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mercoledì 23 luglio 2025

LA VALLE FELICE DEI MARI DEL SUD, 1842

 

TYPEE, LA VALLE DEGLI ANTROPOFAGI **

 

Foto di Nuku Hiva trovata su Google Maps

Typee, il secondo libro scritto da Herman Melville, è il racconto autobiografico delle sue avventure come marinaio-disertore nei Mari del Sud Pacifico. Nukuheva è il nome dell’isola del gruppo delle Isole Marchesi, odierna Polinesia[1], dove si svolge il racconto. Il nome immaginario della nave Dolly, dalla quale Melville fugge insieme a un altro marinaio ribelle chiamato Toby nel libro, è la reale baleniera Acushnet, dalla quale i due marinai decisero di allontanarsi, disgustati dal cattivo trattamento riservato all’equipaggio dal comandante e dall’imperizia di quest’ultimo. Cogliendo l’occasione di una giornata di libertà sull’isola, ambedue sono risoluti a sfidare i possibili pericoli di un ambiente sconosciuto, ambiente sul quale circolano a bordo storie turpi di cannibalismo nei confronti degli importuni europei (i Francesi erano già arrivati con mire di conquistatori). I cruenti gusti gastronomici erano attribuiti ad uno in particolare dei gruppi di “selvaggi” abitanti dell’isola, appunto i Typee, tra i quali Melville trascorrerà alcuni mesi, prima di una inaspettata e benedetta liberazione. Pur oggetto di ogni attenzione contrariamente alle terrificanti aspettative, si sentiva di fatto un prezioso prigioniero; gli era precluso di allontanarsi da solo e soprattutto gli era proibito anche solo avvicinarsi alla spiaggia, come avrebbe desiderato, nella speranza di avvistare una nave. E la sua fuga sarà frutto di fortuna e di grande audacia. Toby, il sodale dell’evasione dalla baleniera, che era riuscito ad allontanarsi e sul quale il riluttante prigioniero puntava per poter lasciare la “valle felice”, come nonostante tutto la ricorderà, era sparito senza lasciare tracce[2].

Selvaggi, “savages”, è il termine usato lungo tutto il racconto da Melville, chiaramente non in senso spregiativo, ma come correlato oggettivo, anche quando, ormai acclimatato e inserito per quanto possibile tra i suoi accoglienti ospiti, ne apprezzerà sinceramente la maniera semplice di vivere e l’estrema cura nei suoi confronti. All’epoca, siamo negli anni ’40 dell’’800, chi poteva sospettare che i cosiddetti popoli civili fossero i veri selvaggi, i veri cannibali, coloro che annientarono decine, centinaia di civiltà e milioni e milioni di esseri umani che, vivendo una vita in armonia con la natura e utilizzando le risorse a loro disposizione con equilibrio, erano i veri saggi, i veri popoli civili? Melville tuttavia, durante la sua esperienza, fu tra i primi a capirlo. Ecco un estratto del suo giudizio:[3]” La diabolica abilità che dispieghiamo inventando ogni genere di macchinari mortiferi, la perversa vendicatività delle nostre guerre e la desolazione e i lutti che ne conseguono, bastano da soli a identificare l’uomo bianco civilizzato come l’essere più feroce sulla faccia della terra.” Colpisce la perfetta analogia con il giudizio di Varlam Tichonovič Šalamov, prigioniero politico per anni nei gulag staliniani, scrittore e poeta: l’uomo è la bestia più feroce che esista, e se ci guardiamo intorno oggi siamo tentati di confermarlo. Forse potremmo aggiungere l’aggettivo stolto. Ma torniamo al 1800.

