L’INVENZIONE DELLA TRADIZIONE E
LA CENA DI SISINNIO
L’immagine mostra non il primo, come si legge in qualche website, ma uno dei murales che dipingemmo sui muri di Orgosolo in quell’estate indimenticabile del 1969. Oggi ce ne sono a decine e costituiscono un documento sociale, culturale e umano emblematico, imitato in molti paesi dell’isola (https://pinterest.it). E mai allora lo avremmo immaginato.
Il Gruppo teatrale Dioniso, autore dei primi murales orgolesi, era composto da poche persone. Ci eravamo conosciuti in primavera a Milano alla Casa dello Studente e del Lavoratore, ex Hotel Commercio occupato da studenti e lavoratori senza casa, che era diventato un centro di organizzazione e discussione per la sinistra extraparlamentare locale. L’iniziatore era Giancarlo Celli, uomo di teatro da anni, regista e ribelle, anti borghese e dichiarato anarchico. Io propendevo più per un approccio marxista ma le sottigliezze ideologiche non ci interessavano troppo. Il teatro di strada si, un teatro mobilitante, di presa di coscienza di nuove realtà o della propria, quello ci interessava e univa. Avevamo in mente le imprese del Living Theater e Giancarlo era un patito di Jerzy Grotowski. Iniziammo con la lotta per lo sciopero degli affitti troppo alti e contro gli sfratti delle famiglie che lo praticavano da parte di squadre di poliziotti. Anche gli affitti delle case popolari, oggi un lontano ricordo per molti, erano eccessivi per operai o peggio disoccupati. Così mettemmo in piedi un intervento a Quarto Oggiaro, nella periferia di Milano.
Manifestazione a Pratobello, Orgosolo, 1969 |
In giugno i pastori di Orgosolo insorsero contro l’occupazione dei loro pascoli a Pratobello da parte dell’esercito per farne un poligono di tiro per l’estate (www.infoaut.org). Tutta la popolazione fu solidale e il poligono non si fece. Questo fatto di cronaca ampiamente riportato dai giornali ci fece intravedere un orizzonte di intervento diverso e più eccitante di Milano. L’alone di esotismo che circondava la Sardegna, il ribellismo dei banditi sardi, la leggenda di Graziano Mesina (che oggi pare sia di nuovo latitante a 78 anni), nell’atmosfera bollente della contestazione sociale di allora furono tutti fattori che ci spinsero a decidere di partire per la Sardegna e ideare un tipo di intervento con varie componenti che favorisse la prosecuzione della lotta antimilitarista. In poco tempo tra compagni, amici, conoscenti, parenti e simpatizzanti facemmo una colletta per sostenere le spese di viaggio e soggiorno, contando su futuri contributi locali e sulla buona sorte e sbarcammo a piccoli scaglioni nei primi giorni di luglio a Golfo Aranci.
Nuraghe vicino a Orgosolo |
Ricordo la prima impressione della Sardegna nel viaggio tra la Gallura e Siniscola fino a Sa Caletta, un minuscolo gruppo di case su una spiaggia incantevole dove si era installato l’accampamento delle nostre canadesi e “la cucina”. I compagni arrivati nei giorni precedenti avevano già solidarizzato con gli abitanti, quasi tutti pescatori, e nella capace Ford di Giancarlo (arrivata per prima con tutto il nostro armamentario professionale e logistico) c’era qualcuno che mi disse, accennando alla fittissima macchia verde cupo su entrambi i lati del nastro d’asfalto che percorrevamo: “ Se entri qui e fai qualche metro, non ne esci più”. Fu la stessa impressione che provai poi in Messico nel 1984 guardando la giungla intorno all’autobus sulla strada da Cancun a Cozumel. Impenetrable. Una muraglia profumata. Oggi non ce n’è più traccia. |
Nelle poche settimane, forse due o tre, preparammo la nostra piece teatrale militante che finiva in un coro, un inno alla ribellione, con l’allora famoso “Contessa” di Pietrangeli (https://youtu.be/QcNhFggo8).
