STORIE SCERVELLATE PER TEMPI DISASTRATI
“ …E quei libri che dovevi scrivere con
lettere come titoli. Ha letto il suo F? Ah, si, ma preferisco Q. Certo, ma W è
meraviglioso. Ah, si, W. (J. Joyce, Ulisse,
p. 50)
La Signora Anastasia
Adombrata per
l’attentato anarchico architettato da un’ala autonoma dell’Accademia degli
anziani artisti autistici di Aosta, la Sig.ra Anastasia, di ascendenza
asburgica, si arrampicò su un anacardio adulto dove albergava da anni un airone
apatico che l’aristocratica allontanò con astio e, dopo aver arringato
dall’alto una adunata di ascari arrapati all’uopo avvertiti anticipatamente,
affittò un astrolabio ad un assonnato attore di avanspettacolo aduso agli astri
che si attardava nell’atrio dell’attigua Ambasciata delle Andamane, e si
avventurò sull’Atlantico abbarbicata ad un aquilone autorizzato
dall’Aeronautica, con il quale attraversò asfittici arcipelaghi per atterrare
avventatamente in Argentina su un alano asmatico abbruttito dall’astinenza che,
abbagliato dall’ avvenenza della signora Anastasia, la azzannò ardente d’amore,
ammazzandola.
La signora
Bernarda
Bilanciandosi
bellicosamente in bilico sul bordo della barca tipo bucintoro abbordata da
beceri bagnini abusivi per fare bisboccia e brancicarla con bramosia, la
signora Bernarda, brevettata buttafuori di Boncellino, abbrancava per la barba
il più bellicoso tra i birboni e lo sbatteva brutalmente in mezzo ad un branco
di balenotteri bruni. Basiti per la bravata burlona, i buzzurri brindavano alla
bella con un beverone a base di bismuto e belladonna in barattoli con il
bollino del Barolo e battevano dei bonghi con bacchette di betulla mentre
Bernarda ballava la bossa nova per sbalordirli, e brandiva banalmente un
binocolo con il quale beccava il baluginio nella bruma di un bimotore biposto
che, al suo sbracciarsi, si abbassava e badava a sbolognarla dalla barca dei
bulli balordi imbracandola in bretelle di batista blu abbottonate ad un bidone
di benzina.
Il Sig.
Calogero
Cullandosi
comodamente sulla coltre color cremisi del copriletto nel caldo crepuscolo che
calava sulla cuspide della cattedrale, il sig. Calogero, capo cuoco alla corte del Cardinale, constatò costernato
che contorti calli cominciavano a costellargli i calcagni e crescevano
continuamente, compromettendo la sua capacità di camminare.
Congetturando
che le cospicue concrezioni cornee si
collegassero a una cupa congiura della crudele cosca dei Cruciferi che,
crivellati dai crampi al colon alla cena del cardinale per la cattiva cottura
della crostata di cotenne di canguro da lui confezionata, avessero
credibilmente corrotto il ciabattino affinché cospargesse di collaudata colla
calligena il cuoio delle sue calzature, condannandolo a claudicare in cucina e
a compromettere la complessa confezione del cotechino di cercopiteco concepito
per la colazione cardinalizia alla Congregazione di S. Cunegonda, nella quale i
catecumeni dei Cruciferi comparivano nella cerchia dei convitati, il sig.
Calogero capì che la sua carriera era catastroficamente compromessa, e la
cocente consapevolezza lo costrinse a calarsi dal cornicione di casa con corde
di calicò, causando il collasso delle corde e il crollo del cornicione, con
conseguente conflagrazione del corpo, il che consegnò il cadavere del
capocuoco, il fu sig. Calogero, al catafalco, che fu cosparso compuntamente di
candide calle dai Cruciferi, colpevoli non confessi di capocuochicidio.
