MAROCCO COME MERAVIGLIA (E MALINTESI)
Mura della Chellah, a Rabat
Nel 2001
avevo ricevuto un incarico di capo missione per la valutazione di un Progetto
sanitario in Yemen e, forte dell’esperienza precedente in altri paesi arabi nei
quali l’ignoranza della lingua era stata un ostacolo notevole, oltre che
sottovalutato, pensai di attrezzarmi meglio acquisendone alcuni rudimenti per
facilitare la comunicazione sul piano semplicemente umano prima e oltre che
professionale. Così acquistai un corso audio-orale di arabo classico e presi alcune
lezioni private propedeutiche, prima che mi fosse annunciata la cancellazione
della missione in seguito al disastro delle Torri Gemelle, in attesa che l’impatto
sconvolgente che ne seguì si attenuasse. Per smaltire il lutto me ne andai in
Pakistan, altro giro altro regalo, e il corso di arabo continuò a esibire la
sua presenza inutilizzata sullo scaffale della biblioteca. Una presenza che
diventò una piccola ossessione, un memento. Provai ad ascoltare le cassette e a
imparare qualcosa con le mie forze, ma avevo l’impressione di arrampicarmi in
parete a picco con gli zoccoli.
Così
quest’anno a marzo mi sono ritrovata a Rabat iscritta a un corso introduttivo
di arabo classico. Il programma prevedeva di restare almeno un mese e, se alcune
difficoltà logistiche e pratiche hanno abbreviato il mio soggiorno, non mi
hanno impedito di viaggiare poi nel paese per altre quattro settimane. Poiché il Marocco è una meta turistica
piuttosto nota, il mio resoconto non è descrittivo ma si sofferma su alcuni
aspetti, episodi e scoperte inattese.
M COME
MALINTESI (CULTURALI)
Sempre di più
mi convinco che pur essendo guardinghi e tenendo presente esperienze pregresse,
è quasi impossibile evitarli. La casistica è inesauribile[1].
Primo giorno
a Rabat: cerco un appartamento in affitto e ho un appuntamento con l’amico di
un conoscente marocchino che vive in Italia. Mi si presenta un agente
immobiliare in sostituzione della persona attesa (il suo amico è
impegnatissimo) e mi guida fuori dell’albergo. Presumo disponga di un mezzo
privato, ma no: fa cenno a un taxi e partiamo alla volta dell’appartamento che
si trova a casa di dio: il taxi va ben oltre le mura e si ferma dopo una
ventina di minuti. Già mi rendo conto che ho sbagliato tutto, non posso abitare
così lontano dal centro e dalla sede del mio corso. Il tizio scende dalla
macchina e fa con tono perentorio: “Prego paghi il taxi”. Stupita replico che
non mi consta che spetti al cliente pagare. L’altro insiste e l’atmosfera si
inacidisce. Il tassista ignora il francese e rimane in attesa. Andiamo a vedere
l’appartamento che non risponde alle mie esigenze, riprende la discussione sul
pagamento del taxi, propongo una mediazione sdegnosamente rifiutata, e a questo
punto giro sui tacchi, esco e dico al tassista di riportarmi all’albergo.
Quando spiego seccata quanto accaduto, mi si chiarisce che la prassi marocchina
è che il cliente debba pagare la corsa in casi del genere, contrariamente a
quanto accade in Italia. Mi sento mortificata e un po’ idiota.
Questi
piccoli inconvenienti sono stati ampiamente risarciti dalle esperienze
successive, da ciò che ho visto, imparato e scoperto nelle settimane successive
del soggiorno maghrebino.
L COME LINGUA
Quel poco di
arabo che sono riuscita ad assimilare mi meraviglia e mi affascina per alcune
particolarità che trovo inedite, senza riscontro in altre lingue che conosco o
che ho “costeggiato” (non solo europee), come ad esempio il fatto che si usino
due forme verbali diverse per la terza persona plurale del verbo avere a
seconda che le persone di cui si parla siano presenti o assenti, o che il
plurale dei sostantivi cambi se si tratta di due o più oggetti. La coniugazione
dei verbi varia in funzione dell’interlocutore, uomo o donna (come
nell’ebraico, mi dicono); non esistono maiuscole e la scrittura ha caratteri
solo in corsivo. L’arabo marocchino poi, il darisha,
è una lingua completamente a sé, molto diversa dall’arabo classico, non un
semplice dialetto. L’epigrafica e la calligrafia arabe sono miracoli di
ingegnosità ed eleganza, opere d’arte; ciò che al profano sembrano complicati
ghirigori ornamentali sono sure del
Corano dipinte o scolpite sulle pareti di palazzi e moschee.