Mamutones, Mamoiada |
L”incontro con la Sardegna di allora fu per me un violento shock culturale, un antipasto della mia futura carriera di “straniera professionale”, ovvero di cooperazione internazionale. La vita dei pastori su negli ovili, il cibo, la durezza delle loro condizioni di vita, quelle donne intabarrate nelle loro lunghe gonne nere con la testa coperta da uno scialle, la lingua incomprensibile e l’asprezza del paesaggio - ricordo Monte Albo dove partecipammo a uno “spuntino” a base di montone bollito, vino e carta e’ musica, il pane karasau che oggi si trova nei supermercati - erano lontano anni luce dalla vita di studentessa che avevo appena concluso con la laurea ad aprile. Già passare dall’esegesi dell’Ulysses di Joyce a Lenin e Marcuse era stato un bel salto, ma la Sardegna era terra incognita totale, nonostante le mie letture affrettate nella biblioteca Sormani a Milano. E non ero la sola a provare quel profondo senso di spaesamento. Ma il teatro, il dialogo maieutico, l’osservazione che poi saprò si chiama partecipante, soprattutto l’onestà intellettuale e la solidarietà umana furono le leve che usammo e funzionarono almeno in parte. Anche se fu dura, non tanto a Sa Caletta, che fu un prologo, ma quando iniziammo a presentarci come gruppo teatrale e ad agire, a Mamoiada.
Intanto il nostro gruppetto iniziale era cresciuto con arrivi di compagni e compagne, quasi tutti e tutte dell’Accademia di Brera, il che facilito’ l’uso dei murales come strumento di discussione e coscientizzazione, termine caro a Paulo Freire, il grande pedagogista brasiliano. A Mamoiada avemmo il piacere di ricevere una visita notturna di fascisti che scesero da Sassari con mazze e spranghe per assalirci di notte nel nostro accampamento di tende canadesi, attentato sventato fortunosamente dall’udito finissimo del mio compagno che uscì dalla tenda mezzo nudo e fermò la prima mazzata. Dopo di che da buoni coscientizzatori cercammo il dialogo per entrare in contatto umano, con successo; il massimo fu l’offerta di compresse per il mal di testa a un fascista che si lamentava di emicrania. Ringraziamenti, catarsi e ritirata. Il fatto fini’ sui giornali e ci procurò solidarietà e amicizie.
Mamutones, Mamoiada |
Potente fu l’impressione della danza dei Mamuthones in piazza (https://it.m.wikipedia.org/wiki/Mam); tutto mi riusciva di difficile decrittazione, così come le monotone melodie degli scacciapensieri che duravano …interminabilmente. Ho ascoltato qualcosa di simile molti anni dopo in un villaggio del Mali, nel Beledougou.
Dopo la nostra rappresentazione teatrale, che non so quanto fu compresa ma destò curiosità, procedemmo verso il vero obiettivo della nostra spedizione: Orgosolo, la terra dei ribelli. Che però, scoprimmo, era non solo popolata da servi pastori e reietti ma dai padroni delle greggi che rivoluzionari non erano affatto. E da donne che apparivano sfingi distanti, diffidenti e indecifrabili. Vestite sempre di nero o marrone.
Dipinto: un angolo di Orgosolo, data? |
L’abitato era molto più ridotto di oggi, composto di casette basse e piccole tanche; ci stabilimmo su un campo di patate, vicino a una fonte da cui scendeva un filo d’acqua supposta potabile, sopra il paese.
E cominciammo il nostro intervento in tutte le sue componenti: un dottor Satutto (chiaramente il capocomico Giancarlo) dalla macchina in piazza rispondeva “a tutte le domande”, volantinaggi con discussioni, sedute al bar con giro classico di inviti reciproci la cui tariffa convenzionale minima era di trenta lire, e infine, prima dell’intervento teatrale, dipingemmo il primo murale. Che ricordo benissimo ma non c’è più.
Si era ad agosto e l’impressione lasciata dalla passeggiata di Armstrong sulla luna che tutti avevano visto in televisione almeno al bar era profonda. Cosa c’era di meglio per sottolineare l’abissale distanza tra le condizioni durissime di vita negli ovili dei pastori, la povertà e la disoccupazione della Barbagia e la tecnologia miliardaria del capitalismo americano che guardava al cielo e non sulla terra e alle sue miserie? Quindi scegliemmo la liscia parete di una volta a destra del corso principale - fu demolita non so quando - e vi dipingemmo al centro un’astronave ritta sulla scabra superficie lunare, con a destra Armstrong nella sua tuta con scafandro e a sinistra un servo pastore, forse con pecore o forse no, non ricordo. Ci avevano detto che un servo pastore era stato pagato per il suo lavoro di un anno con “un cappotto “. Il murale è stato riprodotto altrove, ma non è l’originale.
