Il clitoride come una
penna biro
( da Lotta Continua, p.9,
5-6 marzo 1979)
Dicembre 1978.
Sono quattro mesi che vivo in Mozambico e il bisogno che
ormai mi urge dentro di razionalizzare e
motivare il profondo coinvolgimento che provo nei confronti di questa
rivoluzione, come donna e come comunista, cozza in modo angosciante con la
consapevolezza della difficoltà di individuare canali reali attraverso i quali
far comunicare esperienze di vita e di lotta
così diverse, radicate in strutture socio-economiche così distanti.
Ogni ricostruzione di
vicende che riguardano altre donne oppresse, di qualsiasi paese, non può che
essere fatta empaticamente: la conoscenza dei presupposti di questa oppressione
diventa immediatamente ricerca della ricomposizione di un mosaico dove, tra le
tante tessere, ci sei anche tu.
Ma è un disegno tutto da inventare, questo incastro dei frammenti di storie singole di donne di continenti lontani le une sulle altre, perché quando si arriva
qui, nel Mozambico del 3° anno dall’Indipendenza e dall’inizio del percorso rivoluzionario
socialista, è difficilissimo un rapporto intersoggettivo tra donne
dei paesi occidentali, laureate, politicizzate, che vengono a dare il
loro contributo allo sviluppo della rivoluzione da “tecniche” ma anche da militanti,
e le donne mozambicane.
Cerchi di aiutarti leggendo i documenti ufficiali, as
directivas , la cui conoscenza è certamente
necessaria, gli articoli di giornale, da ricucire con i discorsi che orecchi e
le conversazioni con altri compagni/e e,
da incollare su ciò che osservi o che ti
sembra di intuire. I fuggevoli contatti che hai con le donne che lavorano
accanto a te ma con le quali scambi poco più che saluti cortesi e qualche
parola sul tempo, sulla famiglia, su circostanze specifiche che riguardano
l’ufficio, lasciano aperte domande senza risposta. Senti che c’è un abisso culturale,
linguistico, economico, esistenziale. Il
portoghese ingessato che hai appena imparato è per loro una lingua straniera, neppure
seconda lingua, e la intendono anche meno di te. Poi ci sono le donne che
incontri per strada, sempre con infanti sulla schiena, avvolte in capulane [1]stinte o sgargianti, che
fanno file interminabili con le tessere del razionamento, file lunghissime di
ore, spesso accovacciate a terra, ad aspettare il pane o l’autobus, le donne
che danzano in modo meraviglioso. Irraggiungibili?
Maggio 2013.
Ho di quel primo periodo della mia vita mozambicana durata
quattro anni due fotografie mentali.
La prima è di una
donna anziana, in fondo alla discesa del viale della Lumumba, che a gambe larghe e tese, alzando
un poco il telo che la avvolge dalla vita in giù, piscia nella concavità terrosa da cui emergono
le radici contorte di un albero, forse un’acacia flamboyant[2],
o forse un jacaranda. Stavo andando a prendere una medicina per mio figlio che
aveva un po’ di influenza, ero appena
arrivata in Mozambico e avevo un biglietto scritto da un amico che mi
suggeriva cosa dire in portoghese al
farmacista. Mi sono fermata interdetta per un attimo, e poi mi è venuto da
ridere, da sorridere, a quella spontaneità senza ombra di esitazione e così
scevra da ogni ingombrante e ipocrita pudore di fronte alla soddisfazione di un bisogno fisico così naturale. Certo a Maputo non c’erano servizi igienici
pubblici allora, e non ce ne sono molti di più oggi.
La seconda immagine è
di una donna che danza sul palcoscenico fatto di poche assi polverose di un
qualche teatro della baixa [3]insieme
ad altre compagne di lavoro, quindi uno spettacolo di operaie o donne di
quartiere. Un braccio le manca, dalla spalla sbuca un abbozzo di polso e una
manina che si contorce. Appare
completamente a suo agio, nella fila c’è anche una donna che ha incollato sulla
schiena come un grosso fagotto un bimbo
che sobbalza assicurato alla madre con la capulana annodata sul petto.
Non ho mai più visto una cosa del genere: non ci si sognava di parlare di
“diversamente abili”, ma non ce n’era bisogno: ognuno aveva un posto in una
società in trasformazione, ciascuno e ciascuna poteva e doveva avere un ruolo
sociale ed una vita pubblica.
