appena vent’anni, con una zazzera castana striata di colpi di sole naturali. Era figlia unica, il padre l’adorava, e desiderava avere sempre presente in casa, su un piccolo piedistallo di pietra, quel viso la cui sola vista gli illuminava la giornata.
La graziosa modella era venuta a posare durante l’inverno con grande pazienza, ascoltando la musica che Arnoldo non mancava mai di diffondere per accompagnare la sua concentrazione. Ma quella mattina lo scultore era solo e apportava gli ultimi ritocchi, con sgorbie e scalpelli, al viso e alla capigliatura, controllando le grandi foto del viso e della testa della ragazza appese nello studio. Con le braccia tese verso la sua creazione, aspirando l’aroma che emanava dal legno di sandalo, improvvisamente si accorse che misto al profumo del legno si insinuava una nota singolare, assai diversa, un odore dolciastro quasi nauseabondo benché debole. La finestra era socchiusa, si alzò per chiuderla e tornò a sedersi e a lavorare. Invece di sparire quel misterioso sottile effluvio si fece più marcato e spiacevole, facendogli perdere la necessaria concentrazione. Pensò quindi di interrompere la sessione di scultura per cercare di identificare la fonte di quel debole lezzo, probabilmente un qualche animaletto rimasto incastrato dietro un mobile e lì morto. Si alzò e spostò le poche suppellettili dello studio, le cornici a terra, sollevò il tappeto senza risultato. Innervosito aprì di nuovo la finestra, uscì ad annusare l’aria che sapeva di humus e d’erba; no, l’odore non proveniva dall’esterno. Bene riprenderò il lavoro domani, non c’è fretta, è quasi ultimato, pensò.
Il giorno successivo la sua modella arrivò puntuale, e appena vide la testa che la raffigurava notò come gli ultimi tocchi apportati dallo scultore avessero messo in risalto alcuni tratti caratteristici della sua fisionomia. Sorrise soddisfatta. “Lei è un mago, è riuscito a cogliere espressione, sguardo, il mio modo di inclinare la testa da un lato. Mio padre sarà contento della sua opera. Arnoldo era soddisfatto e lusingato: la somma pattuita per quel lavoro era consistente, sarebbe riuscito a pagarsi una vacanza non programmata in qualche bel posto ancora in bassa stagione, ideale. Chiese alla ragazza di avere la pazienza di posare ancora per almeno due ore in modo da perfezionare e addolcire alcuni tratti, lei sedette sorridendo al solito posto e rimase immobile mentre ascoltava la musica. Come sempre Arnoldo aveva avuto cura di inserire nel Grundig un vinile gradito a entrambi. Poco dopo però lei fece un cenno, un segnale convenuto per interrompere la sessione, qualcosa la disturbava. “Scusa Arnoldo, mi pare che oggi ci sia uno strano odore che sinceramente mi dà nausea, non capisco cosa possa essere…” Lo scultore sospese in aria lo scalpellino che stava manovrando e annusò, era vero; era lo stesso leggero fetore che aveva notato il giorno precedente e che invece ora non aveva percepito, come se ci si fosse abituato nello spazio di 24 ore. Ohibò. Accigliato e turbato, andò ad aprire la finestra, una ventata fresca agitò le tende, e la sessione di posa continuò senza intoppi.
La sera, dopo una passeggiata rilassante nel bosco vicino, Arnoldo rientrò e si sedette a leggere prima di alzarsi per cucinare qualcosa. Lo spiacevole odore lo perseguitava. Ecco, riempirò la vasca e metterò un bella dose di bagno schiuma, l’assenzio è quel che ci vuole, si disse. Forse ho sudato senza accorgermene, non può essere altro. Detto fatto. Era ancora in accappatoio quando squillò il telefono, un amico gli proponeva di cenare insieme. Ottimo, rispose, ci troviamo alle otto al “Cavoli a merenda”. Era il loro ristorante preferito.