La contraddizione e la denuncia sociale furono chiare a tutti e mentre si abbozzava il disegno e procedeva la nascita della scena moltissimi si fermavano a parlare, chiedere e commentare, e anche ad aiutare con qualche pennellata. Ma la direzione era dei compagni di Brera e di Giancarlo. Io ho la mano infelice e fui reclutata per il colore campito, in basso. E dopo questo exploit fioccarono richieste di negozianti che volevano insegne e qualche murale relativo al loro commercio, per cui ottemperammo questa volta dietro un piccolo compenso dato che le nostre finanze erano al lumicino. Ci furono vicini soprattutto i compagni del Circolo Culturale di Orgosolo, del quale faceva parte Francesco del Casino, l’insegnante che poi continuò il nostro lavoro politico attraverso questo linguaggio visivo riscoperto, così duttile e potente. In piccole riunioni chiedevamo che cosa si voleva che rappresentassimo, quali erano i problemi più scottanti. Ormai ci chiamavano “sos maoistas”, anche se Mao Tze Tung mai lo nominammo ne’ era un nostro riferimento ideologico. Erano stati influenzati dagli articoli non benevoli della stampa locale.
Credo che la soddisfazione più grande che purtroppo i compagni morti, e soprattutto il visionario Giancarlo, non hanno potuto provare, sia stata per me scoprire molti anni dopo come un intervento puntuale di un’estate impegnata si sia trasformato in una potente propaganda della forza della coscienza critica e in strumento di una trasformazione sociale auspicata, e non solo ad Orgosolo ma in molti paesi dell’isola. Cui in tanti hanno partecipato dando il loro contributo iconico nei cinquanta anni successivi. Anche se l’onda d’urto non è mai sfociata nella rivoluzione che avevamo sognato, neanche su scala regionale.
Verso la fine d’agosto, ormai quasi di casa, ci fu l’invito che testimoniò eloquentemente la sostanziale accettazione se non forse un’approvazione totale della nostra presenza e del nostro indirizzo politico. Il barista Sisinnio, grande cacciatore - aveva a casa trofei di teste di cinghiale su ogni parete e forse anche di mufloni - invitò a cena gli uomini del nostro gruppo. Invito rigorosamente rivolto ai soli maschi del Dioniso. Ormai molti studenti e operai erano partiti ed eravamo di nuovo ridotti al nucleo milanese iniziale: gli uomini erano solo quattro, come noi ragazze. La cucina nel campo di patate e la cassa comune semivuota non ci permettevano lauti pasti, per cui l’aspettativa dei quattro fortunati prescelti era elettrica. Carne! Formaggio! Vino a volontà! E la nostra invidia era tanta. La sera fatidica attendevamo con ansia il resoconto della pantagruelica cena di Sisinnio. E il resoconto fu così esilarante che ancora scoppio a ridere quando mi torna in mente.
Al centro della tavola troneggiava una montagna semisferica di rosea carne brunita. Sisinnio, un omone in giacca di velluto, aveva preso a tagliare con un coltellaccio fette di carne sottilissime e profumate che poi fece circolare. Tre super ingordi si servirono abbondantemente mentre un quarto, più prudente, si limitò a due modeste fettine adducendo un problema di denti. E fece bene. La conversazione cominciò a languire mentre i tre malcapitati cercavano di masticare e deglutire una carne inaspettatamente coriacea. Insospettabile. Era una mammella enorme di vacca! Come può una tenera mammella trasformarsi in pietra? Questo mistero non mi è mai stato chiarito. Mastica mastica la soluzione fu inghiottire e sperare nel proprio robusto stomaco. Segui’ il famoso pecorino stagionato con i vermi, la squisitezza che ogni proprietario di gregge sardo si fa e custodisce come bene prezioso da offrire ai suoi ospiti di riguardo. La barba di Sisinnio era tutta una contorsione di minuscoli vermetti bianchi. Impossibile rifiutare: sarebbe stata un’offesa grave. Ci si sfogò con pane, vino di Oliena e vernaccia. Al ritorno i quattro compagni sembravano sopravvissuti ad una battaglia campale.
In settembre rimanemmo in due, il mio compagno ed io, e l’ultimo intervento “pittorico” fu una smagliante scritta che sormontava l’entrata del bar di Sisinnio: BAR SISINNIO, situato a destra all’entrata del paese. Ma oggi il bar non c’è più e quando tornai ad Orgosolo nel 2014 per le celebrazioni di “Flores in su Granito” organizzate delle compagne del gruppo Viche Viche scoprii che Sisinnio era morto da poco. Mi dispiacque molto, sarebbe stata una gioia rievocare la sua munifica cena.. e l’estate del 1969 con lui. L’estate dell’inizio della rivoluzione mancata.
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