WHAT’S THE NEWS? HABARI NZURI? MA HIYA
L-AHBAR?[1]
Io non so come si combatterà la terza guerra mondiale, ma so che la quarta si combatterà con pietre e bastoni (Albert Einstein)
Per molti anni ho avuto, e ancora soffro di recidive, la
maledetta abitudine non solo di ritagliare articoli di giornale che ritenevo
degni di nota e di essere riletti o citati in qualche scritto ma anche di
accatastare in pile più o meno ordinate numeri interi di quotidiani, rassegne
settimanali, riviste. Abitudine rovinosa vorace di spazio, soprattutto se si
hanno a disposizione meno di 50 mq di appartamento. E forse anche abitudine
insana per la quantità immane di polvere che si deposita sulle pagine sempre
più gialle. Però serve, e lo noto con compiacimento quando tento, quasi sempre
senza esiti decisivi, di disfarmi delle pile oscenamente velate di sporcizia.
Infatti mi soffermo a rileggere almeno i titoli, spesso gli articoli
sottostanti, e constato che i problemi e gli interrogativi variano molto meno
di quanto si possa sospettare, grattando mentalmente sotto i nomi e la cronaca
più immediata. Quindi spesso ricompongo la pila solo un po’ più bassa.
Ieri sera in particolare cercavo disperatamente un libro,
finalmente localizzato, e ho avuto occasione, ancora una volta compagni (si
diceva spesso davanti alle fabbriche nel 1968 dopo le rappresaglie dei padroni),
che la terra gira e non gira, e non c’è bisogno di scomodare gli storici della
Roma antica. Ecco una rassegna di vecchi-nuovi scenari spigolati dalla mia
emeroteca. Non vado molto addietro; quella prima pila disfatta e in parte
ricomposta risale al massimo al 1999.
Apro Solidarietà
Internazionale (rivista) del settembre-ottobre 2001. In una delle pagine
centrali c’è un articolo di Riccardo Petrella, economista politico, già
professore all’Università di Lovanio, autore di innumerevoli libri e articoli,
collaboratore storico di Le Monde
Diplomatique. Titolo: “E lo chiamano
sviluppo”: in tre colonne dipinge un
quadro sconfortante dell’aumento impressionante delle diseguaglianze globali
non solo in termini di ricchezza ma “in tutti i campi” tra il 1950 e il 1999, sia
tra paesi ricchi e poveri, sia al loro interno tra classi sociali agiate e
deprivate. In questi 49 anni,” il divario tra il quinto più ricco della
popolazione mondiale e quello più povero è saltato da 30 a 72 punti, e la
crescita (del divario) è stata più forte a partire dagli anni ’80.”[2]
Più avanti, tocca un altro punto dolente: le emissioni di gas serra e il
riscaldamento globale (ormai, tutto globale!!).
Leggo: “la stragrande maggioranza degli scienziati ha ammesso che per
combattere efficacemente i processi di riscaldamento globale dell’atmosfera nei
prossimi cinquanta anni è necessario ridurre nei prossimi venti anni (corsivo mio) le emissioni di gas che intaccano
lo strato di ozono del 60% rispetto al livello delle emissioni del 1992”. Ma
dopo il debolissimo accordo di Kyoto del 1997 e il successivo rigetto dello
stesso da parte del geniale George W. Bush appena eletto, “un nuovo accordo
redatto a Bonn nel novembre 2000 ha stipulato un aumento…delle emissioni dello
0,3% nei prossimi 15 anni”. Gli allora prossimi quindici anni ci portano dritti
alla storica COP 21 del dicembre 2015 a Parigi e alla più recente COP 22 di
Marrakech, che non ha costituito un gran progresso rispetto al consenso di
Parigi.
Se in un articolo del 2001 si affermava che era necessario
tagliare le emissioni del 60% rispetto al 1992, quindi dal 2000 al 2020 (i
prossimi venti anni di allora dei quali sedici sono ormai alle nostre spalle),
e a Marrakech ci si è accordati per stabilire le regole per l’applicazione
dell’accordo COP 21 entro il 2018, che possiamo pensare? Che ciò che era
urgente più di tre lustri fa non sia più urgente oggi, quando l’Artico si
scioglie come burro? Il sito del 10 dicembre 2016 di Repubblica, sezione Ambiente, titola: “Orsi polari, ridotti di un
terzo in 35 anni"..Inoltre notiamo che dal
1992 ad oggi le emissioni sono aumentate del 48%, (http://www.alessandrobratti.it/blog-ambiente/2066-l-accordo-di-parigi-in-10-punti-analisi-e-commento-del-testo.html),
altro che diminuire, e l’accordo di Parigi diventerà operativo a partire dal 2020.
