O CHIBALO RACCONTATO
DA CHI LO VISSE *
Da sinistra: la signora Delfina, la signora Marta, e ....?
Dal 1980 al 1982 ho lavorato in Mozambico, allora Repubblica
Popolare, presso la Direzione Nazionale dell’Alfabetizzazione e dell’Educazione
degli Adulti nell’équipe incaricata di elaborare dei nuovi libri per l’apprendimento
della lingua e dell’aritmetica durante i primi due anni di alfabetizzazione. Così,
una volta delineati contenuti e sequenza, li sperimentammo sul campo chiamando
da ognuna delle dieci province mozambicane due analfabeti, un uomo e una donna,
per seguire lungo alcuni mesi i loro processi cognitivi e dedurne eventuali correzioni
da apportare ai testi e alla metodologia scelta.
Il corso si svolse in un villaggio attrezzato per
accoglierli, Michafutene, non distante da Maputo; il nostro gruppo vi si recava
ogni mattina e vi passava di fatto la giornata. Fu per me un’esperienza molto
significativa: erano persone che avevano vissuto durante il periodo coloniale
innumerevoli traversie, erano poverissimi contadini e parlavano molto poco o
affatto il portoghese. Ricordo che il collega mozambicano dell’équipe, più
addentro di noi stranieri alle fasi di preparazione della selezione e poi dei
viaggi dei prescelti, ci disse che alcuni non avevano letteralmente nulla da
indossare se non degli stracci che usavano abitualmente per coltivare i loro
campi e che la comunità aveva dovuto provvedere con degli abiti acquistati per
il viaggio e il soggiorno. Tuttavia, durante i mesi del corso, svilupparono
tutti la capacità di comunicare tra di loro e con noi oralmente in un portoghese
scarno ma comprensibile. Il portoghese era ed è la lingua ufficiale nazionale, ma
per loro rappresentava una vera e propria lingua straniera. Eppure, era l’unico
mezzo di comunicazione reciproca, dato che in ogni area del Mozambico si parlano
lingue autoctone diverse. Verso la fine del corso, dopo che essi avevano
acquistato una certa dimestichezza nell’esprimersi, decisi di discutere con chi
accettasse di farlo le loro esperienze, personali e familiari, su uno dei
capitoli più dolorosi del colonialismo portoghese: il lavoro forzato “chibalo”
Ho fortunosamente ritrovato la cassetta che avevo registrato
l’8 giugno del 1982 sotto gli alberi di Michafutene; con l’aiuto di una collega
ricordavo di averla già sbobinata e interamente trascritta, ma non sono
riuscita a ritrovare quei preziosi fogli, almeno finora. L’ho quindi
riascoltata e ho preso alcuni appunti. In particolare, il racconto di una
donna, la signora Delfina, non mi si era mai cancellato dalla mente, tanto mi
aveva impressionato. Ora che, dopo quasi 34 anni, tutto è cambiato, anche in
Mozambico, e quella generazione che visse il lavoro chibalo in prima persona è
quasi estinta, credo sia utile ripresentare quei racconti, che anche in forma
monca sono potenti evocazioni di un passato storico recente troppo poco
studiato se non in nicchie di addetti ai lavori e poco conosciuto al giorno
d’oggi, anche tra l’opinione pubblica più colta e informata. Le malefatte dei
colonialismi sono state tali e tante che la loro conoscenza e il loro significato
anche per il presente storico possono costituire essenziali ingredienti per
un’evoluzione meno perversa del corso degli eventi umani.
Intervista n. 1
“Avevamo una
machamba
(campo) di arachidi. Mio padre fu preso per andare a lavorare nella piantagione
di cotone del padrone. Lo battevano, lo castigavano, lo mandavano in prigione,
lo picchiavano con la palmatoria
…costa
molto parlarne…Stava male, era stanco, doveva anche sarchiare i campi dei
regulos (capi tradizionali asserviti ai
Portoghesi). Dovevano estirpare le erbacce e poi caricarle. Venivano a
prenderti a casa (per il lavoro forzato) e non riuscivi a fuggire, se ci
provavi e ti prendevano ti spezzavano le mani (con la palmatoria). Il cibo
veniva da casa, tutti i giorni, il padrone non lo dava. Mio padre fece lo
chibalo a Maxixe.