 

La prefazione a Typee, scritta da Melville nel 1846, esordisce in tali termini: “Sono passati più di tre anni dagli avvenimenti narrati in questo libro. Questo periodo, a parte gli ultimi mesi, l’autore l’ha trascorso quasi completamente cavalcando i marosi del vasto oceano. …Nonostante il fatto che i marinai siano abituati a ogni sorta di strane avventure, i fatti narrati nelle pagine che seguono sono spesso serviti, raccontati durante notti di guardia in mare, non solo ad alleviare la stanchezza, ma anche a destare la più calorosa solidarietà tra i compagni di bordo.” E l’incanto e l’interesse per le avventure del nostro eroe nell’isola dei cannibali, la suspense e il sollievo provati nella lettura, sono tanto più preziosi oggi in un mondo realmente cannibale e omogeneizzato, più che omologato, dove il cartello “hic sunt leones” dovrebbe essere esposto in centinaia se non migliaia di luoghi.

I due disertori si allontanano alla chetichella dal resto dell’equipaggio con ben poche provviste alimentari nascoste in tasca, in modo da non destare sospetti, e si arrampicano con qualche difficoltà su una vera e propria montagna che divide due valli. Qui nasce la suspense, perché ambedue sanno (o meglio credono di sapere) che in una valle vive un gruppo chiamato Happar che ha fama di essere accogliente e pacifico, mentre nell’altra il gruppo denominato Typee passa per essere non solo ostile ma antropofago. Tra i due gruppi non corre buon sangue. Il dilemma è: come poter sapere qual è il versante “giusto” in cui farsi scivolare giù dalla montagna? A parte i problemi di comunicazione che inevitabilmente si presenteranno, le reazioni fisiche saranno comunque eloquenti. Dopo due o tre giorni le scarse provviste alimentari, pur centellinate, finiscono, Melville si ferisce ad una gamba e ha difficoltà a reggersi in piedi, il freddo e i disagi diventano insopportabili come la fame, ed è giocoforza farsi scivolare, senza sfracellarsi, lungo il crinale della montagna, sperando di azzeccare la valle “giusta”, quella degli Happar. Ma, una volta scesi e circondati dai nativi, apprendono che sono arrivati tra i Typee, che evidentemente, se del caso, sono ostili e antropofagi con chi li assale e non con inermi e affamati visitatori. E, pur rimasto solo dopo la separazione da Toby, che riesce ad allontanarsi e scendere verso il mare, una volta guarita la ferita che contribuiva a rattristarlo, Melville scopre e comincia ad apprezzare i vantaggi della vita dei “selvaggi”: “Quando giravo lo sguardo sulle verdi dimore che mi circondavano da ogni lato (where I was buried) e osservavo le alte cime che mi racchiudevano, ero inspirato a pensare che mi trovavo nella “Valle Felice” (lettere maiuscole nel testo). E che al di là di quelle montagne non c’era altro che un mondo di preoccupazioni e inquietudini. Man mano che allargavo il raggio dei miei vagabondaggi nella valle e conoscevo meglio le abitudini dei suoi abitanti, propendevo sempre più ad ammettere che, ad onta degli svantaggi delle loro condizioni di vita, i selvaggi della Polinesia, circondati da una profusione di doni della natura lussureggiante, godono di una situazione infinitamente più felice, pur privi di una vita intellettuale, rispetto agli europei compiaciuti di sé”.E più avanti: “Ad uno stadio primitivo della struttura sociale, le gioie della vita, sebbene poche e semplici, sono a portata di mano in gran numero, e sono pienamente godibili, mentre la Civiltà, per ogni vantaggio che presenta, implica centinaia di guai, i furori, le gelosie, le rivalità sociali, i conflitti familiari, e le migliaia di mali che ci infliggiamo noi stessi con una vita più comoda, il tutto ammonta al pesante fardello delle miserie umane che sono sconosciute tra i popoli che vivono della natura”. E ancora, più avanti: “Una peculiarità che attirò la mia attenzione fu la perpetua allegria che regnava per tutta la valle. Sembrava non ci fossero preoccupazioni, fastidi, angosce né oppressione tra i Typee. Le ore trascorrevano liete come le risate che costellano una danza campestre”. Nessuno ha fame, nessuno mendica, non ci sono prigioni, non ci sono altezzosi nababbi, non ci sono discordie e avvocati”. Il segreto? “Non esistono i soldi! La radice di tutti i mali non esisteva nella valle…Tutto era allegria, gioco, e buon umore, Depressione, ipocondria, malumori fuggivano e si nascondevano nei crepacci delle rocce,” Anche i bambini non litigano, non si contendono giocattoli, le ragazze si divertono a adornarsi di ghirlande di fiori. E tutto nasce dalla perfetta salute di cui sembrano godere i Typee. “Durante tutto il mio soggiorno ho visto soltanto una persona malata, sul viso e la pelle di tutti gli altri non si notava alcun segno di malattia.”