Dicembre 1978.
L’interferenza
dissonante si crea quando si percepisce con chiarezza che tutte le esperienze
di lotta che abbiamo dietro come movimento, in base alle quali abbiamo negli
ultimi anni compiuto scelte importanti , fa corto circuito con l’impostazione
che il partito Frelimo[4] o l’O.M.M. (Organizzazione della donna
mozambicana) danno alla lotta per l’emancipazione della donna. E quando questo
corto circuito avviene in una situazione di coinvolgimento ideologico ed
emotivo, si avverte una dolorosa contraddizione tra il riconoscimento della
plausibilità delle posizioni ufficiali di questi due pilastri dello Stato e del
partito (disciplina di partito, struttura piramidale e rispetto della gerarchia, affermazione della
validità della famiglia nucleare contro la poligamia, ecc..) e la impossibilità
di accantonare, pur riconoscendole impraticabili in questo contesto, acquisizioni
che per noi sono irrinunciabili, divenute una cosa sola con il nostro corpo e
il nostro cervello: autonomia del movimento femminista, autodecisione circa la
nostra sessualità, maternità come libera scelta, critica della famiglia come struttura oppressiva. (..... qui la
redazione aveva tagliato e io non ho più il mio testo originale).
...Far capire in quale contesto si inserisce il corto
circuito di cui parlo è molto difficile, anche perché ovviamente la
conoscenza della struttura
socio-economica e del ruolo in essa della donna, una conoscenza “dal di
dentro”, presuppone una permanenza qui non di mesi, ma di anni.
Tuttavia i problemi più gravi, gli ostacoli maggiori sulla
via della liberazione, sono così palesi e macroscopici che non ci possono
essere dubbi sulla urgenza di spazzarli via per creare i presupposti di
qualsiasi discorso sulla emancipazione, o
liberazione, qui i termini sono intercambiabili
: la superstizione e l’ “oscurantismo” alimentano il sistema di schiavizzazione
della donna, che fa parte dei mezzi di produzione dell’uomo. Un uomo con molte
mogli è un uomo molto ricco....( e qui il testo è di nuovo troncato).
Maggio 2013: oscurantismo.
Qui mi intoppo. Questo termine, così frequente nei discorsi
del presidente di allora, Samora Machel, -morto (o piuttosto
ucciso) in uno strano incidente aereo con altri ministri e dirigenti della Frelimo
il 19 ottobre 1976, incidente nel quale
il regime dell’apartheid sudafricano fu fortemente sospettato di aver avuto pesanti
responsabilità - mi suscita pesanti interrogativi, mentre allora non avevo
neppure ritenuto necessario spiegarne il
significato ai lettori e lettrici di Lotta
Continua.
Con il termine “oscurantismo”
si stigmatizzava gran parte della cosiddetta “cultura tradizionale” delle varie
etnie mozambicane, che era fatta sì di superstizioni deleterie in campo
sanitario, di oppressione della donna, dei bambini e soprattutto bambine, di
introiezione del ruolo di colonizzato e quindi di auto-denigrazione e di
sfiducia nelle proprie capacità di emancipazione, di feticci, ma anche di
rapporti e legami antichissimi radicati nelle abitudini e nella coscienza della
stragrande maggioranza della popolazione, di cultura orale tramandata di
generazione in generazione, di conoscenze che avevano permesso di resistere in
circostanze difficilissime, e infine di
rispetto per le autorità “tradizionali”, i regulos, che invece venivano stroncate e additate a
pubblico ludibrio dalla Frelimo come strumenti del dominio
dell’antica potenza coloniale, il Portogallo. Era insomma tutto il vissuto del
99% della gente che non veniva
riconosciuto come valore.
In un libro molto bello del 1990 [5]un
antropologo francese, Christian Geffray,
spiega con una indagine accurata e innovativa - svolta in una zona del paese (Nampula) che fu il fulcro della guerra
civile che sconquassò il Mozambico dal 1983 al 1992 - la genesi della
dissidenza e della ribellione armata contro il partito di governo, e individua
in questo disprezzo sostanziale nei confronti della cultura tradizionale
bollata in blocco come “oscurantista” e quindi da spazzare via, la mala radice
dell’avversione nei confronti della dirigenza marxista del Frelimo,
distante le mille miglia dal popolo che diceva di voler servire.
