METAMORFOSI DELLA
PAROLA RAZZA: DALLE STELLE ALLE STALLE
Cavallo arabo
Che razza di mascalzone! Razza padrona. Razze di cavalli da
sella. Scrittore di razza. Uso figurato e non, locuzioni correnti, innocue,
spregiative o elogiative, sulle quali credo che l’Accademia della Crusca non
avrebbe nulla da obiettare. Ma quando si tratta di “razza” abbiamo a che fare
con una parola speciale, carica di storia, una parola che ha provocato stragi
immani e che continua ad uccidere. Rispunta più caparbiamente che mai nell’Europa
contemporanea come sostrato sul quale germogliano locuzioni apparentemente più
pudiche che istigano comportamenti criminali. Al di là dell’Atlantico non si è
mai smesso di usare il termine “race” nel mondo accademico: i “racial studies”
costituiscono un filone ufficiale in molte facoltà umanistiche. Ma lasciamo da
parte Stati Uniti, Brasile o altri stati americani, perché costituiscono un
capitolo a parte.
Quello che stupisce è la vitalità di un concetto la cui
inconsistenza scientifica e la cui fallacia è stata dimostrata sulla base di
rigorose ricerche già negli anni ’40 del 900, proprio quando in Europa
imperversavano il nazismo e le leggi razziali fasciste. Per rendersene conto
basta leggere il bel libro di M.F. Ashley Montagu (a fianco a sinistra) La Razza: Analisi di un Mito,
la cui prima edizione apparve negli Stati Uniti nel 1942 (data della
prefazione), tradotto in Italia per i tipi di Einaudi nel 1966, nel quale lo
scienziato demolisce la attendibilità del concetto “razza” sotto ogni punto di
vista. Più recentemente, con lo sviluppo degli studi di genetica ed epigenetica
e in particolare sulla base del lavoro del genetista Luigi Luca Cavalli Sforza
e della sua équipe di scienziati, risulta anche più chiaro che le razze umane semplicemente
non esistono: tra l’altro, …“vi è una grande eterogeneità tra gli individui
qualunque sia la popolazione di origine”[1]
e paradossalmente la variazione intra-gruppi, siano questi ultimi città,
villaggi o regioni, addirittura continenti, è maggiore della variazione
inter-gruppi, riferita alle stesse entità (Cavalli Sforza, ibid., pag. 33).
Eppure il razzismo – questa ameba dai tratti cangianti
inscindibile dal concetto di razza - uccide ancora, anche in Italia.
Parafrasando il titolo di un libro di un altro famoso linguista e filosofo del
linguaggio, John Austin, si potrebbe dire che è un esempio lampante di come si
possa uccidere con le parole[2].
Per menzionare un fatto recente di cronaca nera italiana, spia eloquente di un
atteggiamento diffuso e banalizzato, si pensi all’omicidio di Emmanuel Chidi
Nnamdi a Fermo l’estate scorsa, avvenuto in seguito ad un commento ingiurioso
nei confronti della moglie della vittima (qui sotto, Emmanuel con la moglie). E il rifiuto da parte di tanti comuni
italiani di accogliere migranti non è solo motivato dalla povertà in aumento e
dalla mancanza di servizi sociali adeguati, ma anche da pregiudizi e stereotipi
che se non razzisti possiamo definire legati a paure irrazionali di
contaminazione culturale. Infatti il concetto di “razza” è associato a tutta
una gamma di altre entità cognitive, a un vasto campo semantico che sarebbe
indispensabile esplorare più da vicino per scoprirne le ramificazioni attraverso
la storia, a partire dalla sua etimologia, che rivela un’origine
insospettabile.
Il grande linguista e critico letterario austriaco Leo
Spitzer (qui sotto a destra), in un saggio scritto tra il 1933 e il 1941, ricostruisce l’etimologia di
“razza” e le trasformazioni subite dal termine e dai termini linguisticamente
attigui legati all’etimo originario. Contestando ipotesi precedenti[3],
dimostra “con argomenti fonetici e semantici”, che il latino ratio in forma
dotta sta alla base delle nostre espressioni moderne per razza, “cioè, più
specificamente, alla base dell’italiano razza, che le altre lingue, a quanto
pare, avrebbero preso in prestito”. Il punto di partenza è un passo di Cicerone
citato dal Georges: “dissuerunt de
generibus et rationum civitatum,….[4]ove
dissuerunt sta per “discussero” e rationum (genitivo plurale di ratio) è
interpretato dal Georges come: “relazione, proprietà, natura, modo e maniera,
disposizione”. Origine stupefacente di una parola che, negli anni in cui
Spitzer scriveva il saggio, designava una realtà biologica, quasi zoologica,
inchiodata ad una essenzialità immutabile attraverso le generazioni. Lo
studioso sottolinea il suo “piacere pieno di malizia” nel presentare alla
Germania l’origine altamente spirituale di un termine all’epoca usato in
contrapposizione a “spirito”.