Foto aerea di Nuku Hiva da Wikipedia  
 

E prosegue: “Ma si obietterà che questi stupefacenti miserabili senza principi sono cannibali. Vero, e un aspetto piuttosto spiacevole del loro carattere, bisogna ammetterlo. Ma diventano tali soltanto quando sono indotti a soddisfare la loro ira vendicativa contro i nemici. E mi chiedo se il consumare carne umana sia un tale atto di barbarie da superare quell’abitudine che solo fino a pochi anni fa era pratica corrente nell’ illuminata Inghilterra  - un traditore condannato, magari un uomo ritenuto colpevole di onestà, patriottismo o di altri simili odiosi crimini, veniva decapitato con una grossa accetta, poi sventrato, le sue viscere erano gettate nel fuoco, mentre il corpo, squartato in quattro parti, era insieme alla testa esibito su due picche, restando così in mezzo alla popolazione a puzzare e marcire!”

Oggi la nostra civiltà non contempla più orrori simili ad personam, ma fa le cose in grande: annichila moltitudini in quattro e quattr’otto, grazie al progresso della tecnologia. E quel che rimane delle valli felici, dei sopravvissuti felici in reconditi angoli dell’orbe terraqueo, è assediato dalla Civiltà. Meglio i cannibali delle bombe nucleari, degli F35, dei droni, eccetera?

Ahimé, le perdute valli felici!

** Non indico pagine in quanto ho letto il libro in formato elettronico. I brani tradotti sono principalmente tratti dal capitolo XVII.


 

 

 

 

 



[1] Cercando Nukuheva su Google Maps, ho trovato l’odierna Nuku Hiva, con relativa foto di visitatrice corredata da cuoricino. Mi chiedo quali tracce possa ancora recareil luogo del passaggio di Melville quasi due secoli fa.

[2] L’ultimo capitolo è dedicato a spiegare tale sparizione. Toby sarà rintracciato e incontrato nel New England, di ritorno a casa.

[3] Tutte le traduzioni degli estratti del libro sono mie, non ho una copia in italiano.

giovedì 5 giugno 2025

AVVENNE COSI'

 

L’INQUIETANTE VICENDA DELLO SCULTORE ARNOLDO

Maschera Dogon, Mali
 

…La vita, qualche cosa

Che tutti supponiamo senza averne le prove…

Eugenio Montale, da Diario del ’71 e del ‘72

 

Era una bella giornata d’aprile e già di prima mattina Arnoldo, ebanista e scultore assai noto in città, era al lavoro. Scolpiva lentamente, con gesti sapienti levigava e perfezionava una testa femminile ormai quasi completamente emersa dal blocco di legno di sandalo. Non usava spesso questo legno profumato, ma l’aveva scelto per raffigurare la figlia di un suo cliente affezionato, una bella ragazza di appena vent’anni, con una zazzera castana striata di colpi di sole naturali. Era figlia unica, il padre l’adorava, e desiderava avere sempre presente in casa, su un piccolo piedistallo di pietra, quel viso la cui sola vista gli illuminava la giornata.

