Translate

Visualizzazione post con etichetta Colonialismo portoghese. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Colonialismo portoghese. Mostra tutti i post

venerdì 10 gennaio 2025

NEI MIEI ARCHIVI DEL SUD

 

INDIMENTICABILI! CHICHAVA E FATIMA

 

MAPUTO 1980 circa

Chichava faceva parte del gruppo dei miei alunni di inglese, lavoratori con varie mansioni nel Ministero dei Trasporti e Comunicazioni del Mozambico nel 1978/79. Lo notai presto tra tutti gli altri benché di primo acchito avesse un aspetto alquanto banale. Era infatti di statura media, col cranio quasi completamente calvo, la pelle di un nero spento, poteva avere al massimo 40/45 anni. Ma poi si notava uno strano tic che lo spingeva ad allungare continuamente il collo in avanti, come se stesse perennemente cercando qualcosa di prezioso che aveva perso o rincorresse una visione sfuggente. Inoltre non dimenticherò mai i padiglioni delle sue orecchie. Evidentemente sin da tenera età aveva portato degli orecchini pesantissimi, non so pensare ad altro, dal peso eccessivo, ed aveva non dei buchetti ma gli mancava un’area cospicua dei lobi. Né in Mozambico né in altri paesi africani ho mai visto una cosa simile. A parte queste caratteristiche fisiche eteroclite era una persona gentilissima, mite, e di memoria e intelligenza notevoli. Assetato di sapere, di imparare, e l’inglese sembrava piacergli moltissimo. Aveva spesso delle domande particolari da porre, quindi aspettava di parlarmi a quattr’occhi dopo la lezione. E non perdeva una parola delle spiegazioni. Egli era un “escriturário”, uno scrivano, come il Bartleby di Melville, e copiava e ricopiava documenti ufficiali al suo tavolo per ore, con una calligrafia curata e inclinata verso destra, rotondeggiante e regolare. Era orgoglioso delle sue “habilitações literárias”, cioè del fatto che aveva frequentato la scuola fino alla sesta classe durante il periodo coloniale, quindi a un livello notevolmente avanzato. Si pensi che lo chefe di Gabinete (Capo Gabinetto) del Ministro era arrivato a frequentare la nona classe, una nostra terza media. Il colonialismo portoghese era stato di una grettezza e ottusità tali che non aveva creato non dico una classe dirigente interna che potesse prendere in mano il paese dopo l’indipendenza, ma nemmeno uno straccio minimo di ceto medio. Gli autoctoni dovevano restare il più possibile poveri, ignoranti e illetterati.

Così Chichava si riteneva superiore in cuor suo a molti colleghi del gruppo dei lavoratori del pianterreno, gerarchicamente significativo, anche se cercava di non farlo capire. Le mie tendenze egualitarie avevano fatto sì che i gruppi di apprendimento fossero stati suddivisi in base agli anni di scolarizzazione, quindi egli, semplice copista, sedeva accanto al Capo Gabinetto, che infatti dopo poco, adducendo carichi di lavoro gravosi, smise di frequentare le mie lezioni. Capii, dopo un po’ di tempo, anche offeso dalla vicinanza di inferiori di grado gerarchico. Ma non era il Mozambico uno stato socialista, mi chiedevo ingenuamente, o che comunque aveva il socialismo come orizzonte?

Il compito che mi era stato assegnato non era semplice. Tutti i miei alunni non avevano il portoghese come lingua madre, bensì una delle lingue bantu locali, cioè ronga, changane, o chope se venivano dalla provincia di Gaza.  E molti maneggiavano un portoghese scarno, fatto di poche frasi e vocaboli, parlandolo solo durante l’orario di lavoro. Mi chiedevo quanto delle mie spiegazioni in portoghese capissero. Ma Chichava, eh no, Chichava capiva tutto, seguiva tutto, e gli occhi gli brillavano di soddisfazione, perché la sua opinione di sé cresceva, si dilatava, e ciò lo deliziava, finalmente gli confermava la sua distanza rispetto agli altri lavoratori del pianterreno. Ma poi eccolo ritornare tra loro, al suo tavolo di scrivano, dove sedeva compunto e concentrato, in una specie di limbo.

