Caleidoscopio Colombia 2013 tra guerra e pace
I páramos sono
spazi di nebbie, piogge lievi e nubi volteggianti che aderiscono alle rocce e
al vento. Luoghi d’ombra, foschi e ignoti, dove gli orizzonti si moltiplicano e
la totalità ci appare. Il páramo condensa attorno a sé le energie della vita e
l’uomo le ha sempre associate ai suoi dei,
a queste forze che non riesce a comprendere né a dominare. (Josan, 1982,
http://palabrasenextincion.blogspot)
Questa bella e poetica descrizione di uno dei sistemi
ecologici più caratteristici dell’ambiente andino, che si può ammirare in vari
punti della cordigliera colombiana tra i 3000 e i 4000 metri di altezza e che
dispiega piante, fiori e arbusti caratteristici e unici, suggerisce l’incanto che
coglie chi li attraversa e che mi ha colto nei due mesi in cui ho percorso la
Colombia da sud a nord e poi di nuovo a sud, utilizzando solo autobus di linea
e camminando per decine di km. Il paese comprende una varietà enorme di paesaggi (e
climi), dai picchi andini sempre coperti da cappelli di nuvole e nebbia alle
coste della penisola della Guajira a nord-est, arse dal sole ogni giorno
dell’anno, al deserto della Tatacoa con i suoi cactus e le
architetture naturali di sabbia rossa, alle foreste i cui alberi immensi sono
spesso ammantati di lunghe frange cineree chiamate “barbas de viejo”,
che pendono come liane ma assomigliano di più a scialli di pizzo, apparizioni
di fiaba. I musei archeologici
rigurgitano di ceramiche precolombiane dalle forme eteroclite perfette e capolavori
di oreficeria unici al mondo, le città
coloniali ben conservate, dalla meridionale Popayan alla centrale Villa de Leyva, alla nordica e più
conosciuta Cartagena de Indias
sono belle e accoglienti, le persone che incontri per le strade e negli autobus
pronte non solo a dare indicazioni ed aiutarti ma anche disponibili a
chiacchierare, ad accompagnarti, a passare del tempo con te. I trasporti, a
parte l’obiettiva pericolosità delle strade, troppo strette per le centinaia di migliaia di
TIR che le percorrono, sono ragionevolmente comodi e puntuali, i prezzi ,
ovviamente per chi viene dall’Europa,
molto convenienti. Così l’immagine minacciosa di un luogo pieno di
insidie, di banditi e narcotrafficanti, pericoloso e inaffidabile, si attenua e
sembra scomparire. La Colombia di inizio
2013 appare operosa, aperta al turismo, al commercio e al progresso
tecnologico, pronta a mettersi alle spalle un passato di guerra e conflitti
sociali sanguinosi dopo che il Governo Santos ha accettato di sedersi al tavolo
dei colloqui di pace all’Avana insieme ai guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) che
combattono dagli anni ’60 una guerra che ormai non si può più vincere sul piano
militare. L’ultima edizione della guida Lonely Planet è
tranquillizzante: uno dei paesi più sicuri del Sudamerica.
Ma presto, conversando
più approfonditamente con colombiani e leggendo i giornali, diviene lampante
che il paravento turistico è illusorio.
La militarizzazione del paese è
evidente, l’esercito è dappertutto , ci sono frequentissimi posti di blocco con
perquisizioni dei passeggeri (e una volta,
prima della partenza, un soldato
sale sul pullman e riprende tutti con la fotocamera “per la vostra sicurezza”).