Dopo aver
cominciato a registrare le varie lettere dell’alfabeto –che si scrivono in modo
diverso a seconda che siano isolate, all’inizio, in mezzo o alla fine di una
parola- mi sono resa conto di aver fatto l’errore grossolano di progredire con
le pagine del quaderno da sinistra a destra e non viceversa. Imparare una lingua
è anche imparare a cambiare testa.
R COME RABAT
Ho trovato
Rabat molto gradevole, culturalmente stimolante, sicura, pulita, piena di verde
e giardini curatissimi, con un traffico pacato a parte qualche ora di punta
il venerdì[2].
E’ una città che invita a camminare per i lunghi viali su marciapiedi ombrosi, tra
fiori a profusione, con una medina gloriosamente sciabordante di vitalità,
cordialità e umanità, un antidepressivo potente nel caso servisse. E non
labirintica.
Tornando al riad[3]
della famiglia che mi aveva affittato una stanza, la sera, tra le 10.30 e le 11
la folla ancora sciamava nelle due direzioni, l’interno della medina e la porta
verso l’arteria esterna Hassan II, le griglie piene di carne scoppiettavano
colando grasso, dalle grandi teglie di rognone venivano distribuite laute
porzioni ai clienti assiepati, gli ambulanti con la merce sui loro micro-banchetti
erano ancora in piena attività. Che contrasto con la tristezza di certe
periferie europee, di tante nostre città il cui centro a quell’ora è deserto,
con i rari passanti che si affrettano a rintanarsi in casa!
In ogni
medina, quella di Rabat come di tutte le altre città che ho visitato, c’è un quartiere
chiamato El Mellah tradizionalmente
destinato agli ebrei che da secoli appartenevano all’area maghrebina, quindi di
cultura araba e arabofoni. El Mellah,
contrariamente ai ghetti in Europa, non è segregato dal resto dell’abitato ma
si estende senza soluzione di continuità rispetto alle abitazioni dei musulmani,
è immerso nel reticolo dei vicoli della medina. Oggi però quasi nessun ebreo vi
abita più: dopo la creazione dello Stato d’Israele nel 1948 è cominciato a
ondate successive l’esodo verso la Palestina, accelerato nel 1956 dalla crisi
di Suez, e durante gli anni ’60 del ‘900 la desertificazione si è quasi
completata.
Fino al 1940 la comunità ebreo-araba marocchina era la più numerosa
del mondo musulmano e contava più di 250.000 persone, perfettamente integrate
culturalmente e socialmente, spesso assai benestanti e installate in posizioni
di rilievo, esercitando professioni liberali. La presenza giudaica in Marocco
precede l’arrivo dell’Islam ed è quindi molto antica, profondamente radicata.
Oggi le stime parlano di circa 4000 ebrei presenti nel paese, ed è da
sottolineare che uno dei più stimati consiglieri del re Mohammed VI, André
Azoulay, è ebreo[4].
Un artigiano di Essaouira che mi ha accompagnato brevemente per le strade del Mellah della Medina mi ha indicato l’abitazione
di Azoulay: “è la casa di un ministro del re!”, mi ha detto con aria di
importanza. A Rabat ho incontrato un giudice di antica famiglia ebrea e sua
moglie, ex insegnante di inglese, nella sua casa (non nella Medina) piena di
quadri dipinti dal figlio e vecchi ritratti, tra i quali spiccava quello di
un’anziana coppia in costume berbero, i nonni del giudice: tra i berberi un
numero consistente era (è?) ebreo.
