CATASTROFE E
SPERANZA: LA DOTTRINA QABBALISTICA DELLA ROTTURA DEI VASI E IL TIQQÙN
(Qabbalà di Luria)
Haggadah
Dal mare magnum della mia ignoranza dell’ebraismo - e direi
sostanziale estraneità dovuta a interessi culturali spesso lontani da esso oltre
che a un multiculturalismo acquisito – emerge una sola isola: l’attrazione
intellettuale verso quelle che Gershom Scholem, grande figura di dotto e
pensatore ebreo laico, amico di Walter Benjamin, chiama: “le grandi correnti della
mistica ebraica”, in un libro prezioso che reca questo titolo.
Si tratta di una ricostruzione particolareggiata e
storicamente contestualizzata della mistica ebraica attraverso due millenni,
all’interno della quale trova il suo posto la tradizione Qabbalistica nelle sue
varie manifestazioni, dai suoi esordi medievali fino al 1900. Giustamente lo
Scholem storicista ci dice da subito che “la mistica ebraica, non diversamente
da quella greca o cristiana, è un insieme di fenomeni storici determinati,
concreti”. E, più avanti, precisa che la mistica (di qualsiasi religione) si
manifesta generalmente in determinati momenti della storia religiosa: non
quando, ai primordi della storia umana, è diffusa la credenza che tutto il
mondo è divino, animato, e si vive in una specie di beata identificazione con
esso; non nel momento in cui si crea una religione e si spalanca l’abisso tra
la creatura e la trascendenza, la voragine dell’assoluto; ma in un terzo tempo,
che Scholem chiama la fase “romantica” della storia religiosa. Il mistico
sprofonda lo sguardo nell’abisso dell’assoluto e dalla coscienza di esso cerca
una via che lo superi. Di qui l’estasi e il perdersi del mistico nella
contemplazione dell’essere in cui annega e si annulla come individualità. E se la mistica nasce quindi dalla percezione
di una frattura esistenziale per così dire congenita, congiunture storiche particolarmente
difficili non faranno che stimolare ancor più l’elaborazione di teorie che
nella loro astrattezza apparente e con un linguaggio perennemente assalito
dall’insidia dell’indicibilità, dalla sfida di rendere effabile l’ineffabile,
sono sotterraneamente permeate della proiezione di realtà vissute ma sublimate.
Nella mistica ebraica è presente una particolarità, oltre ovviamente alle
caratteristiche peculiari della religione da cui trae forza e ispirazione, e
cioè sono assenti le donne, protagoniste invece nel cristianesimo: pensiamo a
Caterina da Siena o a Teresa de Ávila, ma anche a John Donne (penso ai suoi love poems e alla figura dell'amata che partecipa alle estasi durante le quali le anime dei due amanti "escono" dalle loro gabbie di carne e comunicano mentre i loro corpi giacciono immobili come "statue sepolcrali"per l'intero giorno).
Il termine “Qabbalà significa letteralmente “tradizione” ed
è un movimento religioso interno all’ebraismo in cui differenti scuole e
individualità sono tutte caratterizzate da un’ispirazione profondamente
mistica. La mistica ebraica nasce in
Palestina nel primo secolo dopo Cristo, in ristretti circoli esoterici, ed
evolve nei secoli successivi in centri geografici diversi a seconda delle
migrazioni e delle peripezie delle popolazioni ebree e dei dotti pensatori nel
loro seno. Le visioni della Merkavà[1],
il carro col trono divino, le elucubrazioni intorno alle Sefiròth, i dieci
numeri primordiali e le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico che
costituiscono gli elementi primordiali del mondo, l’apparizione nel cuore della
Castiglia del libro dello splendore, lo “Zohar”, sono altrettante tappe storiche
e spirituali affascinanti della storia della mistica ebraica.
Ma la dottrina qabbalistica cui vorrei qui accennare
appartiene a un periodo molto particolare: mi sembra che i concetti ivi
contenuti, la visione che vi si dispiega, abbiano una valenza universale e
senza tempo, e possano illuminare ogni presente storico.
Mi riferisco alla Qabbalà di Yitzchàq Luria, che si sviluppò
in seguito a una svolta particolarmente drammatica della storia ebraica: la
cacciata dalla patria iberica nel 1492 da parte dei re cattolici, l’esperienza
dura dell’esilio e della dispersione in mille rivoli geografici e di
conseguenza culturali. La catastrofe contribuì, spiega Gershom Scholem, a una
trasformazione della “vecchia” Qabbalà, che non aveva mai travalicato l’ambito
angusto di aristocratiche cotéries e aveva rivolto la meditazione soprattutto ai
misteri dell’origine, della divinità creatrice, e non si era soffermata sulla “fine” della storia umana e universale messianica e
apocalittica. Vigeva semmai la convinzione di una via individuale alla
redenzione e alla salvezza come un percorso solitario.