Dopo pochi giorni, se non vuoi chiudere gli
occhi e far finta di niente come molti compagni di viaggio che ho incontrato,
un altro quadro molto diverso emerge: i colloqui dell’Avana si svolgono
senza che sia stata patteggiata una
tregua bilaterale, quindi la guerra continua e miete vite ogni giorno. Anzi, ciascuna delle due
parti ha interesse ad alzare la posta e il prezzo della pace. Nel Putumayo, a
sud,la violenza è aumentata durante i negoziati a tal punto che le autorità
stanno discutendo seriamente se viaggiare fino all’Avana per parlare
direttamente con i guerriglieri e supplicarli di non attentare più contro la
popolazione. Continuano i sequestri di
persona : William Ospina” (El Espectador, 10 marzo 2013), commentando
la morte di Chavez e paragonando i recenti percorsi storici divergenti di
Venezuela e Colombia, menzionava il fatto che “ nei mesi di gennaio e febbraio
2013 contiamo (in Colombia) già più di mille desaparecidos”. Uomini
incappucciati assassinano tre contadini a Yondó ( El Espectador, 9
marzo 2013). Vedi baraccopoli a perdita d’occhio arrampicate sui fianchi delle
montagne della città sbandierata come la più innovatrice del mondo,
Medellin, dove, in pieno centro vicino a Parque Botero, devi stare attenta a non calpestare i mendicanti
stesi per strada a dormire, magri stecchiti e luridi.
Le sacche di povertà
sia rurale che urbana sono enormi,
le
lotte sociali scoppiano fortissime e rischiano (a ragione) di paralizzare il
paese. In febbraio, per quasi un mese migliaia di minatori del
Cerrejón,
la più grande miniera di carbone del Sudamerica, si sono fermati per
rivendicare salari più dignitosi, e tutto il settore si è paralizzato anche
perché il governo stesso ha imposto il fermo di un mese alla
Drummond,
multinazionale
U.S.A. del carbone. Per
risparmiare, invece di usare un sistema meccanizzato
per caricare il
minerale sulle navi, la
Drummond impiega
delle enormi
chiatte, una delle quali, in avaria, per non affondare
il 12 gennaio aveva scaricato una quantità
imprecisata, da 500 a 1800 tonnellate, di carbone nella baia di Santa Marta,
provocando una emergenza ambientale tuttora irrisolta
(economia.terra.com.mx › Noticias, 1 marzo 2013).
E ancora: in marzo ci
sono state le lotte dei coltivatori di caffè , i cafeteros, che chiedevano sussidi al governo ( e li
hanno ottenuti), perché i costi di produzione aumentati non rendono più
accettabilmente redditizia la loro attività, soprattutto dopo il crollo sui
mercati internazionali del prezzo del grano, e hanno bloccato per vari giorni
la Panamericana. I conducenti dei TIR si sono fermati per alcuni giorni per
protesta contro gli alti pedaggi e l’eccessivo prezzo del carburante che
favorisce il contrabbando (nel confinante Venezuela è praticamente gratis).
Normali proteste sociali, si, ma proiettate su un fondale di
guerra ancora guerreggiata. In un mondo
dove si dilata il ruolo dell’economia della conoscenza e dell’immaterialità
delle reti telematiche , si sbatte il naso contro la super-materialità di un
conflitto armato che ha al suo centro
una risorsa ancestrale: la terra.
“Gran parte di tutto
ciò che ha fatto scorrere il sangue in Colombia è legato principalmente alla
terra. Al suo uso.” (El Espectador, 4 marzo 2013). E ne ha
fatto scorrere, fiumi. In un articolo
del 7 settembre 2008, rievocando quello che è passato alla storia come “il massacro
del Trujillo”, Vladimir Melo Moreno rievoca come tra il 1986 e il 1994, furono
assassinate almeno 245 persone da gruppi di narcotrafficanti alleati alle forze
della polizia e dell’esercito, in funzione
“contro-insurrezionale”, in tre
piccoli centri rurali della Valle del
Cauca, tra cui Trujillo. Si intimidivano i contadini con il terrore per appropriarsi delle loro terre, e dopo
averli mutilati e assassinati con incredibile ferocia, usando motoseghe, i
“frammenti” (parola usata dall’articolista) dei corpi venivano gettati nel
fiume Cauca.