Il sig. Diego
Duranti
Quando gli
sdentati doberman del duca di Domodossola addentarono un dito a un dinoccolato
donnaiolo delle Dolomiti di nome Diego Duranti, dubbi dolorosi si addentrarono
nei meandri dendritici della debilitata duramadre del dirigente dei dragoni di
Durazzo deportati sulle Dolomiti, che, indottrinato da dotti dentisti dementi,
dedusse che induriti delinquenti destinassero diaboliche dentiere adattate alle
dimensioni dentarie dei doberman a danno di indifesi individui dondolanti tra i
dossi dorati, per cui due distratti dragoni con doppiette furono tradotti su una diligenza con destinazione a Dobbiaco,
dove, a digiuno, diligentemente deglutirono un doppio digestivo drogato da un
addestratore di doberman, il che li indusse a dormire, dimentichi del dovere di
indagare sulle dubbie dentiere che indisturbate dilagarono tra i doberman
sdentati di Domodossola che definitivamente distrussero dilaniandoli i
donnaioli dolomitici, dei quali Diego Duranti indossava il distintivo.
Don Evaristo
Errando per
un’erma elevazione erbosa del suo Eremo, elegante ed esclusivo eden d’elezione
per encomiabili ed eccellenti nonché eminenti evasori di erario, Don Evaristo,
ex-entomologo ed esegeta dell’Ecclesiaste, elogiato estensore di eloquenti
elegie sulle esiziali esalazioni delle erculee etere ebbre di elleboro,
esaminava senza esitare un esaustivo elenco di escort extracomunitarie (e non)
da espellere dall’eremo per esportarle
in Eritrea, poiché si evinceva che le esuberanti etere avevano escogitato
effrazioni di eventuali efebi-esca per emungimenti esagerati degli emolumenti
delle sue eccellenze ed eminenze evasive. Ma Eva, escort etiope eterodossa ed
eversiva, esperta di esotici ed esoterici elisir, aveva estrosamente estratto
dagli elicrisi una essenza extra-esplosiva elaborandola da esemplificazioni
esibite su una epigrafe egiziana esposta all’entrata dell’Eremo, ed ecco che
l’elenco delle escort da estromettere dall’esercizio erotico-eremitico esplode
espellendo estranei escrementi su una espressione esterrefatta di Don Evaristo.
Il Sig.
Fulgenzio
Frastornato
da funesti fantasmi forieri di una fine ferale, frustrato dalla fugacità della
foia favorita dalle floride forme della fedifraga fantesca, fiutate fetide sue flatulenze
funzionali alla frequente fruizione di frammentarie frattaglie fermentate di
focena fritte a Forlimpopoli dal focoso frate Felino con funzione afrodisiaca,
fantasticando altresì sulla fragilità delle future falliche fortune che dai
fasti di favolose fottute sarebbero fatalmente fluite verso effimeri frulli
fatiscenti e sfiatati fremiti, il signor Fulgenzio, (ex) fulvo e facoltoso
fittavolo, fuggì frettolosamente dalle furtive fregole fiondandosi sul
finestrone che fronteggiava una foresta di faggi frondosi e con falcata da
fenicottero non conforme alle sue frolle fattezze fendette le fronde, finendo
col frangersi con fracasso in finissimi frammenti nel fango del fosso fiorito
di fiordalisi.
Il Sig. Gedeone
In un gelido giovedì di gennaio
il sig. Gedeone, gelataio in gilè giallo girasole, girellava in una
Giardinetta GT per via Genova gemendo per i geloni alle ginocchia e giurava che
avrebbe giustiziato, con una gragnuola di granate che aveva nella giberna del
genitore, generale della guerra 1915-18, i gradassi gendarmi di guardia nel
giardino dei gerani del già gioielliere Gerolamo, ove in una giara giaceva una
gigantesca giada giunta da Gerusalemme a Gaeta in una giunca guidata da un
gruppettaro di Giannutri, già giannizzero di Gerolamo.