La catastrofe dell’esodo e la cesura con il proprio mondo invece provocò, nel secolo successivo, un ribaltamento nella tensione mistica che diventò bisogno di proiezione in un futuro possibile anche se metastorico di riscatto, che superava l’ambito delle singole individualità e si traduceva in anelito di rinnovamento sociale. “Per i nuovi cabalisti “principio” e “fine” del processo cosmico sono strettamente connessi……e la dottrina messianica…diviene per un certo tempo oggetto di una propaganda attiva e aggressiva”[2]. L’esperienza dell’esilio e della fine di tutto un mondo vissuto per secoli provoca di riflesso in questa umanità ferita la messa in circolo di fermenti spirituali e culturali prima limitati ad ambiti privilegiati e lontani dal sociale, e induce una trasformazione della tradizione mistica: il punto di rottura costituito dall’esilio non è più un evento congiunturale ma assume una valenza di catastrofe cosmologica insita nella storia umana e transumana, ed esige un orizzonte di rinascita e salvezza dall’abisso, una parusia. “Un’esistenza assolutamente priva di patria diviene ora un simbolo lugubre di un mondo abbandonato da Dio” (ibid, p. 262), cui non ci si vuole rassegnare.
La catastrofe dell’esodo e la cesura con il proprio mondo invece provocò, nel secolo successivo, un ribaltamento nella tensione mistica che diventò bisogno di proiezione in un futuro possibile anche se metastorico di riscatto, che superava l’ambito delle singole individualità e si traduceva in anelito di rinnovamento sociale. “Per i nuovi cabalisti “principio” e “fine” del processo cosmico sono strettamente connessi……e la dottrina messianica…diviene per un certo tempo oggetto di una propaganda attiva e aggressiva”[2]. L’esperienza dell’esilio e della fine di tutto un mondo vissuto per secoli provoca di riflesso in questa umanità ferita la messa in circolo di fermenti spirituali e culturali prima limitati ad ambiti privilegiati e lontani dal sociale, e induce una trasformazione della tradizione mistica: il punto di rottura costituito dall’esilio non è più un evento congiunturale ma assume una valenza di catastrofe cosmologica insita nella storia umana e transumana, ed esige un orizzonte di rinascita e salvezza dall’abisso, una parusia. “Un’esistenza assolutamente priva di patria diviene ora un simbolo lugubre di un mondo abbandonato da Dio” (ibid, p. 262), cui non ci si vuole rassegnare.
In tale contesto nasce la Qabbalà di Y. Luria, “acceso
visionario”, morto nel 1572 a soli 38 anni a Safed, città santa della Galilea,
che ancora oggi conserva un'atmosfera avulsa dalla mondanità e trabocca di yeshiva (scuole di dottrina ebraica per religiosi
ortodossi). Luria non lasciò scritti e la diffusione del suo pensiero e delle sue
visioni spettò ai suoi discepoli. Trovo molto bella una frase che secondo quanto tramandato proferì in risposta a chi gli sollecitava una sistematizzazione
scritta dei suoi insegnamenti: “Non è possibile, perché ogni cosa è connessa con
l’altra. Appena apro la bocca per dire una cosa, è come se si aprissero le
dighe del mare ed esso traboccasse…” (ibid. p.265).
All’origine della sua visione c’è la dottrina dello
Tzimtzùm, letteralmente “concentrazione” o “contrazione”, ci dice Scholem, ma
da intendersi meglio come “ritiro” o “ritorno”. Luria parte da un’idea
talmudica[3]
ma la trasforma: la sacra presenza di Dio, la Shekhinà,onnipresente, non si contrae in un
solo punto, ma si ritira fuori da ogni luogo per rendere possibile l’esistenza
dell’universo, dato che altrimenti il suo Essere avrebbe permeato ogni cosa; l’En-Sof,
il suo essere infinito, sprofonda in se stesso e si “esilia”. Si può
considerare una metafora della creazione dal nulla. Ma un residuo della luce
divina rimane anche dopo tale contrazione, e un secondo raggio proveniente dall’essenza
dell’En-Sof “provoca in questo caos il processo cosmico…”(ibid.p.273) e un ritmo di flusso e riflusso, un alternarsi
di contrazione ed espansione, che rende possibile la creazione, grazie a tale
ritmo del respiro divino (ibid.).[4]
Se si pensa al modello standard del Big Bang e alle attuali teorie di un'universo in espansione costante, questa metafora di Luria non può non apparire un'intuizione preveggente quali solo i geni visionari possono avere.
Accanto a tale concezione del processo della creazione,
Luria colloca altri due importanti capisaldi del suo pensiero: la dottrina
della rottura dei vasi e del Tiqqùn.
Il primo prodotto della luce divina nello spazio primordiale è un essere anch’esso primordiale, Adam Qadmòn, dalla cui bocca, dal cui naso e orecchie irrompono le luci potenti delle Sephirot, gli elementi primordiali, con tale volenza che i recipienti creati per raccogliere quelle luci e conservarle non reggono l’impeto e si rompono in frammenti. Tralascio le origini della leggenda della “rottura dei vasi”, che non è un'invenzione di Luria ma deriva da un racconto della riflessione mistica anteriore, nel quale si narra della distruzione di mondi precedenti quello attuale. Ma nella elaborazione di Luria la rottura dei recipienti è provocata dalle forze del male che si erano mescolate con le luci delle Sephiroth.