Nei 50 anni dell’interminabile
guerra che squassa la Colombia si è
creata una massa enorme di sfollati, tra i 3.8 e i 5.3 milioni di persone
secondo l’Internal Displacement
Monitoring Center, Norwegian Refugee Council , Global Displacement Report
2011). 3.888.309 secondo l’ UNHCR Report 2012. Per lo più sono contadini cacciati
dalle loro terre perché presi tra il
fuoco incrociato della guerriglia e dell’esercito, oppure, più spesso,
terrorizzati dalle formazioni paramilitari come le famigerate AUC, Autodefensas
Unidas de Colombia. Nate alla fine degli anni ’80 come forze
contro-insurrezionali per combattere le FARC
dall’ iniziativa di piccoli proprietari terrieri, sono degenerate in formazioni di pura criminalità,
spalleggiate dall’esercito e dai servizi dell’intelligence colombiana. Le AUC hanno seminato
distruzione e terrore per anni,
rendendosi colpevoli di eccidi come quello del Trujillo, così numerosi che per far scomparire i cadaveri nella regione del Catatumbo, a nord-est, tra il 2000 e il
2005, sono stati “costretti” a ideare un sistema nazista: hanno costruito forni
crematori dove sono scomparsi a centinaia i cadaveri delle vittime. Le AUC sono state sciolte tra il 2003 e il
2006, ma molti componenti non si sono consegnati e hanno dato vita alle attuali “bacrim”, abbreviazione di bandas criminales,
organizzate come vere e proprie formazioni paramilitari (impongono il
coprifuoco), che vivono di narcotraffico, di sopraffazione e razzie, usate come
manovalanza armata dalle multinazionali dell’agribusiness per impadronirsi di terre da
destinare a piantagioni di palma da olio o di canna da zucchero, o per
arraffare concessioni minerarie. Sono anche loro in combutta con l’esercito e
godono di evidenti appoggi in alto loco. Le loro radici fasciste sono evidenti:
ad Ocaña, Norte de Santander,
sono stati distribuiti volantini che ingiungono a omosessuali, uomini con i
capelli lunghi e con orecchini ad andarsene, pena il taglio delle orecchie e
l’eliminazione a machetate.
Sono bacrim los Rastrojos, los Urabeños, las Aguilas Negras, sigle che
ricorrono nelle cronache attuali, bande di migliaia di uomini che a volte si
combattono come rivali, a volte si spalleggiano a vicenda. (Gary Leech, The shifting contours of Colombia’s armed conflict,
2012) E continuano a impedire il
re-insediamento di chi è stato cacciato
via dalla propria terra e cerca di
tornarci.
La questione della terra e della iniqua ripartizione della
ricchezza e delle proprietà agricole è quindi alle origini del conflitto armato
che iniziò negli anni ’60 con la formazione degli eserciti guerriglieri (non
solo FARC ma anche ELN, ELP e M-19), ma la cui gestazione si può rintracciare già
negli anni ‘ 40. Il 9 aprile 1948 il
difensore dei diritti dei contadini e dei diseredati colombiani, Jorge Eliecer Gaitán, è assassinato a Bogotà, apparentemente da una mano isolata,
un “pallido giovane” chiamato Juan Roja
Sierra, che viene prontamente ucciso a
furor di popolo, così che sia più facile
per i mandanti rimanere occulti. L’
ultimo discorso pubblico di Gaitán, nel febbraio del 1948, fu la “Oracion por los humildes” che non
necessita traduzione. Nelle elezioni generali di due anni dopo, la sua
popolarità lo avrebbe senz’altro fatto eleggere Presidente, ma le sue grida: ("¡A la carga! ¡Contra la oligarquía! ¡Por la restauración moral de la
República!") non potevano essere tollerate dal potere, nemmeno dal
partito Liberale, contrapposto ai conservatori ma pur sempre ancorato agli
interessi oligarchici. Se fosse vissuto e fosse stato eletto, se avesse potuto
realizzare una riforma agraria, sarebbero nate le formazioni guerrigliere?