Il libro di testo che avevo portato dall’Italia era First Things First di L.G. Alexander, ispirato al metodo audio-orale, che non aveva grammatica o noiosi esercizi di traduzione (che sarebbero stati impossibili), ma ovviamente era stato concepito per studenti europei delle medie superiori che apprendessero l’inglese come seconda lingua, e i contesti erano quanto di più lontano si possa immaginare dalle condizioni di vita di lavoratori mozambicani neri di modestissima estrazione, che facevano chilometri a piedi per venire al lavoro, forse vivevano in capanne di canne e lamiera e cuocevano i loro magri pasti sul fuoco di un focolare o all’aperto. I personaggi in tailleurs delle vignette del libro di Alexander viaggiavano in treni espresso e qualche signora dimenticava la borsetta o un pacco regalo su un sedile del metro. Anni luce di distanza culturale e mentale. E usavo anche dei vecchi dischi del Sandwich Method per migliorare la comprensione orale e curare la pronuncia, dischi di 45 giri che gracchiavano su un giradischi portatile. Dopo gli entusiasmi dell’esordio le difficoltà venivano alla luce e la maggior parte dei volenterosi studenti riusciva a cinguettare autonomamente poco più di un good morning, how are you, have a nice trip, con un accento che di anglosassone aveva ben poco. Ma Chichava primeggiava, memorizzava con facilità frasi intere, le riproduceva in modo più che comprensibile, e naturalmente irraggiava soddisfazione. Poi si venne al giorno del suo trionfo.

La lezione verteva sul cibo e sulle differenti diete a seconda dei paesi, argomento che desta ovunque interesse ma che in un paese afflitto da carenza cronica di beni commestibili primari come pane, carne, verdure, latte, ecc e con un tasso notevole di malnutrizione aguzza non solo l’interesse ma l’appetito. Quando si venne al “beef and onions” inglese, che io tradussi banalmente con carne e cipolle in portoghese, Chichava insorse: “No, no! E’ bife cebolado, bife cebolado, bife essendo il portoghese per “bistecca di carne bovina” e cebola una cipolla. Dato che i coloni portoghesi erano legati a doppio filo al Sudafrica e alla Rhodesia, anche le pietanze ricalcavano il non eccelso modello gastronomico anglosassone/boer. E l’intonazione con la quale Chichava ripeté come ispirato bife cebolado era quasi di rapimento religioso. Io lo ringraziai per il suo contributo alla traduzione esatta, e lo vidi come circonfuso da una aureola, auto-confermato nel suo rango di persona che aveva avuto esperienze di una raffinatezza sconosciuta ai suoi colleghi. Forse nessuno avrà dimenticato per un certo periodo almeno il binomio: beef and onions. Anche se spesso le cipolle non si trovavano al mercato, per non parlare del bife. Un miraggio.

Fatima

Fatima fu l’ennesima nostra domestica, che lasciammo solo quando partimmo, dopo una serie di collaboratori familiari che durarono pochi mesi per varie ragioni. Paulo dovette essere liquidato perché ci aveva rubato i soldi dell’affitto, una signora dovette essere licenziata perché la nostra (della mia amica e mia) difficoltà comunista nel vederci servite a tavola aveva fatto sì che dopo qualche settimana eravamo noi due e spignattare, dopo quasi cinque ore di lavoro, e di fretta perché alle due del pomeriggio dovevamo riguadagnare i nostri rispettivi uffici dopo autostop al sole. Un giorno ricordo che in cucina ci guardammo negli occhi e cogliemmo l’assurdità della signora seduta comodamente a tavola vicino a mio figlio di otto anni e noi due in piedi a correre. No, questo è ridicolo, ci balenò il pensiero. La signora si sdegnò per il licenziamento pur adeguatamente compensato, e finimmo davanti ad un funzionario dell’Ufficio del Lavoro, che, ricordo testualmente perché mi fece rabbrividire, sentenziò gravemente: “O patrão tem sempre razão” (il padrone ha sempre ragione). Orrore! Il padrone! E finalmente arrivò la deliziosa, indimenticabile Fatima, anche chiamata Fatimetta, che lavorò per noi degli anni. Io sono di bassa statura ma lei era persino ben più piccola di me, e inoltre grassoccia, pur giovane; l’impressione era quella di una nera pallina di grasso con un fazzoletto come corona, una boule de suif[1] Maupassantiana africana (di onesti costumi suppongo) in miniatura. Abitava a Catembe, dall’altra parte della baia, e ogni mattina e sera doveva prendere il traghetto malconcio che serviva una moltitudine di pendolari tra le due rive. Catembe, ben visibile dal nostro balcone sulla baia, era un sobborgo popolare che dal molo di fronte saliva inerpicandosi sulla collina retrostante.