E’ pur vero
che lo status di dhimmi (gente della dhimma, cioè coperti da un patto di
protezione che conferiva diritti e doveri diversi ai non musulmani in paesi
dove vigeva la legge musulmana, sharia)
comportava discriminazioni e a volte umiliazioni, ma è anche da ricordare che
ciò non implicò mai se non in casi molto particolari e isolati persecuzioni e
pogrom come quelli che imperversarono per secoli nei paesi europei. Sia dopo il
1492 sia negli anni dell’invasione nazista della Francia molti ebrei si
rifugiarono in Marocco: Mohammed V li protesse dal regime nazista e rifiutò di
far loro indossare la stella gialla. [5]
Ho visitato
alcune sinagoghe, a Rabat, a Fes, a Tangieri e a Essaouira, e in quella di
Essaouira ho parlato con la custode-assistente (musulmana) del rabbino, che era
assente con mio grande disappunto; avrei veramente gradito uno scambio di idee
e informazioni sulla situazione attuale della comunità ebraica locale. Mi hanno
toccato in ogni caso le frasi di apprezzamento della custode: “Siamo come
fratelli, ebrei e musulmani”. Il conflitto medio-orientale sembra non incidere
in questo pacifico contesto, non turba una storia di convivenza millenaria. Nella
preziosa Maison de la Photographie di Marrakech molte delle
bellissime fotografie del primo novecento raffigurano ebrei abbigliati nei loro
costumi orientali tradizionali, e una sezione intera è dedicata al fotografo
ebreo ungherese, Nicolas Muller Grossman, che durante il nazismo si rifugiò e
visse sette anni a Tangeri dove lavorava e immortalava volti in ritratti
epocali. Alcune sue foto sono tra le più
belle che il museo racchiuda: egli stesso racconta le tappe salienti della sua
avventurosa vita e della sua vocazione artistica in un video che rende anche più
intense le sue immagini. Eccone una tra le più famose, scattata a Tangeri nel
1940.
A COME ARTE
ISLAMICA
Non so dove
abbia letto anni fa la frase “cattiva infinità” attribuita alla fuga
concentrica dei motivi iconografici prodotti dallla inesauribile immaginazione arabo-islamica,
ma la formula mi sembra riassumere nel modo più appropriato la loro essenza.
L’occhio si perde seguendo i percorsi geometrici delle piastrelle di maiolica- zellige- che ricoprono pareti e
pavimenti di medersa[6],
moschee e palazzi, fontane, mihrab[7]
e patio; lo sguardo si inerpica sulla trama di marmo di veri e propri merletti abbaglianti
che filtrano la luce tra archi e volte e si prova una sensazione di vertigine e
smarrimento, un capogiro da ebbrezza non alcoolica.
Il rifiuto della
rappresentazione figurativa ha generato un’arte squisitamente spirituale, di
una purezza formale unica e ineguagliabile, che mi sembra una illustrazione
perfetta della frase di Goethe: se vuoi
ricrearti nel tutto, devi vedere il tutto
nel piccolissimo. La somma sintesi di arte e natura è il giardino andaluso,
quadrato o rettangolare, con una fontana rotonda zampillante nel mezzo o in
fondo a un viale, il tutto traboccante di tralci, ventagli di palme, corolle di
ogni colore e forma, colonnine e capitelli, fresco e ristoratore anche durante
la calura più inclemente. Uno dei più belli che ho visto si trova nel Museo di
Meknès Dar Jamai.
L’etimologia
della parola “paradiso” è rivelatrice: il lemma deriva dal persiano pairidaeza, luogo (ameno) recinto da
mura, giardino, oasi di pace.
[1] Credo
esista un’ampia bibliografia al riguardo: a me è piaciuto anni fa il libro di
Franco La Cecla Il Malinteso, 1997,
Laterza.
[2] Il Cairo
del 1997/98 era al confronto un bailamme continuo e caotico percorso dallo
strombazzare incessante dei clacson, un martirio.
[3] Case
tradizionali della medina, a due o più piani, separati da scale spesso a
chiocciola con alti scalini piastrellati di zellige, piastrelle di maiolica
dipinta con motivi tipici geometrici, che culminano con una ampia terrazza in
genere con lavatoio. In mezzo al cortile interno spesso c’è una patio quadrato.
Il mobilio è ridotto al minimo essenziale, in compenso abbondano i divani.
[4] http://www.pbs.org/newshour/updates/morocco-muslims-jews-study-side-side/
[5]
http://www.pbs.org/newshour/updates/morocco-muslims-jews-study-side-side/
[6] Scuole coraniche, veri e propri
collegi, per i talibé, studenti di teologia, da non confondere con le madrasa,
semplici scuole dove si insegna anche il Corano. Alcune sono supreme opere
d’arte come la Medersa di Ali Ben Youssef a Marrakech.
[7] Abside
nelle moschee volta verso la Mecca
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