La graziosa modella era venuta a posare durante l’inverno con grande pazienza, ascoltando la musica che Arnoldo non mancava mai di diffondere per accompagnare la sua concentrazione. Ma quella mattina lo scultore era solo e apportava gli ultimi ritocchi, con sgorbie e scalpelli, al viso e alla capigliatura, controllando le grandi foto del viso e della testa della ragazza appese nello studio. Con le braccia tese verso la sua creazione, aspirando l’aroma che emanava dal legno di sandalo, improvvisamente si accorse che misto al profumo del legno si insinuava una nota singolare, assai diversa, un odore dolciastro quasi nauseabondo benché debole. La finestra era socchiusa, si alzò per chiuderla e tornò a sedersi e a lavorare. Invece di sparire quel misterioso sottile effluvio si fece più marcato e spiacevole, facendogli perdere la necessaria concentrazione. Pensò quindi di interrompere la sessione di scultura per cercare di identificare la fonte di quel debole lezzo, probabilmente un qualche animaletto rimasto incastrato dietro un mobile e lì morto. Si alzò e spostò le poche suppellettili dello studio, le cornici a terra, sollevò il tappeto senza risultato. Innervosito aprì di nuovo la finestra, uscì ad annusare l’aria che sapeva di humus e d’erba; no, l’odore non proveniva dall’esterno. Bene riprenderò il lavoro domani, non c’è fretta, è quasi ultimato, pensò.

Il giorno successivo la sua modella arrivò puntuale, e appena vide la testa che la raffigurava notò come gli ultimi tocchi apportati dallo scultore avessero messo in risalto alcuni tratti caratteristici della sua fisionomia. Sorrise soddisfatta. “Lei è un mago, è riuscito a cogliere espressione, sguardo, il mio modo di inclinare la testa da un lato. Mio padre sarà contento della sua opera. Arnoldo era soddisfatto e lusingato: la somma pattuita per quel lavoro era consistente, sarebbe riuscito a pagarsi una vacanza non programmata in qualche bel posto ancora in bassa stagione, ideale. Chiese alla ragazza di avere la pazienza di posare ancora per almeno due ore in modo da perfezionare e addolcire alcuni tratti, lei sedette sorridendo al solito posto e rimase immobile mentre ascoltava la musica. Come sempre Arnoldo aveva avuto cura di inserire nel Grundig un vinile gradito a entrambi. Poco dopo però lei fece un cenno, un segnale convenuto per interrompere la sessione, qualcosa la disturbava. “Scusa Arnoldo, mi pare che oggi ci sia uno strano odore che sinceramente mi dà nausea, non capisco cosa possa essere…” Lo scultore sospese in aria lo scalpellino che stava manovrando e annusò, era vero; era lo stesso leggero fetore che aveva notato il giorno precedente e che invece ora non aveva percepito, come se ci si fosse abituato nello spazio di 24 ore. Ohibò. Accigliato e turbato, andò ad aprire la finestra, una ventata fresca agitò le tende, e la sessione di posa continuò senza intoppi.

La sera, dopo una passeggiata rilassante nel bosco vicino, Arnoldo rientrò e si sedette a leggere prima di alzarsi per cucinare qualcosa. Lo spiacevole odore lo perseguitava. Ecco, riempirò la vasca e metterò un bella dose di bagno schiuma, l’assenzio è quel che ci vuole, si disse. Forse ho sudato senza accorgermene, non può essere altro. Detto fatto. Era ancora in accappatoio quando squillò il telefono, un amico gli proponeva di cenare insieme. Ottimo, rispose, ci troviamo alle otto al “Cavoli a merenda”.  Era il loro ristorante preferito.