Infaticabile e versatile, agile nonostante la piccola mole ingombrante, imparò rapidamente le ricette che le insegnai senza mai sbagliare o bruciare alcunché, teneva pulita con cura la nostra casa dalle numerose stanze, e spesso la vidi in ginocchio sul pavimento mentre strofinava le piastrelle con lo straccio, purtroppo non avevamo uno spazzolone con manico per lavare i pavimenti. Se la sera avevamo degli invitati lasciava la cena quasi pronta prima di andar via - ma questo fu possibile quando a Maputo arrivò la “loja franca”, il negozio dove si vendevano preziosi beni importati che, essendo stati pagati in divisa, si potevano comperare solo in dollari. Noi eravamo pagate in moneta locale, ma ogni sei mesi avevamo il diritto di convertire una certa somma di meticais[2] in dollari, naturalmente se avevamo dei risparmi. E in questo caso beni succulenti come formaggio, carne, burro, olio di oliva, caffè, vino erano alla nostra portata dopo i numerosi magri pasti a base di riso e fagioli o pannocchie di mais bollite. Finalmente si potevano invitare amici a cena.

Fatima fu sempre all’altezza delle situazioni, mai ci fece fare una cattiva figura con i nostri ospiti. La feci io invece lasciando cadere una bottiglia di vino generosamente offerta da una coppia di invitati che mi fulminarono con occhiate di gelo e che non rivedemmo mai più. E a proposito di altezza concludo con un aneddoto esilarante. Un pomeriggio un amico inglese che era alto almeno 1,90 mt suonò al nostro campanello. Fatima aprì la porta ma Michael non la vide guardando avanti alla sua altezza o poco più in giù, e pensò (mi disse poi), “La porta si apre da sola?? Che diavoleria è questa?” ma avanzando inciampò in Fatima a naso in su. Oddio. E da allora la battezzò: the midget, il moscerino.

 

 

 

 

 

 



[1] Boule de suif, racconto dello scrittore francese Maupassant. Letteralmente, palla di sego, ma anche di grasso.La protagonista vende le sue grazie.

[2] Il metical era la moneta locale, meticais è il plurale in portoghese.

giovedì 3 marzo 2016

LAVORO FORZATO NEL MOZAMBICO COLONIALE: O CHIBALO



O CHIBALO RACCONTATO DA CHI LO VISSE *


 Da sinistra: la signora Delfina, la signora Marta, e ....?

Dal 1980 al 1982 ho lavorato in Mozambico, allora Repubblica Popolare, presso la Direzione Nazionale dell’Alfabetizzazione e dell’Educazione degli Adulti nell’équipe incaricata di elaborare dei nuovi libri per l’apprendimento della lingua e dell’aritmetica durante i primi due anni di alfabetizzazione. Così, una volta delineati contenuti e sequenza, li sperimentammo sul campo chiamando da ognuna delle dieci province mozambicane due analfabeti, un uomo e una donna, per seguire lungo alcuni mesi i loro processi cognitivi e dedurne eventuali correzioni da apportare ai testi e alla metodologia scelta.
Il corso si svolse in un villaggio attrezzato per accoglierli, Michafutene, non distante da Maputo; il nostro gruppo vi si recava ogni mattina e vi passava di fatto la giornata. Fu per me un’esperienza molto significativa: erano persone che avevano vissuto durante il periodo coloniale innumerevoli traversie, erano poverissimi contadini e parlavano molto poco o affatto il portoghese. Ricordo che il collega mozambicano dell’équipe, più addentro di noi stranieri alle fasi di preparazione della selezione e poi dei viaggi dei prescelti, ci disse che alcuni non avevano letteralmente nulla da indossare se non degli stracci che usavano abitualmente per coltivare i loro campi e che la comunità aveva dovuto provvedere con degli abiti acquistati per il viaggio e il soggiorno. Tuttavia, durante i mesi del corso, svilupparono tutti la capacità di comunicare tra di loro e con noi oralmente in un portoghese scarno ma comprensibile. Il portoghese era ed è la lingua ufficiale nazionale, ma per loro rappresentava una vera e propria lingua straniera. Eppure, era l’unico mezzo di comunicazione reciproca, dato che in ogni area del Mozambico si parlano lingue autoctone diverse. Verso la fine del corso, dopo che essi avevano acquistato una certa dimestichezza nell’esprimersi, decisi di discutere con chi accettasse di farlo le loro esperienze, personali e familiari, su uno dei capitoli più dolorosi del colonialismo portoghese: il lavoro forzato “chibalo”[1]