Non aveva nemmeno un
letto, dormiva come poteva (
de qualquer
maneira), per terra, con gli altri. E conclude: “
E’ isso do tempo colonial” (era così durante il colonialismo).
Intervista n. 2 (Signor Cuamba)
“I miei genitori hanno fatto lo chibalo. La polizia
(coloniale) arrivò alle sette di mattina, nel mese di giugno (a inizio inverno
australe). Lo portarono via per costruire un ponte, doveva tagliare le assi e
poi gli fecero costruire una strada. Non ricevette nulla per questo, non lo
pagarono
.
Solo ricevette un bicchiere di sale. Poi
al tempo della raccolta del cotone, lo portarono nella piantagione (del
padrone), prendendolo di notte. Fornivano loro le asce e i machete (
catanas). Se gli uomini provavano a
fuggire, prendevano le mogli e le mettevano in prigione. (Dicevano): il marito
di questa è fuggito. Il capataz sorvegliava il lavoro dei campi. Dormivano in
mezzo alla legna. Questo è quello che mi ha raccontato mio padre”.
Intervista n. 3 (uomo)
(La voce è molto bassa e il tono è indistinto, non si
capisce se l’uomo riferisce una sua esperienza o quella dei genitori o vicini
di casa.) “Fu a Chicualacuala. Era molto freddo.
Per sei mesi. E’ costato molto
.
Prendevano tante persone, (arrivavano) con i camion…Molti morivano. Era il
periodo freddo. Ci si alzava alle 4 e mezzo di mattina e si doveva lavorare sei
ore.
Il cibo arrivava da casa tutti i
giorni.
Non c’erano donne, erano solo
uomini (presumibilmente, si trattava di lavori stradali)”.
Intervista n. 4 Signor Ginasse
(La persona parla della sua esperienza personale). “Ero
molto giovane...dovevamo tagliare gli alberi, dormivamo sulla strada. Ci
svegliavamo alle cinque di mattina e lavoravamo fino a notte. Durò sei mesi, il
cibo ce lo portava la famiglia. Non ricordo in che anno fu. Mi hanno preso in
casa. C’erano i capataz a sorvegliarci e le guardie. Poi ho fatto lo chibalo
una seconda volta, in una piantagione di cotone”.
Il signor Ginasse era un uomo grande e grosso, di Pemba, a
nord: ricordo che parlava con grande difficoltà, e alla fine due lacrime gli
avevano rigato le guance.
Intervista n. 5 Signora Delfina
Della signora Delfina ho conservato un ricordo molto netto,
perché era molto vivace e si esprimeva meglio di altri, e in più ho serbato una
sua foto che la ritrae con altre due amiche. Il suo racconto si riferisce
all’esperienza del padre e soprattutto della madre e mi sembra illustrare tutta
la perversità e la miseria umana di questi padroncini portoghesi, morti di fame
in patria e tiranni senza pietà nella “loro” colonia, e al contempo la crudeltà
servile dei loro sgherri locali.
“Mio padre ha fatto lo chibalo. Allora, il riso non era per
noi, era per i coloni (dice: “o colonial”).
C’era un padrone potente, si chiamava Santo Gil, c’era anche la padrona.
Arrivava il tempo (del raccolto). Chiamavano tutti, Avevano i sipaios, i
capataz (indigeni che servivano da guardie per i portoghesi). Si arrivava alla machamba (piantagione) alle cinque di
mattina, si lavorava si lavorava, si era stanchi ma non si poteva andare via.
C’erano anche i bambini piccoli, con le madri. Poteva andar bene una cosa
simile? Piangevano. Quando il bambino piangeva i sipaios facevano sedere la
madre e la picchiavano (fa schioccare le dita). Lavoravano nelle piantagioni di
banane, tagliavano la legna.
Mia madre aveva seminato il riso e per il mese di gennaio
doveva aver finito tutto il lavoro di ripulitura del campo. Non doveva rimanere
nemmeno uno stelo di mais dove c’era il riso. Il sipaio le disse: voglio vedere tutto il campo ben pulito. Mia madre
diceva: si, si. Arrivò il lunedì, ci fu il controllo. Mia madre aveva ritardato
a pulire. Il sipaio non la picchiò. Lei chiese: domani posso venire? No. Arrivarono
i poliziotti, la portarono dal regulo a Xai-Xai. Si chiamava Macandane, un
dittatore. Aveva tutto per picchiare le persone. C’erano solo donne, i campi di
riso li lavorano le donne. Le chiesero: perché hai ritardato (la pulitura del
campo)? Stavo male. Ah. La portarono via. La picchiarono (riproduce colpi
secchi a simulare le botte). Picchiavano molta gente. Mia madre “la vestirono”
(la misero dentro un sacco) perché le persone bastonate sporcavano per terra. Sangue? No, non era sangue, era (esita) “coisa de casa de banho” (urina e feci)”.
