QUATTRO CONFERENZE INTERNAZIONALI ONU SULLA DONNA DAL 1975
POI IL NULLA?[1]
Rovistando stamani tra i miei scartafacci ho trovato due fogli dattiloscritti che avevo redatto dopo aver partecipato a un incontro nazionale femminista a Roma, immediatamente dopo il ritorno delle delegate italiane di varie ONG e di gruppi di donne autonomi da Pechino. Ricordo che l’inizio quasi rituale di ogni intervento era: “Io sono stata a Pechino…” (intendendo conferenza ONU ufficiale) …, oppure: “Io ero a Huairou (luogo fuori Pechino di incontro del Forum indipendente delle ONG internazionali)”, o anche “Io non sono andata a Pechino ma…”, e che per tutta la sera con un’amica rifacemmo ridendo il verso: io ero a Pechino, io non ero a Pechino; noi non c’eravamo di sicuro, ambedue disoccupate in cerca di un ingaggio di cooperazione internazionale.
Era la quarta, l’ultima fino ad oggi, Conferenza Internazionale delle Donne varata e patrocinata dall’ONU che molte speranze ed entusiasmo aveva suscitato, pur a partire dalla constatazione dei risultati al di sotto delle aspettative delle tre precedenti conferenze. La prima si era svolta nel 1975 a Città del Messico, l’anno era stato dichiarato “anno internazionale della donna”; la sede della seconda Conferenza fu Copenhagen nel 1980 (avrebbe dovuto essere Teheran ma la rivoluzione del 1979 suggerì lo spostamento); la terza si svolse a Nairobi nel 1985, nel continente dove più la donna è un factotum il cui ruolo è misconosciuto, e spesso considerata una “proprietà privata dell’uomo”, come una volta mi disse una donna del Mali in un villaggio a fine anni ’80 - anche se oggi in molti paesi indubbi progressi sia nella legislazione sia nella vita familiare sono stati raggiunti. Si arrivò dieci anni dopo alla Conferenza di Pechino con moltissimo entusiasmo e la speranza di compiere un passo decisivo verso conquiste irrevocabili e definitive per la metà del cielo da parte delle femministe di tutto il mondo. Entusiasmo deluso: di momenti simili non ce ne furono più, gli anni 1990 furono invece decisivi per il trionfo del neoliberalismo che è indissolubilmente legato al patriarcato e al capitalismo predatore.
Rileggendo quanto avevo scritto nel 1995 mi è sembrato che quelle paginette potessero ancora avere qualche attualità oggi, quando ancora in Italia (e certo non solo) si lotta contro violenze in famiglia e femminicidi, discriminazioni salariali e di carriera, per il diritto all’aborto per gravidanze indesiderate, contro disoccupazione in prevalenza femminile e mercificazione del corpo della donna. E quando il pur dimesso concetto di empowerment che sembrava la bandiera vincente di progressive conquiste (che già criticavo come succedaneo moderato di power) è caduto in disuso e seppellito nell’oblio. Le donne stuprate nella RDC non hanno possibilità di twittare: me too.
E chi si ricorda della rivendicazione di un salario alle casalinghe?
Trascrivo di seguito il titolo e il testo di allora.
DUE PAROLE SU PECHINO
27 settembre 1995
La Conferenza mondiale delle donne a Pechino si è conclusa il 15 settembre u.s. con una dichiarazione finale che afferma “la piena applicazione dei diritti fondamentali delle donne e delle bambine”. Il 16 settembre le agenzie di stampa presumibilmente di tutto il mondo registravano e diffondevano la notizia che una ragazza filippina di 16 anni, Sara Balabagan, colpevole di avere ucciso il suo padrone e stupratore vicino a Dubai, capitale degli Emirati Arabi, era stata condannata a morte. Ma come è possibile?
Per dieci giorni a Pechino migliaia di donne di tutto il mondo di 150 paesi discutono, combattono, intrecciano rapporti per affermare la piena applicazione dei diritti umani fondamentali per uomini e donne e per far riconoscere che “la presa di decisione e l’accesso al potere delle donne sono fondamentali per l’eguaglianza, lo sviluppo e la pace". Sono state rilasciate centinaia di dichiarazioni, più o meno soddisfatte, ma nel complesso tutte sono state d’accordo nel giudicare altamente positivo l’incontro. E’ possibile che le stesse delegazioni, tornate alle loro rispettive sedi, ignorino il fatto che una ragazzina, quasi una bambina, rischia la morte per avere difeso il suo diritto alla dignità e integrità personale, che nessuno voglia lanciare una campagna di pressione per la sua salvezza? Silenzio.