Ho fortunosamente ritrovato la cassetta che avevo registrato l’8 giugno del 1982 sotto gli alberi di Michafutene; con l’aiuto di una collega ricordavo di averla già sbobinata e interamente trascritta, ma non sono riuscita a ritrovare quei preziosi fogli, almeno finora. L’ho quindi riascoltata e ho preso alcuni appunti. In particolare, il racconto di una donna, la signora Delfina, non mi si era mai cancellato dalla mente, tanto mi aveva impressionato. Ora che, dopo quasi 34 anni, tutto è cambiato, anche in Mozambico, e quella generazione che visse il lavoro chibalo in prima persona è quasi estinta, credo sia utile ripresentare quei racconti, che anche in forma monca sono potenti evocazioni di un passato storico recente troppo poco studiato se non in nicchie di addetti ai lavori e poco conosciuto al giorno d’oggi, anche tra l’opinione pubblica più colta e informata. Le malefatte dei colonialismi sono state tali e tante che la loro conoscenza e il loro significato anche per il presente storico possono costituire essenziali ingredienti per un’evoluzione meno perversa del corso degli eventi umani.
Intervista n. 1
“Avevamo una machamba (campo) di arachidi. Mio padre fu preso per andare a lavorare nella piantagione di cotone del padrone. Lo battevano, lo castigavano, lo mandavano in prigione, lo picchiavano con la palmatoria[2]…costa molto parlarne…Stava male, era stanco, doveva anche sarchiare i campi dei regulos (capi tradizionali asserviti ai Portoghesi). Dovevano estirpare le erbacce e poi caricarle. Venivano a prenderti a casa (per il lavoro forzato) e non riuscivi a fuggire, se ci provavi e ti prendevano ti spezzavano le mani (con la palmatoria). Il cibo veniva da casa, tutti i giorni, il padrone non lo dava. Mio padre fece lo chibalo a Maxixe.  Non aveva nemmeno un letto, dormiva come poteva (de qualquer maneira), per terra, con gli altri. E conclude: “E’ isso do tempo colonial” (era così durante il colonialismo).

Intervista n. 2 (Signor Cuamba)

“I miei genitori hanno fatto lo chibalo. La polizia (coloniale) arrivò alle sette di mattina, nel mese di giugno (a inizio inverno australe). Lo portarono via per costruire un ponte, doveva tagliare le assi e poi gli fecero costruire una strada. Non ricevette nulla per questo, non lo pagarono[3].  Solo ricevette un bicchiere di sale. Poi al tempo della raccolta del cotone, lo portarono nella piantagione (del padrone), prendendolo di notte. Fornivano loro le asce e i machete (catanas). Se gli uomini provavano a fuggire, prendevano le mogli e le mettevano in prigione. (Dicevano): il marito di questa è fuggito. Il capataz sorvegliava il lavoro dei campi. Dormivano in mezzo alla legna. Questo è quello che mi ha raccontato mio padre”.
Intervista n. 3 (uomo)
 (La voce è molto bassa e il tono è indistinto, non si capisce se l’uomo riferisce una sua esperienza o quella dei genitori o vicini di casa.) “Fu a Chicualacuala. Era molto freddo.  Per sei mesi. E’ costato molto[4]. Prendevano tante persone, (arrivavano) con i camion…Molti morivano. Era il periodo freddo. Ci si alzava alle 4 e mezzo di mattina e si doveva lavorare sei ore.  Il cibo arrivava da casa tutti i giorni.  Non c’erano donne, erano solo uomini (presumibilmente, si trattava di lavori stradali)”.
Intervista n. 4 Signor Ginasse