Quindi anche la storia attuale della Colombia ha alle sue
(recenti) radici un assassinio politico
generato dall’imperativo della difesa degli interessi di pochi contro quello di
molti, dall’odio e dalla lotta di classe, questo motore della storia oggi così misconosciuto e negato. E’ toccante la lettera che Gloria Gaitán, la figlia di questo
leader, assassinato al colmo della sua popolarità, ha indirizzato al Presidente
Santos e al Comandante Londoño Echeverri all’inizio di quest’anno:
“…(si deve riconoscere che) il conflitto che viviamo (ora) lo ha iniziato lo Stato Colombiano nel 1946
per aver scatenato in quel
preciso momento il genocidio premeditato, sistematico e generalizzato degli
esponenti gaitanisti che avanzavano vittoriosi alla conquista del
potere sotto la guida di mio padre Jorge Eliecer
Gaitán”
Gloria Gaitán aggiunge di avere tutta la documentazione originale
che prova che questo genocidio del Movimento Gaitanista, come “delitto di lesa umanità”, è all’origine del conflitto”. Menziona anche
il fatto che il periodico Jornada, portavoce del Movimento Gaitanista, con i suoi articoli che
dettagliavano i nomi delle vittime, i fatti circostanziati e i delitti relativi
all’annientamento dei partigiani del padre, è scomparso misteriosamente dagli
archivi della Biblioteca Nazionale, ma fortunatamente lei ne detiene le copie e
le mette a disposizione, come tutto il resto della documentazione, delle
massime autorità colombiane cui si rivolge.
E’ quindi naturale che
la questione agraria sia stato il primo punto in discussione ai negoziati che si stanno svolgendo (dalla fine del 2012)
all’Avana tra le delegazioni rispettive delle FARC e del Governo colombiano e che
si spera porteranno ad un accordo di pace. Nel 2006 il Land Gini index,
che misura il grado di concentrazione della
proprietà agraria, era 0,85, quando il massimo di 1 per assurdo indicherebbe
che tutta la terra coltivabile è nelle mani di UN solo proprietario, mentre 0 rappresenterebbe eguaglianza assoluta (UNDP
Report on Colombia, 2011), che puntualizza:
“ La terra è prevalentemente controllata da un oligopolio
della narco-borghesia, da grandi proprietari di bestiame, speculatori, e più
recentemente dalle multinazionali del
settore minerario. Insieme, questi gruppi hanno contribuito a una diminuzione
radicale delle coltivazioni alimentari . Attualmente, di un totale di 21,5
milioni di ettari adatti alla produzione alimentare, solo 4,9 milioni sono
coltivati, cioè il 22,7% del totale
Intanto i contadini e le loro associazioni che dovrebbero
essere interlocutori ineludibili nel processo di pace non sono
presenti al tavolo delle trattative. Fino a
che punto le FARC rappresentano i loro interessi
quando, per favorire lo sviluppo agricolo,
propongono
53 “
Zonas de Reservas Campesinas”
relativamente autonome?
Feliciano
Valencia, portavoce
della
Associazione dei
Cabildos
(capi tradizionali) indigeni della Valle del Cauca,
presenziando ll Congresso Nazionale per la Pace
che si è svolto dal 18 al 22 aprile a Bogotà dice : “La pace è
più della fine del conflitto armato
”( www.lasillavacia.com, 18 aprile 2013),. E, secondo lui, all’Avana dovrebbero sedere tutte le parti in
causa: i rappresentanti della società civile, ma anche le altre formazioni
guerrigliere e i gruppi paramilitari. E
sottolinea che:”… finora i dialoganti non hanno sfiorato le questioni di
genere, come la guerra ha coinvolto le donne, né gli investimenti sociali, né
la riduzione dell’apparato militare”, perché non si può fare la pace con una
politica di guerra.