Nell’articolo apparso su L’Unità del 18 settembre si accenna ad una associazione britannica per la difesa dei diritti delle donne che avrebbe lanciato un appello in favore di Sara. L’esecuzione può essere fermata solo dal capo dello Stato. Come per Mumia Abu Jamal[2] la cui condanna a morte è stata sospesa per ora dalla mobilitazione internazionale, si può lanciare subito una campagna di pressione, mostrando la capacità di far davvero rispettare i diritti proclamati, almeno quando la notizia delle violazioni arrivano alla ribalta di TV e giornali. Perché le delegazioni del Forum ONG di Pechino non si fanno sentire?
A me sembra che questa contraddizione - che spero sia controbilanciata da un pronto interessamento delle organizzazioni internazionali (Amnesty International sta seguendo il caso) e cancellata da una resipiscenza delle organizzazioni femministe - non sia una semplice coincidenza. Sia la Conferenza ufficiale ONU che il Forum delle ONG internazionali, al di là della ricchezza di spunti, di scambio di esperienze e pratiche che simili incontri comportano e quindi della legittima soddisfazione che possono suscitare tra chi vi partecipa e in chi vi è coinvolto in qualche modo, hanno puntato e puntano ormai da vari anni sull’affermazione di principio dei diritti. Ci si misura sul piano giuridico, sul terreno istituzionale più che su quello dell’organizzazione delle lotte e sulla capacità reale di far seguire alle parole i fatti.
Negli anni 1970 prima si conquistavano i diritti con le lotte, e poi se ne cercava la sanzione. Ora la sequenza non solo si è capovolta, ma rischia di essere monca. Allora possiamo felicitarci che per la prima volta la piattaforma d’azione, in un documento internazionale, proclami il diritto della donna alla sessualità fuori della sfera della riproduzione, ma che dire del fatto che il testo finale non impegna veramente gli Stati? O delle riserve espresse dagli stessi che l’hanno sottoscritto in materia di depenalizzazione dell’aborto o di diritto all’eredità?
Non solo: il quotidiano francese Le Monde del 18 settembre scrive: “La Conferenza di Pechino non fa che confermare l’arretramento iniziato nel nome di alcune donne che contrarie agli “integrismi” hanno battezzato diversalità il diritto alla differenza culturale e religiosa, rivendicata anche dal Vaticano – passato dal ruolo di osservatore a quello di capogruppo – e dai paesi arabi, da qualche paese africano e dall’America del sud”.
Ecco così che il concetto e la pratica della differenza sessuale vengono snaturati e ritorti contro in senso reazionario, trasposti su un altro piano; dalla differenza sessuale si passa alla differenza culturale che giustifica l’arretramento e l’applicazione differenziale dei diritti. La marea montante dei conservatorismi stravolge le battaglie.
Non solo. L’enfasi sui diritti, la terminologia che sottende questa impostazione, i modelli proposti sono riconducibili all’egemonia che alcune agenzia ONU, quelle “progressiste” o alcune sue punte supposte avanzate esercitano ormai a livello planetario, modificando il modo di fare politica delle donne. Parole e concetti come lobbying e empowerment (e non più power!) sono desunti da un gergo internazionale che vede la schermaglia, la pressione, le buone maniere e il patteggiamento come le armi preferite e privilegia il consenso sulle affermazioni di principio alle lotte e alle mobilitazioni, allo scontro con chi il power lo detiene e difende. E sono stati questi termini in inglese ad affollare gli articoli su Pechino, conferenza ufficiale e non. Quanto alla dichiarazione alternativa è tutta una sequela di “chiediamo”, “facciamo appello”, e suscitano un conclusivo “amen”.
Un’ultima considerazione: l’ormai annuale “Rapporto sullo Sviluppo Umano” dello UNDP uscito recentemente in italiano reca il titolo: Dalla parte delle donne[3] e si basa su un approccio “di genere”. Accanto all’indicatore ormai classico ISU (indice di sviluppo umano) ricavato da un insieme complesso di variabili che misurano diversi aspetti, non solo il benessere economico ma il grado di libertà di scelte delle persone, appare un nuovo indicatore, l’ISG, cioè l’indice di sviluppo umano correlato al genere, oltre a una misura di attribuzione di potere correlato al genere, l’MPG. Come interpretare ciò? Riconoscimento del ruolo economico, sociale e politico delle donne o/e insieme burocratizzazione e riconduzione di lotte dirompenti nell’alveo di una innocua e in parte illusoria marcia attraverso le istituzioni, attraverso l’ordine patriarcale sostanzialmente immutato che si tiene ben stretto il potere (power)?
[1] Ho fatto riferimento al dossier di Elisa Speziali, dell’Università di Padova, unipd, centrodirittiumani.it
[2] Mumia Abu Jamal, all’anagrafe Wesley Cook, è un militante delle Pantere Nere, giornalista e scrittore, imprigionato e condannato a morte negli Stati Uniti per omicidio nel 1981 di un poliziotto a Filadelfia. In seguito a lotte e pressioni internazionali e a numerosi ricorsi, la condanna a morte venne commutata in ergastolo senza condizionale.
[3] Rosemberg & Sellier, Torino, 1995
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