Ma il genero del sig. Gedeone, un grassoccio gianburrasca giuggiolone
che girandolava tutto il giorno al Giambellino, di nome Giustino, si era
giocato le granate per pagarsi la giostra a gogo giusto quel giovedì di
gennaio. Con grandi geremiadi e giaculatorie, il sig. Gedeone congiurò
congiuntamente contro il giostraio e il genero e gettò un girarrosto di ghisa
nei giunti della giostra su cui gioiva Giustino. I giunti gripparono e il
giocherellone finì congelato sulla giostra. Già il sig. Gedeone gongolava, ma
fu ghermito come don Giovanni in un gorgo geologico globale e grigliato
gentilmente nei gironi della geenna dal genero giocherellone, di nome Giustino.
Il sig. Irino
Imbianchino indipendente ad Ivrea, il sig.Irino incoraggiava
l’imbiancatura di infrazioni e imposture infime o immani, con inappuntabile
inventiva e ingegnosità, all’insegna dell’inoppugnabile indifferenza alle
insidie delle indagini di ispettori e investigatori incauti e irrispettosi
dell’immunità inerente a individui pur ignobili ma intoccabili, e quindi
immacolati indi integerrimi. Infastidito da insinuazioni impertinenti di
incursioni inquisitive imminenti per investimenti immobiliari illeciti di
incliti imputati, il sig. Irino invitava un intelligentissimo idraulico di
Imola ad inventare idranti innaffianti inchiostro irritante e idiotizzante, da
immettere sugli itinerari informatici degli investigatori, inseriti in icone
invitanti e inaggirabili. L’idraulico inforcò un idrovolante per ispirarsi,
iniziando a immaginare incastri idraulico-informatici insoliti da inviare
involti in involucri immateriali non identificabili, intendendo intascare immediatamente l’intero importo
implicito nell’imbroglio, ma incappò in un inaspettato inghippo ideativo, e invece di idranti con
inchiostro idiotizzante inventò idrovore istantanee che, iniettate
informaticamente nelle icone da inviare agli investigatori importuni,
ingoiarono informalmente l’inavvertito idraulico. Inconsolabile, il sig. Irino
si impiccò con il suo iguana all’indice imponente di un idolo Inca incontrato
in un’incisione in folio.
La signora Lucilla
Lambita dalla lingua lanceolata di un leopardo in una landa lontana
della Sierra Leone allorquando lavorava di lombi lascivamente allungata su un
laconico lenone, la signora Lucilla lusingò con un lirico Lied di Leoncavallo i
luridi leopardi allupati che si leccavano le labbra all’intorno e, illustrando
la legittimità della legge di Lucullo sulla leggerezza delle lolite lubrificate
e lungimiranti, si librò con lena da allenatrice di liana in liana fino alla
lussuosa Lamborghini di un languido legnaiolo luminosa nella luna, e si
lanciò lietamente lungo la laguna lussureggiante lumeggiata dal lirico lucore.
Marino il Marinaio
Un mesto meriggio del mese di marzo del 19…, la motonave Mimì macinava
miglia nel mugolare del maestrale, quando il muggito di un micidiale mulinello
montò minaccioso, mentre i marosi mutavano i motori in moncherini e le murate
in miseri mozziconi, mangiandosi in un momento merci, mozzi e marinai.
Il Maelstrom! Il Maelstrom!
Macinato dal maglio del mitico Maelstrom, massacrato nella mischia di
motociclette, mandolini, materassi e minibar, Marino il Marinaio mulinava e,
meditando melanconico sulla morte imminente, mordicchiava una mela maturata a
Manhattan, quando un molare già malato si manifestò malvagiamente, minacciando
un malaugurato mal di denti che lo avrebbe molestato molto. Marino si mise di
malumore. Morire in mare per un marinaio era meraviglioso, e nel Maelstrom era
magnifico, ma con un molare maleodorante e marcio era mortificante!