(La persona parla della sua esperienza personale). “Ero molto giovane...dovevamo tagliare gli alberi, dormivamo sulla strada. Ci svegliavamo alle cinque di mattina e lavoravamo fino a notte. Durò sei mesi, il cibo ce lo portava la famiglia. Non ricordo in che anno fu. Mi hanno preso in casa. C’erano i capataz a sorvegliarci e le guardie. Poi ho fatto lo chibalo una seconda volta, in una piantagione di cotone”.
Il signor Ginasse era un uomo grande e grosso, di Pemba, a nord: ricordo che parlava con grande difficoltà, e alla fine due lacrime gli avevano rigato le guance.

Intervista n. 5 Signora Delfina

Della signora Delfina ho conservato un ricordo molto netto, perché era molto vivace e si esprimeva meglio di altri, e in più ho serbato una sua foto che la ritrae con altre due amiche. Il suo racconto si riferisce all’esperienza del padre e soprattutto della madre e mi sembra illustrare tutta la perversità e la miseria umana di questi padroncini portoghesi, morti di fame in patria e tiranni senza pietà nella “loro” colonia, e al contempo la crudeltà servile dei loro sgherri locali.
“Mio padre ha fatto lo chibalo. Allora, il riso non era per noi, era per i coloni (dice: “o colonial”). C’era un padrone potente, si chiamava Santo Gil, c’era anche la padrona. Arrivava il tempo (del raccolto). Chiamavano tutti, Avevano i sipaios, i capataz (indigeni che servivano da guardie per i portoghesi). Si arrivava alla machamba (piantagione) alle cinque di mattina, si lavorava si lavorava, si era stanchi ma non si poteva andare via. C’erano anche i bambini piccoli, con le madri. Poteva andar bene una cosa simile? Piangevano. Quando il bambino piangeva i sipaios facevano sedere la madre e la picchiavano (fa schioccare le dita). Lavoravano nelle piantagioni di banane, tagliavano la legna.
Mia madre aveva seminato il riso e per il mese di gennaio doveva aver finito tutto il lavoro di ripulitura del campo. Non doveva rimanere nemmeno uno stelo di mais dove c’era il riso. Il sipaio le disse: voglio vedere tutto il campo ben pulito. Mia madre diceva: si, si. Arrivò il lunedì, ci fu il controllo. Mia madre aveva ritardato a pulire. Il sipaio non la picchiò. Lei chiese: domani posso venire? No. Arrivarono i poliziotti, la portarono dal regulo a Xai-Xai. Si chiamava Macandane, un dittatore. Aveva tutto per picchiare le persone. C’erano solo donne, i campi di riso li lavorano le donne. Le chiesero: perché hai ritardato (la pulitura del campo)? Stavo male. Ah. La portarono via. La picchiarono (riproduce colpi secchi a simulare le botte). Picchiavano molta gente. Mia madre “la vestirono” (la misero dentro un sacco) perché le persone bastonate sporcavano per terra. Sangue? No, non era sangue, era (esita) “coisa de casa de banho” (urina e feci)”. Si odono risatine imbarazzate, è un modo in cui si esprime il disagio in molte culture non occidentali. “Mia madre arrivò a casa che non ce la faceva più. Questa è la storia del tempo coloniale. Accadevano molte cose. Lei era ancora ragazza, abitava con i genitori a Xai-Xai”.

Intervista n. 6 (uomo)

“Mio padre era un capataz. C’era molta gente che andava a lavorare là, a Sussundenga, provincia di Manica. Mio padre lavorava per una impresa agricola grande. Il popolo soffriva. A 8 anni (i bambini) andavano allo chibalo.  Dovevano stare nei campi e far fuggire gli uccellini per proteggere il grano. La sveglia era alle quattro di mattina. A mezzogiorno c’era il pranzo. Poi tornavano a lavorare fino alle sei e mezzo di sera. (A pranzo) davano un litro di farina, un bicchiere di latte e dei fagioli, ma tutto era crudo. Non c’era tempo di cuocere, si rimaneva con la fame. Cucinavano la sera e mangiavano a mezzanotte. Stavano da maggio fino ad agosto, quattro mesi. Era freddo, i bambini non potevano accendere il fuoco per scaldarsi. Quando pioveva si doveva lavorare egualmente. Le persone venivano da lontano, da Tete, dall’Angonia. Se non si finiva il lavoro entro la sera non si riceveva nulla. Al mese pagavano 150 (escudos?), i capitani ne ricevevano 400-450, mio padre aveva una paga di 350. 