Tutti noi eravamo vittime di quella illusione illuminista e marxianamente ingenua:
certo non si trattava di assecondare ciecamente, ma di comprendere e
relazionarsi, di analizzare e cercare insieme vie per avanzare, con umiltà
intellettuale e perspicacia, riconoscendo il primato della realtà storica e
antropologica. Ciò che non si fece, e che il Mozambico pagò con un milione di
morti. Certo la guerra ebbe molte altre motivazioni, e fu soprattutto scatenata
a partire dal Sudafrica dell’apartheid e appoggiata dagli Stati Uniti dietro di
esso, ma la cecità illuminista contribuì
ad accenderla e a prolungarla.
Dicembre
1978
Forse,
citando alcuni brani degli articoli e delle interviste riportati dal
quotidiano Noticias riuscirò a dare un’idea più chiara della situazione da cui
deve partire la lotta per l’emancipazione della donna qui in Mozambico e delle
difficoltà di inserimento in essa di “temi occidentali”.
Per quanto
riguarda i riti di iniziazione femminili, una pratica assai diffusa consiste
nello stiramento (il verbo usato é: esticar)
del clitoride. In questo caso si tratta di un training imposto alla bambina sin
da piccola. Riporto testualmente la testimonianza di una donna di Mafalala,
quartiere periferico di Maputo, citata da Noticias
(20 giugno 1978) .
“ Io sono
di Chibuto e quando ero bambina mi hanno insegnato a tirare il clitoride fino a
farlo diventare più o meno come una penna biro Bic. Bisogna farlo per ottenere
maggiore piacere sessuale...Se non lo si fa, l’uomo ci lascia e va in cerca di un’altra donna migliore di
noi. Mia figlia ha 12
anni e sin da quando era molto piccola le insegno a prepararsi al matrimonio”.
Accanto ad
una frase come quella relativa al maggior piacere sessuale che, a prescindere
dal contesto comunque costrittivo in cui
si attua la pratica, potrebbe far pensare ad una consapevolezza del diritto legittimo
a godere del proprio corpo, viene subito una frase che smentisce questa
interpretazione “progressista”: altrimenti l’uomo ci lascia e va in cerca di
un’altra.
Riporto
ancora dallo stesso articolo: “ Questo problema (lo stiramento del clitoride
come pratica iniziatica) ha provocato attriti tra le donne, non solo nel
quartiere di Mafalala, ma anche in altri quartieri della capitale. Abbiamo
parlato con una donna che ha il marito che si è preso una donna con un
clitoride prolungato. Ci ha detto: “Mio marito ha per amante una di queste
donne di Gaza[6],
che ci rubano i nostri mariti perchè affermano di essere meglio di noi”. Ove si
nota, invece che la consapevolezza rispetto al proprio corpo, l’uso di esso in
funzione del piacere maschile e la rivalità tra donne, tra le più “apprezzate”
e le “altre”.
In Mozambico
non esistono nè l’ablazione del clitoride né l’infibulazione, ma la
valorizzazione per così dire dell’organo sessuale del piacere femminile si
traduce in realtà in umiliazione e mortificazione della donna in quanto
persona. Inoltre si verifica la contrapposizione tra le donne “di piacere” e le
donne di fatica, le produttrici, che forniscono forza lavoro gratis. Nei
confronti di queste pratiche che, si noti, sono ancora tabù nel modo più
rigoroso per chi le coltiva, l’atteggiamento del giornale è stato coraggioso:
pubblicizzandole e smascherandone il senso ha suscitato molte reazioni, anche
proteste vivaci, perchè ne ha messo in evidenza il carattere afflittivo nei
confronti della donna e il significato reazionario....(altro taglio
irrecuperabile).
....La
poligamia, dicevo, è ancora diffusa, né potrebbe essere altrimenti, dato che la
donna era in epoca coloniale un mezzo di produzione come un altro, che si
comprava, e anche questa pratica è dura a scomparire [7].
In fondo, sono solo 3 anni di indipendenza.