Già malediceva la malasorte, quando ebbe memoria di un melmoso Miramare
maghrebino dove un mago delle Maldive con Master al MIT misurava una miscela
per il mal di denti, misturando mammelle di marmotte, marmellata di mitili e
mignoli di manguste con miele millefiori. Nel mezzo del martirio maelstromico,
il mal di denti era moltiplicato, ma Marino maneggiava per mettere le mani
sulle materie prime della mistura magica: nel Maelstrom moltitudini di masse si
mescolano!
E immantinente, dalla manica del mantello di un mercante di Mosul, mammella
di marmotta, marmellata di mitili e mignoli di mangusta con miele millefiori misteriosamente
miscelati al milligrammo si ammainarono sul molare malato di Marino e lo
ammansirono immediatamente.
Sommerso nell’imo, Marino il Marinaio mormorava maldestramente una marcetta
militare a mò di messa per i morti in mare, quando un massiccio maremoto in un
momento lo mandò come un missile dentro il mastello di mutande a mollo di una
massaia di Malmo che lo fece multare per maleducazione.
Nada
Niente nuoce a Nada più della nebbia di novembre a Napoli, la nebbia che
nega l’altresì netta nomenclatura della natura naturata, annacqua il nitore dei
nerbi dei nespoli che innervano lo snodo del nastro della Nazionale e nasconde
i nidi dove si rannicchiano le nottole, nane nottambule. Nirvana, nostalgia del
naufragio nel nulla del nirvana come necessario nadir, nettare e narcotico.
Noncurante dei neri nembi nevosi su Napoli, Nada nuota nella nebbia e nella
notte per rinascere nuova su un nuraghe di Nettuno, e annegando nota una nave
nichelata il cui nostromo ha noleggiato un narvalo coperto di novanta nacchere
per le sue nozze con una Nereide di Naxos.
Il Conte Oddone
Offeso nel suo onore di ospite ossequiato e ormai ostaggio
dell’ossessivo e obeso oste Oronzo, che si ostinava a offrirgli a ogni ora
obsolete ostriche di Ognissanti con oloturie in olio di opossum, il Conte
Oddone di Otranto ordiva, con otto odalische oriunde dell’Oman, l’omicidio
dell’odiato oppressore.
Avendo l’orto dell’osteria un oblungo orifizio orientato a ovest ove un
oratore orbo, osannato a Ostuni come oracolo di Osiride e ostile a Oronzo,
aveva occultato un obice di origine ottomana, ottemperando all’obbligo
originato da una oscura omelia ostrogota, l’opzione più opportuna sembrò
l’olocausto di una odalisca ottuagenaria con funzione di otturatore dell’obice
per ottundere con offensiva ed omerica omelette alle ostriche l’oste Oronzo
nella sua ora di relax nell’orto.
L’omelette olezzante sull’omero indusse in Oronzo un orgasmo obnubilante
che lo obliterò dall’orbe con un osanna.
La Signora Pompea
Perseguitata dal pensiero di non essere prescelta tra proliferanti
plotoni di professori precari alle Professionali
di Pozzallo, la previdente sig.ra Pompea pensò di pagarsi un passaggio su di un
piroscafo preventivamente prenotato a Pasqua e puntare su un posto permanente
in Polinesia.
In partenza, percorrendo la piazza prospiciente il porto appesantita dai
pacchi, poneva un piede, particolarmente piatto, su una proditoria pelle di
pollo, il che la proiettava come una palla di piombo su una piramide di pattume
e percolato provvisoriamente parcheggiata nei paraggi del promontorio di Capo
Passero e la faceva precipitare dal pizzo del picco, planandola però su di un
pellicano che praticava come pesista nella palestra principale di Palermo che
la posava con precauzione su una pretenziosa paranza perfezionata per la pesca
dei prelibati pesci pinnati del Paraguay, purtroppo senza prenotazione,
procurando panico protratto tra i pescatori plurilingui che, paventando
pratiche perverse di pirateria, pensarono di punirla pretendendo da lei la
pelatura di patate a perpetuità lungo il periplo del pianeta. La signora Pompea
puntigliosamente puntualizzava che avrebbe preferito preparare perennemente
purea di piselli, al che i pescatori, premurosamente preoccupati per la penuria
di piselli nelle provviste della paranza, le prestavano un pallone aerostatico
con propellente pirotecnico e paniere a due posti, con il quale la signora
Pompea si pilotò con perizia sul Pacifico, proponendosi come partner ad un
paracadutista di passaggio portato dalla pioggia, con il quale, alle pendici
del Pinatubo, promosse una piantagione di papaie e produsse prolifica progenie.