(I sipaios) passavano a casa e chiedevano: hai già pagato la tassa per la capanna (o imposto da palhota)? No, sto cercando ancora i soldi. Allora prima facevano cucinare alla mogli una gallina, poi prendevano gli uomini e li portavano via.  Se non trovavano gli uomini in casa, prendevano le mogli, ma prima le facevano cucinare. I bambini restavano soli. Le tenevano due o tre giorni in prigione finché non pagavano. La tassa era di 280 (escudos?) all’anno.  Se i regulos non riuscivano a riscuotere le tasse, gli amministratori si rifacevano su di loro, li multavano. Dicevano: lei non lavora bene. Anche i sipaios dovevano lavorare gratis per tre mesi all’anno. Se qualcuno protestava perché il lavoro era troppo, lo prendevano, lo portavano dall’amministratore e lo picchiavano finché non accettava di tornare al lavoro. E dopo le bastonate una persona doveva ripetere: Grazie signor amministratore, grazie (“obrigado senhor administrador”). Alcuni lavoravano in casa, pulivano, facevano il bucato, cucinavano. Quando tutto era pulito, non potevano più entrare in casa, nella stessa sala che prima avevano lavato e messo a posto. Basta, che se ne vada, il negro non può entrare, sporca. Resta fuori! Se no prendiamo le malattie. Ma se eravamo noi che avevamo cucinato, pulito!?
 Era obbligatorio fare regali all’amministratore: una gallina, un capretto. Quando c’era il censimento, era obbligatorio “fazer cultura” (ballare e suonare) tutto il giorno. Si dovevano anche portare delle ragazzine carine, dai dieci ai quattordici anni (per l’amministratore). Non ci si poteva rifiutare”.
Una canzone creata dalla FRELIMO, Il Fronte di Liberazione del Mozambico, dopo la vittoria sui portoghesi e l’indipendenza nel 1975, suonava così: “Chi può dimenticare il tempo passato...la madre di cinque figli chiamata ragazza, il padre di cinque figli chiamato ragazzo...”.

Credo che queste scarne testimonianze possano fornire un’idea delle sofferenze del popolo mozambicano durante la lunga notte del colonialismo. Il che non significa, infelizmente, che tutto ora sia rose e fiori.



* Tutte le fotografie sono quelle scattate durante le lezioni di alfabetizzazione a Michafutene nel 1982







[1] Il lavoro chibalo fu utilizzato a partire dalla fine del XIX secolo per costruire la capitale Lourenço Marquez (dal 1975, Maputo) e nel lavoro di costruzione di strade, ponti, nei lavoro portuali e nelle ferrovie. Progressivamente fu utilizzato per la coltivazione di cotone, nelle piantagioni di zucchero e estensivamente per i lavori agricoli. Fu istituzionalizzato a fine anni 20 e rimase in vigore fino al 1962, codificato nel “Codice del lavoro degli indigeni”. In teoria doveva durare un massimo di sei mesi, ma di fatto le persone venivano trattenute anche di più, fino a un anno, e poi liberate solo per essere di nuovo riacciuffate e obbligate a un altro periodo di lavoro schiavo.
[2] La palmatoria era una paletta ovale di legno con dei fori rotondi( per fare schizzare fuori il sangue) con le quali si picchiava sul palmo delle mani fino a volte a spezzarlo. Si usava anche per le piante dei piedi.
[3] In teoria, il lavoro forzato doveva essere pagato, anche se una miseria, ma molti dicono di non aver ricevuto nulla. In questo caso, l’intervistato dice che il padre ricevette un bicchiere di sale.
[4] E’ una frase che ritornava spessissimo nel discorsi dei mozambicani, per significare la sofferenza patita: “Custou muito”.