Mentre seduti tra soffici cuscini sorseggiavano Chardonnay guardando il menù, l’amico Giorgio dette segni di disagio. “Arnoldo, scusa …mi pare che da qualche parte arrivi uno strano odore decisamente spiacevole, non ti pare? Non capisco…”
Arnoldo replicò che non se ne era accorto, ma forse era vero, e con disappunto constatò che era sempre quello stesso maledetto odore che lo perseguitava da ormai due giorni O erano tre? Chiamarono il cameriere che mise in azione la ventola del soffitto e accese l’aria condizionata. Intervento efficace, l’appetitosa fragranza delle varie pietanze dissipò ogni traccia di cattivo odore. Il resto della serata fu oltremodo piacevole, la conversazione tra loro prendeva sempre una piega interessante, tra riflessioni, aneddoti e discussioni su libri letti di recente. Arnoldo rincasò sereno e dormì di un sonno greve, pesante, quasi letargico. Tutto a posto? No.
Nei giorni seguenti lo scultore non poté esimersi dal constatare che ormai quel lieve fetore che esalava dal suo intero corpo si ispessiva, lo accompagnava ovunque, e anche chi in strada lo incrociava lo notava e si allontanava velocemente. Ovunque andasse era ormai parte del suo essere, e per quanti bagni e docce facesse non c’era modo di eliminarlo. Continuava a cambiare biancheria e abiti. Si chiedeva spaventato che cosa gli stesse succedendo. Pensò a qualche rara malattia della pelle, invisibile, e prese appuntamento con un dermatologo reputato tra i migliori specialisti. E cominciò a sentirsi, non poteva dire “male”, ma strano si, diverso dal solito, da “prima”. Si era ormai a maggio inoltrato, l’ultimo suo lavoro era stato consegnato e pagato immediatamente. Una bella vacanza, in attesa della visita dermatologica, forse gli avrebbe giovato. Ma aveva paura, lo spiacevole odore che lo perseguitava si stava mutando in un facsimile di fetore che Arnoldo cercava di coprire sempre di più con docce e bagni quotidiani, lozioni profumate e deodoranti, che solo smorzavano l’acredine dell’alone maleodorante che ormai lo circondava, un’irradiazione ripugnante. L’impiegata dell’agenzia di viaggio cui si rivolse per informazioni e prenotazioni era ricorsa impacciata ad un civettuolo fazzoletto smerlato per immergervi il naso, affettando un grosso raffreddore.
La mattina della partenza Arnoldo si svegliò all’alba. Alla luce già chiara che filtrava dalle listerelle delle persiane avvistò la valigia pronta accanto alla parete di fronte e si rallegrò all’idea dell’imminente partenza. Ma quasi immediatamente percepì un vero e proprio fetore che gli mozzò il respiro. Ritto accanto al bordo del letto, mentre infilava le pantofole, ebbe un capogiro e si sedette di nuovo sul letto appena lasciato. Con raccapriccio si rese conto che le sue mani si enfiavano, divenivano nere e cominciavano a fondersi, a perdere consistenza, a gocciolare e squagliarsi come un gelato al sole. Poi furono le braccia a deformarsi, a flettersi, e a sciogliersi in una brodaglia grigiastra. Era atterrito. I piedi e le gambe gli si afflosciarono e anche loro cominciarono a disfarsi allargando poco a poco una pozzanghera maleolente sul morbido tappeto della camera da letto. Ora era il suo corpo tutto che cedeva perdendo compattezza, il suo corpo che si rammolliva dolcemente e disfaceva come un gomitolo srotolato,una ben strana rosa sfogliata dalla burrasca, mentre la lurida pozza sul tappeto cresceva a dismisura. La vita finiva o era già finita da tempo?
Prima che anche la testa seguisse il suo destino di disintegrazione, negli ultimi istanti di coscienza di Arnoldo balenò la terribile verità che non aveva voluto guardare in faccia: lui era morto da molto tempo e non se ne era reso conto. O forse non aveva voluto rendersene conto? La cosa gli sembrò balzana e quasi comica, avrebbe voluto sorriderne di compatimento, ma già non aveva più labbra per abbozzare un ultimo sorriso di auto-scherno.