I movimenti popolari del
Cauca chiedono l’estromissione totale di tutti gli attori armati, legali e
illegali, dal loro territorio, una demilitarizzazione completa.
Inoltre, aggiunge Feliciano,deve essere rimesso in discussione il modello
economico “estrattivo” in senso lato perseguito dalla Colombia e la politica neo-liberista, esemplificata dal
Trattato di libero commercio (NAFTA) del
1994, che ha portato il paese ad importare quasi tutte le sue derrate
alimentari e ha rovinato i contadini che le producevano. Mentre tuttora prosperano e si moltiplicano le
piantagioni dell’agribusiness di
palma da olio e canna da zucchero.
Il modello “estrattivo” è ribadito
dalle politiche governative anche in senso stretto: la Colombia sta vivendo un
boom del settore minerario: non solo
carbone, ma anche oro e ferronickel, il che crea enormi problemi di
inquinamento ambientale. E
aumenta l’illegalità diffusa. Delle 55,8 tonnellate d’oro estratte nel 2011, solo il 14% è stato esportato
legalmente ( CITpax, Actores armados
ilegales y sector extractivo en Colombia, p.6, 2012). La “mineria ilegal” nutre le casse sia delle
FARC che delle formazioni paramilitari. Non
solo: c’è anche il petrolio e sempre
nuovi giacimenti vengono scoperti, l’ultimo a César a inizio 2013. Non sarà facile combattere il modello
estrattivo.
Non ci può essere pace senza riparazione e ricerca di
giustizia. Per reintegrare gli sfollati nelle loro terre e risarcire le vittime
è stata emanata nel 2011 la Ley de Víctimas y Restitución de Tierras che “ mira a riparare il male inferto a
persone che hanno sofferto a causa del conflitto armato in Colombia e così risarcire i danni e la violazione dei loro
diritti”. Nel 2012, secondo il Ministero
competente, 140.000 vittime sono state
indennizzate in qualche modo, e il programma per il 2013 è di risolvere 150.000
casi di famiglie. Ma di fronte a milioni di desplazados che vivono tuttora in condizioni di miseria o
addirittura degradanti, cosa sono queste cifre?
E le centinaia di migliaia di assassinati? Inoltre chi rivendica il diritto a tornare può essere
di nuovo minacciato, cacciato ancora via o perfino assassinato. E’ successo a Alba Mery
Chilito Peñafiel, leader dell’Associazione delle vittime dell’atroce
massacro del Trujillo già menzionato, che il 7 febbraio di quest’anno è stata
uccisa da tre pallottole in testa. Aveva perso la figlia e il genero nella
mattanza del Trujillo e si batteva da allora per i diritti delle vittime: dopo
26 anni ci sono state appena due condanne penali (El Espectador, 14 marzo 2013).
La complicità di settori delle alte sfere è palese.
La storia di Alba si appaia a quella di Angela Bello, anche
lei rifugiata interna colombiana sin dagli anni ’90. Dovette lasciare
precipitosamente Saravena,
nel dipartimento di Arauca,
dopo che gli esponenti della Unione Patriottica, partito di sinistra che suo
padre aveva contribuito a fondare, furono trucidati. Con i suoi quattro figli
errò tra Bogotà fino a Villanueva dove dovette subire l’atroce sfregio dei paramilitari che le sequestrarono,
torturarono e violentarono le due figlie adolescenti, ingiungendole poi di andarsene immediatamente. Fuggirono a Villavicencio, di notte, con il
terrore di essere raggiunte. A Villavicencio
Angela fondò una associazione di difesa dei diritti delle donne. Ma i suoi
persecutori non mollano: subisce un
attentato che la lascia zoppa. A Bogotà
finalmente lo Stato le riconosce diritto alla protezione: è il 2008, ma continua a ricevere minacce che
si concretizzano quando tre sicari intercettano il taxi dove si trova, la
sequestrano, torturano e violentano ripetutamente.