Mentre seduti tra soffici cuscini sorseggiavano Chardonnay guardando il menù, l’amico Giorgio dette segni di disagio. “Arnoldo, scusa …mi pare che da qualche parte arrivi uno strano odore decisamente spiacevole, non ti pare? Non capisco…”

Arnoldo replicò che non se ne era accorto, ma forse era vero, e con disappunto constatò che era sempre quello stesso maledetto odore che lo perseguitava da ormai due giorni O erano tre?  Chiamarono il cameriere che mise in azione la ventola del soffitto e accese l’aria condizionata. Intervento efficace, l’appetitosa fragranza delle varie pietanze dissipò ogni traccia di cattivo odore. Il resto della serata fu oltremodo piacevole, la conversazione tra loro prendeva sempre una piega interessante, tra riflessioni, aneddoti e discussioni su libri letti di recente. Arnoldo rincasò sereno e dormì di un sonno greve, pesante, quasi letargico. Tutto a posto? No.

Nei giorni seguenti lo scultore non poté esimersi dal constatare che ormai quel lieve fetore che esalava dal suo intero corpo si ispessiva, lo accompagnava ovunque, e anche chi in strada lo incrociava lo notava e si allontanava velocemente. Ovunque andasse era ormai parte del suo essere, e per quanti bagni e docce facesse non c’era modo di eliminarlo. Continuava a cambiare biancheria e abiti. Si chiedeva spaventato che cosa gli stesse succedendo. Pensò a qualche rara malattia della pelle, invisibile, e prese appuntamento con un dermatologo reputato tra i migliori specialisti. E cominciò a sentirsi, non poteva dire “male”, ma strano si, diverso dal solito, da “prima”. Si era ormai a maggio inoltrato, l’ultimo suo lavoro era stato consegnato e pagato immediatamente. Una bella vacanza, in attesa della visita dermatologica, forse gli avrebbe giovato. Ma aveva paura, lo spiacevole odore che lo perseguitava si stava mutando in un facsimile di fetore che Arnoldo cercava di coprire sempre di più con docce e bagni quotidiani, lozioni profumate e deodoranti, che solo smorzavano l’acredine dell’alone maleodorante che ormai lo circondava, un’irradiazione ripugnante. L’impiegata dell’agenzia di viaggio cui si rivolse per informazioni e prenotazioni era ricorsa impacciata ad un civettuolo fazzoletto smerlato per immergervi il naso, affettando un grosso raffreddore.

La mattina della partenza Arnoldo si svegliò all’alba. Alla luce già chiara che filtrava dalle listerelle delle persiane avvistò la valigia pronta accanto alla parete di fronte e si rallegrò all’idea dell’imminente partenza. Ma quasi immediatamente percepì un vero e proprio fetore che gli mozzò il respiro. Ritto accanto al bordo del letto, mentre infilava le pantofole, ebbe un capogiro e si sedette di nuovo sul letto appena lasciato. Con raccapriccio si rese conto che le sue mani si enfiavano, divenivano nere e cominciavano a fondersi, a perdere consistenza, a gocciolare e squagliarsi come un gelato al sole. Poi furono le braccia a deformarsi, a flettersi, e a sciogliersi in una brodaglia grigiastra. Era atterrito.  I piedi e le gambe gli si afflosciarono e anche loro cominciarono a disfarsi allargando poco a poco una pozzanghera maleolente sul morbido tappeto della camera da letto. Ora era il suo corpo tutto che cedeva perdendo compattezza, il suo corpo che si rammolliva dolcemente e disfaceva come un gomitolo srotolato,una ben strana rosa sfogliata dalla burrasca, mentre la lurida pozza sul tappeto cresceva a dismisura. La vita finiva o era già finita da tempo?

Prima che anche la testa seguisse il suo destino di disintegrazione, negli ultimi istanti di coscienza di Arnoldo balenò la terribile verità che non aveva voluto guardare in faccia: lui era morto da molto tempo e non se ne era reso conto. O forse non aveva voluto rendersene conto? La cosa gli sembrò balzana e quasi comica, avrebbe voluto sorriderne di compatimento, ma già non aveva più labbra per abbozzare un ultimo sorriso di auto-scherno.