E qui nasce il problema dell’origine del male, l’interrogazione che assilla qualsiasi religione (e non solo la religione). Alcuni cabalisti successivi sentenziano che è connessa con le leggi del mondo organico. Secondo Luria comunque questo è “l’evento decisivo del processo cosmico” (ibid., p. 277). Ecco che "il male" della cacciata dalla patria sefardita si raccorda a un cataclisma universale, un marchio della storia del cosmo ma anche della storia umana. A causa di tale frattura originaria, tutte le cose del mondo recano impressa in sé un’incrinatura, un difetto congenito, un "male" che però non può né deve restare destino e maledizione perenne. La rovina della compagine del mondo creato e quindi storico può e deve poter trovare una via di redenzione. E se nel cristianesimo tale via di riscatto è operata da un uomo-dio, nell'ebraismo la possibilità di recupero dell'armonia primitiva come termine ad quem è concepito come un processo di direzione contraria all'evento distruttivo affidato agli esseri creati: il compito dell' umanità è quello di riparare quanto è stato danneggiato e redimerlo, ristabilendo l’armonia delle origini.
E’ questo il Tiqqùn, dovere mistico ma anche traducibile storicamente come opera sociale, culturale e spirituale di ricomposizione dei frammenti del mondo, missione presumibilmente interminabile. Gershom Scholem ci dice che “il processo col quale Dio concepisce, genera e sviluppa Se stesso non si compie solamente in Lui; in parte il processo di restituzione è anche compito dell’uomo” (ibid., p. 282).
Il primo prodotto della luce divina nello spazio primordiale è un essere anch’esso primordiale, Adam Qadmòn, dalla cui bocca, dal cui naso e orecchie irrompono le luci potenti delle Sephirot, gli elementi primordiali, con tale volenza che i recipienti creati per raccogliere quelle luci e conservarle non reggono l’impeto e si rompono in frammenti. Tralascio le origini della leggenda della “rottura dei vasi”, che non è un'invenzione di Luria ma deriva da un racconto della riflessione mistica anteriore, nel quale si narra della distruzione di mondi precedenti quello attuale. Ma nella elaborazione di Luria la rottura dei recipienti è provocata dalle forze del male che si erano mescolate con le luci delle Sephiroth.
E qui nasce il problema dell’origine del male, l’interrogazione che assilla qualsiasi religione (e non solo la religione). Alcuni cabalisti successivi sentenziano che è connessa con le leggi del mondo organico. Secondo Luria comunque questo è “l’evento decisivo del processo cosmico” (ibid., p. 277). Ecco che "il male" della cacciata dalla patria sefardita si raccorda a un cataclisma universale, un marchio della storia del cosmo ma anche della storia umana. A causa di tale frattura originaria, tutte le cose del mondo recano impressa in sé un’incrinatura, un difetto congenito, un "male" che però non può né deve restare destino e maledizione perenne. La rovina della compagine del mondo creato e quindi storico può e deve poter trovare una via di redenzione. E se nel cristianesimo tale via di riscatto è operata da un uomo-dio, nell'ebraismo la possibilità di recupero dell'armonia primitiva come termine ad quem è concepito come un processo di direzione contraria all'evento distruttivo affidato agli esseri creati: il compito dell' umanità è quello di riparare quanto è stato danneggiato e redimerlo, ristabilendo l’armonia delle origini.
E’ questo il Tiqqùn, dovere mistico ma anche traducibile storicamente come opera sociale, culturale e spirituale di ricomposizione dei frammenti del mondo, missione presumibilmente interminabile. Gershom Scholem ci dice che “il processo col quale Dio concepisce, genera e sviluppa Se stesso non si compie solamente in Lui; in parte il processo di restituzione è anche compito dell’uomo” (ibid., p. 282).
In questa metafora che da anni mi affascina e cui ritorno
spesso mentalmente leggo anche, storicamente, tutta la distanza infinita che
separa le creazioni altissime della spiritualità ebraica del passato dall'angosciosa realtà del presente, la lontananza dall'ebraismo di uno Stato che si arroga e usurpa il diritto
di rappresentare gli ebrei di tutto il mondo, negando ad ogni istante nelle
sue politiche etnocide e omicide la mitezza e lo splendore di una tradizione
millenaria e contribuisce a perpetuare l'ancestrale rottura dei vasi cosmici.
[1] Il
Ministero della Difesa israeliano ha avuto il buon gusto di chiamare Merkavà
dei mostruosi carri armati.
[2] Gershom
Scholem. Le grandi correnti della mistica
ebraica. Einaudi 1993, p.259
[3] Talmud,
testo sacro dell’ebraismo. Il termine significa: insegnamento.
[4] Mi viene
in mente l’atman brahman vedico: atman come anima individuale e brahman anima
universale: “atmen” in tedesco significa repirare, la radice
ovviamente è sanscrita.