Il Sig. Quirino
Quando il questore di Quintavalle querelò un querulo chimico del Quebec
che chiedeva di squalificare le quote di quattro quaccheri squattrinati per la
questua della Quaresima, equivocando su quisquilie, il sig. Quirino,
questurino, disquisì sulla questione chiarendo che le quote dovevano essere
riqualificate qualitativamente e non quantitativamente, ed equiparate con
equanimità all’equivalenza derivata dagli inquadramenti che quantificavano le
quotizzazioni più eque già archiviate al
catasto del quartiere, e con ciò citava i quaderni del Qumran che gli
inquirenti dei quattro quaccheri avrebbero potuto requisire per chiarimenti. Ma
le inique querimonie del chimico misero a soqquadro il quartiere dei quaccheri
che squalificarono la querela del questore e inviarono squadracce di scudieri a
scudisciare il querulo chimico. Il sig. Quirino, anticipando i quarti di finale
dei quiz del quartiere dei quaccheri, reinquadrò le squadracce con quarantenni
squinternati che inquinarono con quintali di chinino i quadrelli (in brodo) del
chimico che si liquefece in quarantamila miliardi di quark, e chiuse così il
contenzioso sulla questione delle quote della questua della Quaresima
contestate per la quantità quotizzata dai quattro quaccheri squattrinati.
Il sig. Rodrigo
Irridendo le rodate regole della ragione, il sig. Rodrigo, randagio
reduce dalla remota Rondonia, rubava rapidamente una raffazzonata Rolls-Royce
rossa dalla rimessa di un rigattiere di Rovigo
rassegnato alla rovina, che
russava riverso su un rigagnolo rubicondo di Rubesco e, ringalluzzito dalla
riuscita della raffinata refurtiva, rimuginando rarefatti ricordi di rudi
rodomontate, raggiungeva a razzo la rada di S. Rotondo sulla cui riva era
riparato un rimorchiatore a remi, recentemente riscattato ai Ruteni e rifugio
romantico di un rapato ragioniere che vi ruminava le sue rime reumatiche, e lo
ridusse in rottami con la rossa Rolls-Royce
che vi irruppe rombando.
Il sig. Sisto
Sollevando con solerte sussulto le sue snelle spoglie, un sudato sig.
Sisto si assestò con sussiego il
sontuoso sudario che soleva indossare scatenando scalmanate sarabande il sabato
sera, scartando con sufficienza il solito sudario di seta sintetica, che
stizzito e seccato dello sgarbo, con sinistro sibilo si sollevò subitaneo sul
dissestato sepolcro, sottraendosi con scarti serpentini alle sciabordate
del sig. Sisto, le cui ancor sode spoglie subirono l’assalto di uno scervellato
stupratore assatanato di sesso con trapassati che sostava con sozzi suoi simili
sulla salita del sacrario, mentre il suddetto sudario sintetico, sollecitato
nei sensi dalla scena, assumendo subdole sembianze di sudario da sera, si
insinuava sculettando di seduzione nella soffitta di uno svampito scienziato di
Scientology che si stava stropicciando la schiena sorretto da scombinate
stampelle e finì per soccombere sopraffatto dalla scura sagoma del sensuale
sudario da sera, subendo subitanea sincope che lo sotterrò il sabato seguente
nel secondo sepolcro a sinistra del sig. Sisto.