Si odono risatine imbarazzate, è un modo in cui si esprime il disagio in
molte culture non occidentali. “Mia madre arrivò a casa che non ce la faceva
più. Questa è la storia del tempo coloniale. Accadevano molte cose. Lei era
ancora ragazza, abitava con i genitori a Xai-Xai”.
Intervista n. 6 (uomo)
“Mio padre era un capataz. C’era molta gente che andava a
lavorare là, a Sussundenga, provincia di Manica. Mio padre lavorava per una
impresa agricola grande. Il popolo soffriva. A 8 anni (i bambini) andavano allo
chibalo. Dovevano stare nei campi e far
fuggire gli uccellini per proteggere il grano. La sveglia era alle quattro di
mattina. A mezzogiorno c’era il pranzo. Poi tornavano a lavorare fino alle sei
e mezzo di sera. (A pranzo) davano un litro di farina, un bicchiere di latte e
dei fagioli, ma tutto era crudo. Non c’era tempo di cuocere, si rimaneva con la
fame. Cucinavano la sera e mangiavano a mezzanotte. Stavano da maggio fino ad
agosto, quattro mesi. Era freddo, i bambini non potevano accendere il fuoco per
scaldarsi. Quando pioveva si doveva lavorare egualmente. Le persone venivano da
lontano, da Tete, dall’Angonia. Se non si finiva il lavoro entro la sera non si
riceveva nulla. Al mese pagavano 150 (escudos?), i capitani ne ricevevano
400-450, mio padre aveva una paga di 350.
(I sipaios) passavano a casa e chiedevano: hai già pagato la
tassa per la capanna (o imposto da
palhota)? No, sto cercando ancora i soldi. Allora prima facevano cucinare
alla mogli una gallina, poi prendevano gli uomini e li portavano via. Se non trovavano gli uomini in casa,
prendevano le mogli, ma prima le facevano cucinare. I bambini restavano soli.
Le tenevano due o tre giorni in prigione finché non pagavano. La tassa era di
280 (escudos?) all’anno. Se i regulos
non riuscivano a riscuotere le tasse, gli amministratori si rifacevano su di
loro, li multavano. Dicevano: lei non lavora bene. Anche i sipaios dovevano
lavorare gratis per tre mesi all’anno. Se qualcuno protestava perché il lavoro
era troppo, lo prendevano, lo portavano dall’amministratore e lo picchiavano
finché non accettava di tornare al lavoro. E dopo le bastonate una persona doveva
ripetere: Grazie signor amministratore, grazie (“obrigado senhor administrador”). Alcuni lavoravano in casa,
pulivano, facevano il bucato, cucinavano. Quando tutto era pulito, non potevano
più entrare in casa, nella stessa sala che prima avevano lavato e messo a posto.
Basta, che se ne vada, il negro non può entrare, sporca. Resta fuori! Se no
prendiamo le malattie. Ma se eravamo noi che avevamo cucinato, pulito!?
Era obbligatorio fare
regali all’amministratore: una gallina, un capretto. Quando c’era il
censimento, era obbligatorio “fazer
cultura” (ballare e suonare) tutto il giorno. Si dovevano anche portare
delle ragazzine carine, dai dieci ai quattordici anni (per l’amministratore).
Non ci si poteva rifiutare”.
Una canzone creata dalla FRELIMO, Il Fronte di Liberazione
del Mozambico, dopo la vittoria sui portoghesi e l’indipendenza nel 1975,
suonava così: “Chi può dimenticare il tempo passato...la madre di cinque figli
chiamata ragazza, il padre di cinque figli chiamato ragazzo...”.
Credo che queste scarne testimonianze possano fornire
un’idea delle sofferenze del popolo mozambicano durante la lunga notte del
colonialismo. Il che non significa, infelizmente,
che tutto ora sia rose e fiori.
* Tutte le fotografie sono quelle scattate durante le lezioni di alfabetizzazione a Michafutene nel 1982