Quindi ciò che oggi è una parola basata su una fallacia
cognitiva clamorosa, sul naufragio della ragione, scaturisce dal latino ratio, che in italiano accostiamo
spontaneamente a “ragione”. Ma come è stata possibile tale deriva?
Dall’epoca ciceroniana si sviluppa una specie di epopea del
termine che è un viaggio attraverso due millenni di storia religiosa e sociale.
Religiosa perché Spitzer rintraccia l’uso di rationes in Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologica: rationes sta per “tipi” e sviluppa il
concetto platonico delle idee preesistenti alle cose. Dio “in quanto è la Idea dell’universo, contiene in sé
tutte le idee delle cose” (ibid., p. 231). Quindi rationes rende il concetto di “idea” e si evolve fino a significare
tutti i “tipi” delle cose che esistono riassunti nel contenitore divino. Puro
platonismo. Di fatto Tommaso non fa che riecheggiare S. Agostino, secondo il
quale tutte le rationes rerum, tutti
i tipi di esseri/cose, sono contenute nella mente divina. La traduzione
francese della Summa Theologica (Lachat, 1880) interpreta rationes rerum come “leurs types immuables et permanents”. In
particolare, Lachat più avanti traduce rationes
come “natures particulières”, ove chiaramente affiora la vicinanza semantica al
significato novecentesco della parola razza. Ma addirittura il Lachat si
dilunga sul concetto di rationes rerum accostandolo attraverso il senso
già assodato di “idea platonica” al logos
greco, e al nous, cioè il pensiero
puro, spirito e verbo: “Queste parole significano ciò attraverso cui
l’intelligenza ragiona (funziona) o parla a se stessa” (Lachat, citato a p.
234, trad. mia). Non manca Aristotele: in un testo francese come la traduzione
di Oresme (sec. XIV) dell’Etica di
Aristotele (troviamo) “raisons et espèces” collegate, a testimonianza della
deriva semantica di “ratio” verso “species”, quindi anche razze nel senso
zootecnico.
E’ chiaro che, se rationes può assumere il significato di
“tipi”, il passaggio a “razze” è presto fatto. Ma ci sono ancora secoli tra
queste elucubrazioni dei Padri della Chiesa e l’oggi. E’ interessante notare un
uso in inglese della parola “race”,
chiaramente coniata su “razza” come il “race” francese, “raça” portoghese e
“raza” spagnolo[5], in un
contesto alquanto inconsueto; il dottor Johnson, scrittore e dotto inglese del
‘700, scrive nel 1783: “I hope (her disease) is not of the cephalic race”,
cioè, traduce Spitzer: “Spero che la sua malattia non sia di razza cefalica”.
Il significato spregiativo di “razza” è rintracciato da
Spitzer nei testi biblici: egli cita il Vangelo di Matteo nel quale Giovanni
Battista chiama i Farisei “progenie di vipere”, che le traduzioni francesi
rendono con “race de vipères”. Ed effettivamente, rincara il linguista,
l’insulto “espèce d’idiot!” è assai più forte di” idiot!”: “specie di” accenna
“ad una sfumatura animalesca”.
L’ultimo tassello per arrivare alle teorie razziste del
Terzo Reich e al loro attuale nefasto risorgere in Europa si trova nel
positivismo evoluzionista del Taine, che sotto l’influenza di Darwin applica
“il concetto di razze animali allo svolgimento della storia umana” (ibid. pag.
238). E così L. F. Clauss (1935) può candidamente asserire nel periodico Rasse che la razza è una “legge di
struttura ereditaria che agisce in qualsiasi proprietà possa l’individuo mai
possedere e le conferisce uno stile (sic!)” e E. Glässer (1939) afferma a sua
volta:” Il fondamento biologico del concetto di razza implica che la razza mantenga
nel suo evolversi le proprie qualità specifiche”. Siamo agli antipodi della
moderna scienza genetica che mostra come il gradiente di differenziazione
genica inter e intra gruppi anche ristretti sia difficile da determinare e
funzione di molte variabil,i tra le quali la distanza geografica, l’influenza
dell’ambiente esterno e le mutazioni casuali. A proposito della classificazione
dei gruppi umani il Cavalli Sforza conclude: “Mi sembra più saggio rinunciare a
una classificazione impossibile o totalmente arbitraria” (op.cit. p. 58). Meglio
allora parlare solo di razze bovine o equine. Appunto, dalle stelle platoniche
e tomistiche, dalla mente divina, alle stalle degli allevatori.
Accennavo prima alla vastità di un campo semantico nel quale
il termine “razza” può collocarsi al centro, dal quale si dipanano concetti
diversi ma con un certo grado di affinità con esso e che egualmente servono
bene lo scopo di discriminare, classificare e gerarchizzare secondo scale di
valori arbitrarie gruppi umani e individui ad essi appartenenti. Pensiamo a
termini come etnia, cultura, civiltà, e alla famosa quanto fumosa “guerra di
civiltà” di Huntington, al persistente sentimento di superiorità più o meno
confessato nei confronti di persone “di colore”. Negli anni ’90 si è cominciato
a discettare di “etnie” anche per quanto riguardava l’Italia, attribuendo al
termine una realtà statica, biologica e non di costume, immune alle aleatorietà
dei percorsi storici, degli incontri di popolazioni e fluttuazioni migratorie, delle
idiosincrasie individuali o di gruppo. Le velleità secessioniste della Lega
Nord italiana si reggevano su fantasiose ricostruzioni di ascendenze celtiche
delle popolazioni del Nord-est. Tanto più ridicola la pretesa se si conosce la
storia della nostra penisola, terreno di innumerevoli invasioni, occupazioni e
scorrerie dei popoli più diversi da millenni.