Prendiamocela comoda e speriamo nei miracoli per le future generazioni. E
se i più rigorosi si augurano che sia possibile raggiungere il picco delle
emissioni nel 2020, (http://www.greenreport.it/news/clima/riscaldamento-globale-iea-raggiungere-il-picco-delle-emissioni-entro-il-2020-e-possibile/),
constatiamo che non esistono vincoli; non oltre il 2030, in ogni caso, suggerisce
soave la Cina, che ovviamente non ha problemi di inquinamento atmosferico. Da
qui all’eternità.
Quanto alle “diseguaglianze globali”, ci si può sbizzarrire tra
le migliaia di fonti multilingue che attestano che, se si erano accentuate a
partire dal 1980, dopo il 2000 hanno preso la rincorsa e sono schizzate a
freccia. Non è facile districarsi tra differenze di reddito, di ricchezza, di
livelli educativi o di aspettative di vita, all’interno dei singoli paesi o per
aree regionali, tra i vari indici usati per misurare le disparità, tra misure
relative o assolute. In uno dei websites scorsi (http://inequality.org/global-inequality/) si
riporta un grafico a barre abbastanza eloquente che si riferisce agli scarti
tra percentuali di popolazione mondiale e percentuali di ricchezza posseduta,
che riporto qui sotto:
Popolazione globale adulta e percentuale di ricchezza globale per gruppo omogeneo di reddito
(in blu la popolazione, in rosa la ricchezza)
Jason Hickel, citando
le statistiche di Oxfam, ci ricorda su The
Guardian dell’8 aprile 2016 che “le disuguaglianze globali potrebbero
essere molto peggiori di quanto pensiamo”, poiché i dati citati dalla ONG
inglese non includono le immani ricchezze occulte sottratte alla scure della
tassazione e a occhi indiscreti nei paradisi fiscali che nessun governo disturberà
né oggi né nel prevedibile futuro, e forse oltre[3].
In passato molte proposte di tassare le transazioni finanziari realizzate “alla
velocità della luce”[4]
(Tobin tax, Spahn tax, imposte di solidarietà per finanziare lo sviluppo, e
altre) sono naufragate e nel 2008 il salvataggio del sistema finanziario negli
USA è costato 700 miliardi di dollari (www.patriziatoia.info).
Nel 2012 il Parlamento Europeo ha approvato l’introduzione per il 2014 di una
tassa di 0,1% su obbligazioni e azioni e di 0,01% sui derivati, dalla quale
sono esenti i fondi pensione.
Dobbiamo ancora vederne i benefici, mi pare; le
accuse di evasione fiscale di colossi come Google e Amazon sono recenti.
Povertà delle casse pubbliche, opulenza privata. Il New York Times di oggi 10 dicembre 2016: “Come il Twinkie ha reso i super-ricchi anche più ricchi” (http://www.nytimes.com/2016/12/10/business/dealbook/how-the-twinkie-made-the-super-rich-even-richer.html). Pare che il
twinkie sia un dolcetto confezionato.
Per l’Italia il rapporto Istat 2016 ci
dice che dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali è caduto di più per le
famiglie appartenenti al 20% più povero, mentre gli introiti del 20% più ricco
passano da 4,6 a 4,9 volte quelli del quintile più povero (Il Manifesto, 7 dicembre 2016).
Groznyj prima della ricostruzione
Scuoto la polvere da un altro giornale: un editoriale di Le Monde citato dal Guardian Weekly del 2-9 gennaio 2002 titola: “Turning a blind eye to Russia’s terrorist acts in Chechnya” (Si
chiudono gli occhi sugli atti di terrorismo della Russia in Cecenia”).
L’editoriale sottolinea il tempismo e l’opportunismo dell’inossidabile Putin,
il primo a esprimere solidarietà e appoggio a Bush subito dopo l’attentato
dell’11 settembre 2001; il neozar ne ricavò un via libera alla repressione e al
terrorismo di stato contro gli oppositori ceceni fino alla “vittoria” nel 2009,
quando fu dichiarata la fine delle operazioni militari russe e la Cecenia fu
lasciata nelle mani di un democratico come Kadyrov, il probabile mandante
dell’assassinio della giornalista russa Anna Politkovskaya e di parecchi altri
seccatori che lo accusavano di torture e abusi.[5]
La mente di chi legge tali righe oggi non può non correre immediatamente alle
immagini delle macerie di Aleppo, e non solo Aleppo, ai bombardamenti russi e
del regime di Damasco su quartieri abitati da civili, su ospedali e scuole, ai
bombardamenti targati US di comitive dirette a matrimoni o agli stessi festeggiamenti
di sponsali in Afghanistan, Pakistan, Yemen, alle vittime per sbaglio che
ammontano a migliaia ormai, alle stragi in Darfur e in Nubia di cui non si
occupa quasi nessuno. Atti di terrorismo
di stati sovrani con licenza di uccidere ovunque impunemente. Basta che lo
facciano con discrezione e furbizia. Annientare Groznyj ieri e oggi Aleppo,
cancellare la vita, il vissuto e la
storia nella carne degli abitanti e nei monumenti per fare posto a un’altra
storia. I villaggi poi non compaiono né sulle carte geografiche né su Google
maps. Post-storia??