Deve fuggire di nuovo, a Codazzi , nel dipartimento di César, a nord. Finalmente riesce ad
ottenere una scorta. Ma ancora riceve minacce e intimazioni ad andarsene. Questa
volta non ne può più: prende la pistola di un componente della sua scorta e si
tira un colpo in bocca (Maria Elvira
Bonilla, El Espectador, 3 marzo 2013).
Anche la vicenda dei falsos
positivos è esemplare del
livello di ferocia indotto dal conflitto armato in Colombia.
Alla radice, la politica del “body count”, la conta dei corpi, dei
vertici dell’Esercito. Per ogni
guerrigliero ucciso si guadagnavano soldi e si poteva facilmente salire di
grado. Con questa “politica” migliaia di poveri contadini e inermi passanti
sono stati uccisi dall’esercito ed
additati come militanti o sostenitori delle FARC.
Attualmente, il Procuratore Generale di Bogotá sta indagando 1.666 casi (Gary Leech 2012, cit.)
Fabio Augusto Reyes
e Luis Alejandro Londoño, impiegati, stanno andando al lavoro la mattina
del 28 giugno del 1996 e si trovano intrappolati tra una banda di rapinatori e
la polizia che li insegue. Dileguatisi i rapinatori, gli agenti bloccano i due
impiegati, li immobilizzano e li uccidono mentre loro implorano in ginocchio di
risparmiarli. I loro cadaveri sono spacciati per quelli degli assalitori del
carro valori, e gli agenti guadagnano una promozione, ricompense e lodi dai superiori. Inutili le denunce delle
famiglie e dei colleghi dei due impiegati che increduli protestano la loro innocenza , non solo in
virtù di una specchiata carriera delle vittime, ma anche perché la pistola
nella mano destra di Reyes,
che era mancino, denuncia chiaramente la macchinazione. Ci sono voluti quasi 17
anni per arrivare ad una sentenza, lo
scorso gennaio, che riconosce le responsabilità dei poliziotti e li condanna
penalmente, oltre a sancire il
diritto a un indennizzo delle famiglie.
Solo nel 2008 si è cominciato a indagare sui falsos
positivos come
vengono designati in Colombia i disgraziati uccisi per favorire le carriere e
ingrassare le tasche dei vertici militari, a partire da 19 cadaveri di giovani
di un sobborgo povero di Bogotà che vengono
trovati in una zona remota tra Ocaña
e Cimitarra, Norte de
Santander. Erano stati attirati a nord con il miraggio di un buon posto
di lavoro. Appena arrivati, erano stati consegnati all’esercito,trucidati per essere esibiti poi come guerriglieri
delle FARC uccisi in combattimento. E
poi ci sono le complicità internazionali: documenti declassificati dimostrano come la CIA e funzionari
dell’Ambasciata USA fossero a conoscenza di questa politica sin dal 1994, che
si intensificò durante il governo di Uribe, con il “Plan
Colombia” (Gary Leech, 2012,
cit.).
Con questo retaggio di morte e di ingiustizie, con il peso
di tali interessi, nazionali e internazionali, che prospettive per una pace
giusta?
La storia è un incubo dal quale cerco di uscire, dice
Stephen nell’Ulisse di Joyce.
I sondaggi degli ultimi mesi mostrano che ancora meno del
50% dei colombiani crede che i colloqui con le FARC possano avere uno
sbocco positivo. Si può solo sperare che
siano smentiti, che lo scetticismo si trasformi in pressione politica per
arrivare a dei risultati positivi, e che le forze progressiste legate alle
associazioni rurali, ai movimenti
sociali, alle numerose organizzazioni di vittime e della memoria storica, gli intellettuali, la
stragrande maggioranza della popolazione, riescano a imporre una svolta e a cominciare
la lunga uscita dal tunnel della guerra.
Una guerra che riguarda anche noi. Le multinazionali e la cocaina non hanno
confini.