Così si esprime un vecchio di Mapulanguene, nel distretto di Magude, a
100 km da Maputo: “ E’ molto tempo che ho pagato il lobolo[8]
per mia moglie. Oggi lei è vecchia, ma chissà se i buoi staranno ancora a casa
a lavorare nella casa dei suoi genitori?. E un altro, un padre: “Noi ci
preoccupiamo che ci rimanga qualcosa in casa in cambio di nostra figlia. Se no,
l’uomo se la porta via, per guadagnarci, ed io rimango senza niente” (Noticias,
7 luglio 1978).
La
poligamia era un modo per affermare la propria ricchezza, per non lavorare in
prima persona: le bestie da soma erano le donne[9].
Ed era incoraggiata dal regime coloniale come elemento di conservazione
dell’esistente. In tale contesto, come stupirsi se nei discorsi ufficiali, nella linea del
partito e nella testa dei militanti , la famiglia monogamica, la
regolarizzazione di un rapporto, l’eliminazione del cosiddetto libertinaggio
sessuale diventano obiettivi rivoluzionari?
Un ultimo
accenno all’autonomia delle donne prima di terminare. In Mozambico la linea che
conduce alla emancipazione della donna “deve
essere tracciata da una organizzazione
politica rivoluzionaria che, assumendo la totalità degli interessi delle
masse popolari sfruttate le guidi nella battaglia contro la vecchia società”
(Samora Machel, Discorso introduttivo
alla prima conferenza della O.M.M., 1973). E ancora si ribadisce che “ la
donna per liberarsi deve assumere e vivere creativamente la linea politica
della Frelimo (ibid.)
Difficile da accettare, per noi come femministe di oggi. Ma
se pensiamo alla condizione di degradazione in cui vive la maggioranza delle
donne, al fatto che queste parole furono pronunciate in un contesto di dura
battaglia all’interno della stessa Frelimo, dove nel 1973 c’era
chi pensava che la questione della emancipazione della donna fosse di
secondaria importanza rispetto alla priorità della lotta contro i portoghesi,
se si pensa che la Frelimo condusse
una strenua lotta per l’unità di tutti gli sfruttati contro le divisioni
interne al fronte di classe (e quindi tra uomini e donne), con quali
argomentazioni si può criticare quella che ai nostri occhi non può che apparire
“mancanza di autonomia”? … ( nuovo taglio
della redazione …..)
Giugno 2013
Qui terminava l’articolo, o meglio, il mio testo
originale continuava con commenti e parole che non saprei certo ritrovare.
Mi pesa oggi l’astrale distanza da quei dilemmi e quelle
tematiche, da quelle battaglie così lontane, mi pesa la constatazione di un
abisso incolmabile tra quelle aspirazioni e speranze, tra quella tensione
tenace che vedeva aperta una via maestra verso il miglioramento delle
condizioni di vita e la realizzazione di conquiste sociali collettive e la
realtà di oggi, in cui siamo rattrappite in una posizione difensiva . Si lotta
contro il femminicidio, contro il mobbing, contro la discriminazione di genere,
contro lo strapotere maschile in tutti i campi che contano: tutte lotte contro
e non lotte per: per la libera espressione di sé, della propria vita, della
propria sessualità, per l’autodeterminazione del rapporto con figli e partner,
per una vita felice, per la libertà dal
bisogno, per la liberazione dal patriarcato ancora trionfante. Si lotta per non
morire di violenza o di depressione. O di fame.
La speranza è un pertugio stretto, da scavare intorno perché
resti aperto, da forzare con il fiato
che ci resta.
[1] Sono le gonne fatte di
teli colorati, che oggi si chiamano “pareo”, che servono anche per reggere i
bambini sulla schiena, per difendersi dal freddo, o anche come coperte.
[2] A Maputo si chiamano “acacias
vermelhas”, acacie rosse.
[3] Il centro commerciale
delle città portoghesi, e di colonizzazione portoghese.
[5] La cause des armes au
Mozambique. Anthropologie d’une guerre civile. CREDU-Karthala, Paris-Nairobi, 1990
[6] Una Provincia confinante
con quella di Maputo.
[7] Purtroppo ancora oggi dopo
35 anni la poligamia è assai diffusa.
[8] Il prezzo della donna
pagato ai genitori della sposa.
[9] Non so quanto sia cambiata
la situazione oggi, ma una mia visita nelle zone rurali mozambicane nel 2010
non mi suggerisce ottimismo.
grazie grazie, sempre precisa, pungente, efficace...mi viene da dire "ne voglio ancora"...un abbraccio!!!
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