La costruzione truffaldina di fantomatiche “etnie” ha
rivelato soprattutto in Africa la sua venefica potenzialità assassina. Il caso
del Burundi è una illustrazione di scuola delle conseguenze nefaste delle
etichette inventate e apposte ad arte dal colonizzatore per dividere la
popolazione colonizzata e meglio imporre il proprio dominio. Nel Burundi
precoloniale le due “etnie” oggi presentate come in perpetua contrapposizione
non esistevano: la popolazione constava di quattro categorie sociali: Bahutu,
Batutsi, Baganwa e Batwa, che obbedivano a un unico mwami (re), immerse in una
cultura omogenea e parlanti una stessa lingua[6].
Il colonialismo belga cominciò a favoleggiare di ascendenze Egiziane e Etiopi
dei Batutsi, in generale alti e slanciati, dai lineamenti più fini, mentre la
maggioranza dei Bahutu aveva caratteristiche fisiche più rispondenti all’idea classica
dell’africano Bantu: erano tarchiati e dai lineamenti marcati, labbra spesse,
naso schiacciato, statura più bassa. A delle caratteristiche fisiche si
apposero poi doti morali o al contrario difetti: i Batutsi furono esaltati come
più intelligenti, affidabili e seri, e furono privilegiati nella
scolarizzazione e negli impieghi statali, mentre i Bahutu venivano designati
come pigri, sfuggenti, incostanti, per cui furono relegati nei bassi ranghi
sociali. I Batwa (pigmei) erano dipinti come nati per servire, come classe
sottomessa da sempre, dei paria. I Baganwa, originariamente una aristocrazia
dinastica e principi di sangue, furono assimilati ai Batutsi.
In pochi decenni il colonialismo belga riuscì a creare una
fasulla cristallizzazione etnica e a porre così le premesse delle sanguinose
guerre civili che scoppiarono appena poco dopo l’indipendenza (nel 1965 e nel
1972) le cui conseguenze sono ancora vive oggigiorno. Il Rwanda non ebbe sorte
migliore anche se le proporzioni delle due “etnie” principali erano rovesciate,
e l’odio che scaturì dalla rivalità etnica sfociò nel genocidio del 1994.
Di ogni discriminazione, di ogni classificazione, di ogni
etichetta che prescinda dall’individuo in carne ed ossa nella sua unicità si
può dire ciò che Max Müller, citato da Spitzer, diceva nel 1888:” Per me, un
etnologo che parli di razza ariana, di sangue ariano, di occhi e capelli
ariani, è un criminale non meno grande di un linguista che parli di un
dizionario dolicocefalo o di una grammatica brachicefala” (Spitzer, ibid., pag.
325). Forse nelle scuole, alla televisione, nei giornali e riviste i governi di
questa Europa sempre più minata alle fondamenta dovrebbero insistere molto di più
sulle implicazioni di questo passato che protende la sua ombra cupa sul
presente, e astenersi dallo stringere patti col diavolo per tentare di arginare
un’ondata migratoria impossibile da fermare: la storia non si blocca ma può
deflagrare.
[1] Luigi
Luca Cavalli Sforza. Geni, Popoli e
Lingue. Adelphi, 1996.
[2] John L. Austin. How to do things with words. 1962.
[3] Salvioni
e Meyer-Lübke.
[4] Leo
Spitzer. Critica stilistica e semantica
storica. Laterza, 1966, p.230.
[5] Il
tedesco ha invece, oltre a “Rasse”,” Art”, usato nei composti artfremd=
estraneo alla razza, arthaft= consentaneo alla razza, arteigen= proprio alla
razza, ecc. Si noti: die Arten der Tieren= le specie di animali, ove il
connotato zoologico emerge in pieno (esempi tratti da L. Spitzer, op.cit.).
[6]Joseph Gahama e Augustin Myuyekure. »
Jeu ethnique, idéologie missionaire et politique coloniale. Le cas du
Burundi », in J.P. Chrétien et G. Prunier. Les ethnies ont une histoire. Karthala-ACCT, 1989.
Si, purtroppo esistono discriminazioni di 'razza' ma questo concetto discriminatorio ha origini lontane: ci sono discriminazioni anche di sesso, colore, religione, credo politico, e anche botte da orbi tra laziali e romanisti !
RispondiEliminaGiusto ma non rientrava nel raggio più circoscritto del mio intervento. Tuttavia il fatto di concludere che ogni discriminazione che prescinda dal singolo individuo è assurda mi pare comprenda anche il vostro caso.
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