Il Sig.Traù
Travolto da un tram truculento in un tragico tramonto teratologico, il
sig. Traù si ritrovò triste e traumatizzato a trotterellare dietro a un trolley
traballante su cui troneggiava una truccatissima troia, i cui tratti tradivano un
tedio tardivo. Tuttavia, attratto attraverso tetri tratturi da una turpe torre
turca, trafugata a temporanei tartari dal trisavolo, ivi tracollò traumatizzato
e tremante per intraprendere la traduzione dal turcomanno di una trita tiritera
che trattava di torti e tormenti inflitti dai traditori dei turchi al torturato
trisnonno. Trascorsi tre turni di traduzione,
il sig. Traù terminò teoricamente il suo iter terreno tormentato da trilioni di
tordi tripudianti sulle travi della torre turca, mentre traduceva la trita
tiritera turandosi i timpani trapanati dai trilli dei terribili tordi.
Il Dottor Ugo
Ustionato dall’ugello di un Ufo ultrapiatto proveniente da Urano e
soccorso da un umile usciere dell’Ufficio Universale per le urgenze
ultraterrene promosso dagli Ussari d’Ungheria ubicato a Urzulei che, usando un
unguento urticante, lo ustionò ulteriormente, il Dott. Ugo, umbratile urologo
di Urbino, urlò urbanamente la sua uggia e uccise l’usciere utilizzando un
usbergo uncinato usato usualmente dagli Unni.
La sig.ra Viviana
Un vento vorticoso vivacizzato da volatili avvolgeva la vivida vampa del
volto vindice della signora Viviana, avvenente e voluminosa valdese, avvinta a
un viluppo di vipere svenate, il cui veleno versava con vigore in una
variopinta vasca nella quale verbose vallette dalla voce volgare versavano
violentemente voluminosi vocabolari svillaneggiando un villoso e viscido
vegliardo, invischiato in vigliacchi vizi vivificati dal Viagra, che aveva vilipeso la verità col vuoto vanto delle sue voluttuose vicende. Il veleno, tra
volute di vapore violetto, svelò velocemente nel vegliardo il vampiro che vi
vegetava. Vinto il vampiro avvalendosi delle verbose vallette, la vittoriosa
Viviana si avviava in velocipede nel vespro che vellutava i viburni, senza
avvedersi di un avvinazzato vichingo non-vedente avvisato di divieto di
viabilità su un viadotto da una vigilessa virile che vergava il verbale.
Viviana investiva veridicamente vichingo e vigilessa, inverando il verdetto in
vernacolo del venerabile vate Venanzio Volturno, che le aveva vaticinato l’avvento
di una vendetta vertente sui vezzi violati di una Valchiria da parte di un suo
vorace avo vissuto a Verona.
La zoccola Zerlina
Zigzagando per sollazzo con la sua zattera zincata tra le zanzare del
fiume Zambesi, Zerlina, una zoccola di Zurigo azzimata in una zimarra color
zaffiro con alamari di zircone, imbracciava la sua Zenit e zoomava su uno
zoologo zuzzurellone e un po’ zuccone, Zacaria, che si azzuffava con una zebra
della zona munita di zanne e zeppa di zecche, destinata a uno zoo di Zanzibar.
Zufolando, Zerlina attirava l’attenzione di Zacaria, nel cui cazzo,
sotto propizia influenza zodiacale e zoroastrale, si risvegliava un certo
uzzolo. Azzerato con una zampata il potenziale zotico della zebra, lo zoologo
la zaffava in un capace zaino e confezionava zelante su uno zerbino di zebù uno
zuccotto di zenzero, zafferano e zucchero zigrinato al fine di ingraziarsi il ghiribizzo
di Zerlina. L’azzimata zoccola infatti zompava zampettando dalla zattera sulle
zolle della Zambesia, ma gli zampilli e le zacchere le inzupparono la zimarra
azzurrina regalatale dallo Zar.
Incazzata, Zerlina azzannava lo zuccotto ma brandiva la sua Zenit come
zappa e, zacchete, azzoppava lo zoologo Zacaria e lo zippava con Winzip.
Nessun commento:
Posta un commento