Concludo con tre brevi cenni ad altrettanti bubboni ancora
attualissimi.
1.
Una pagina del Manifesto del 2 febbraio 2002 ha
questo titolo: “Enron-gate, il
capitalismo texano”. L’articolo di Marco d’Eramo illustrava uno dei tornanti
più significativi della recente epopea ingloriosa del finanzcapitalismo, come
lo chiama Luciano Gallino in uno splendido libro del 2011. Quello della Enron
fu il fallimento colossale di una balena finanziaria cresciuta con la
deregulation del mercato dell’energia favorita (comprata?) all’ombra di Bush
figlio. Gonfia di capitali e crediti virtuali, i famosi futures[6],
nel dicembre 2001 dichiarò bancarotta, lasciando sul lastrico 4000 dipendenti,
mentre per tutto il 2001 i dirigenti, consapevoli dell’inizio della fine, si
erano premurati di vendere il vendibile e mettere in salvo centinaia di milioni
di dollari. Tutto ciò non ha insegnato molto, vista la crisi dei subprime del
2007, il salvataggio statale delle entità troppo grandi per fallire e l’assenza
a tutt’oggi di regolamentazione dei mercati finanziari, con il risultato di
un’altra crisi attuale delle banche a livello internazionale, e in particolare
italiane: banche che traballano per le speculazioni finanziarie e i crediti
inesigibili. Senza fare nomi.
2.
Titolo di un articolo di spalla del Weekly Guardian del 20 dicembre 2001: “Arafat plea answered by killing of militant” (L’appello di
Arafat ha per risposta l’uccisione di un militante). Molte volte nell’ultimo
scorcio degli anni ’90 questa fu la risposta di Israele alle timide avances dell’Autorità Palestinese ancora incarnata da Arafat: una tregua
negli scontri che lasciava sperare in un progresso nelle trattative era rotta
da aggressioni cruente del potere israeliano. Ricordo bene quello che fu
l’ultimo discorso al mondo di Arafat dal suo rifugio assediato della Mukata, un
discorso accorato, così conciliante che mi sembrò servile, esageratamente umile
nei confronti di uno Sharon arrogante e implacabile. Ero a Peshawar, nord-est
del Pakistan, seduta sul tappeto di una camera d’albergo, soddisfatta di avere
convinto il cameriere a servirmi della birra in camera la sera con la cena,
birra che arrivava ben occultata avvolta in un ampio tovagliolo. Quell’appello
era stato seguito non solo dall’assassinio (termine usato dal giornale) di un
militante di Hamas, ma anche dall’uccisione di un ragazzo palestinese di 12
anni e di un poliziotto, dell’ANP. Guardare oggi alla Palestina, a Israele e
alla situazione del Medio Oriente dà allo stomaco.
3. Sulla
copertina di Internazionale del 26
aprile-2 maggio 2002 campeggia il profilo di un uomo attempato con le labbra
dischiuse e il sottogola strozzato dal colletto bianco rigido. Scritta a
caratteri cubitali: “PAURA DI LE PEN”
Titolo gridato che molto probabilmente echeggerà nella prossima primavera 2017.
Come concludere? Con l’Ecclesiaste del niente di nuovo sotto
il sole? Che banalità. Però…forse
potremo pretendere che invece di guardare sempre e (quasi) soltanto alle prossime
“scadenze” politiche elettorali pensando alla loro rielezione, ai prossimi vertici
inconcludenti, alle conferenze internazionali, ai G7 o G20, a risoluzioni che
valgono come carta straccia, eccetera, gli eletti e i nominati dei vari Governi
e istanze internazionali si occupino più seriamente di affrontare almeno alcuni dei
problemi di fondo dell’umanità che abita quest’orbe terraqueo.
(**) L0ltima ora di Venezia di Arnaldo Fusinato, 1849. Venezia è assediata dagli austriaci.
https://it.wikisource.org/wiki/L%27ultima_ora_di_Venezia#pagename128
[1] “Che
novità” in inglese, in kiswahili e in arabo. In kiswahili la frase che ricordo
suona: buone notizie? Si noti la radice araba della parole "notizie” in kiswhili.
[2] Solidarietà Internazionale,
sett.-ottobre 2001, p.25.
[3]
https://www.theguardian.com/global-development-professionals-network/2016/apr/08/global-inequality-may-be-much-worse-than-we-think
[4] Inserto
“Science et Medicine” di Le Monde, 27
maggio 2015
[6] I Futures sono contratti finanziari che
obbligano il compratore a comprare una data merce o attività (o il venditore a
venderla) ad un dato prezzo prefissato ad una determinata scadenza futura.
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