KAMUINA NSAPU: LA MORTE DEL CAPO E
L’INSURREZIONE
Il capo Kamuina Nsapu Jean Prince Mpandi circondato dai suoi fedeli *
“E’ la storia di una scintilla che diventa un incendio”. Con queste parole inizia il lungo webdoc in francese reperibile sul sito di Radio France Internationale (RFI)[1], frutto di un’inchiesta che ha coinvolto altre quattro agenzie giornalistiche (le Monde, Süddeutsche Zeitung, Foreign Policy e la TV svedese, sull’insurrezione nel Gran Kasai, provincia della Repubblica Democratica del Congo (RDC), Congo-Kinshasa, tra il 2016 e il 2017. Questo articolo si basa soprattutto su questa fonte esaustiva, un documento lungo molte decine di pagine.
E di incendio si può ben parlare: l’ONU certificherà l’esistenza di almeno 42 fosse comuni, 3400 morti (circa) e un milione tra profughi, sfollati e rifugiati in Angola. Da quando ne ho letto mi è sembrata tra le più complesse e cupe tragedie di cui si abbia avuto contezza in Africa, e ora che un processo che definirei farsa si è concluso all’inizio di quest’anno credo valga la pena di ripercorrerla, per rendersi meglio conto delle difficoltà di comprendere e relazionarsi con certe realtà che pure fanno parte ormai del nostro presente storico globale. E di ciò che accade impunemente nonostante i tanti supposti guardiani internazionali.
Kamuina Nsapu è il nome di una chefferie, cioè di un territorio legato a un lignaggio reale (tradizionale), ma è anche il nome del Capo della chefferie e del villaggio in qui egli e la sua famiglia allargata abita(va)no nel Kasai Central, parte della provincia del Grand Kasai (più di 95.000 km2), una delle 21 provincie della RDC. Una volta era una zona ricca per le sue miniere di diamanti: nel 2012 la società diamantifera MIBA è oberata di debiti e il Kasai Central è la provincia più povera del Grand Kasai. Da sempre è stata terra di opposizione al potere centrale di Kinshasa ed è la patria di un oppositore storico, Etienne Tshishekedi, nemico n. 1 prima di Mobutu e poi dei Kabila, padre e figlio, ambedue Presidenti, il primo assassinato. Quando inizia la vicenda qui narrata, nel 2016, Joseph Kabila figlio è ancora Presidente e al termine del suo secondo mandato, ma trova ogni scusa per prolungarlo oltre i termini. Riuscirà a trascinarsi fino al 2018, rimpiazzato proprio dal figlio dell’oppositore storico, deceduto nel frattempo.
Flash back. Nel
2012 il quarantaseienne Jean Prince Mpandi (JPM) diviene il 6° Kamuina Nsapu[2]
(KN) dopo la morte in circostanze sospette del suo predecessore e quindi è lui
il custode della Tshiota, il fuoco
sacro che arde nella sua concession[3]
dove si celebrano i “battesimi” degli iniziati /aderenti al suo circolo
ristretto. Le chefferies sono
riconosciute per legge dal 2015, e i capi percepiscono uno stipendio statale,
ma anche prima erano trattate con ogni riguardo e Mobutu andava spesso a
porgere loro i suoi omaggi. Ma nel Kasai Central il potere statale è da sempre
odiato e odiata è la lingua parlata a Kinshasa, il lingala, mentre in Kasai si parla il ciluba. Chi parla lingala
sono tunguluba, i nemici, “piccoli
porci”, e JPM è a sua volta particolarmente malvisto a Kinshasa: lo si ritiene
un avventuriero, un rivoltoso, mentre JPM definisce il governo centrale (di
Kabila) “governo d’occupazione”. Queste le premesse della tragedia.
Jean Prince Mpandi
Nell’aprile
del 2016 una missione del governo centrale arriva nella concession del Capo Kamuina Nsapu in sua assenza e la perquisisce,
manomettendo anche oggetti personali ritenuti “sacri”. Un oltraggio. Questo
suscita le proteste del Capo KN e la sua ira: egli comincia a tenere discorsi apertamente
contestatari, moltiplica le celebrazioni dei “battesimi” con la pozione (di cui
detiene il segreto) che dovrebbe rendere invulnerabili e moltiplica il numero
degli iniziati a lui fedeli, litiga con gli altri capi tradizionali. A Kinshasa
cominciano ad allarmarsi e a sorvegliarlo da vicino. Il presidente Kabila stesso
arriva alla capitale del Kasai Central, Kananga, il 18 luglio per capire meglio
la situazione. Ragazzini tra le macerie della casa del capo Kamuina Nsapu
A inizio
agosto i miliziani Kamuina Nsapu assaltano un posto di polizia e rubano un
kalachnikov. Il clima è bollente. L’11 agosto una delegazione del Consiglio
Nazionale di Sicurezza congiuntamente al Ministro degli Interni (nemico
personale di JPM) gli trasmettono un ultimatum: ha 24 ore per arrendersi e
consegnarsi alla polizia. Il capo KN li diffida e chiede la protezione della
Missione ONU in Congo, la MONUSCO; dice che non si muoverà altrimenti. Che lo
vengano a prendere. Il 12 agosto una colonna di polizia e militari arriva nel
suo villaggio e assale la casa del capo KN. Jean Prince Mpandi va loro incontro
e cade a terra crivellato di colpi. Il cadavere viene portato via e si dice vilipeso
e maltrattato. La concession è devastata.
A questo punto il Kasai Central prende fuoco: decine e presto centinaia e migliaia di giovani e giovanissimi, molti quasi bambini, lanciano un’insurrezione che dilaga di villaggio in villaggio, alimentato da un odio atavico contro il potere statale e militare. Distruggono e incendiano tutti i simboli del potere con qualsiasi mezzo: bastoni, coltelli, armi giocattolo o fucili calibro 12 fabbricati in loco, pietre, machete, torce. Anche il Kasai occidentale e orientale insorgono, militari e polizia reagiscono con ferocia. Il Governo denigra i rivoltosi come sbandati e drogati, poi li bolla come terroristi. Ma i miliziani KN si moltiplicano a vista d’occhio, le bandane rosse intorno alla fronte sono il loro emblema; lanciano “attacchi mistici” con armi giocattolo pensando che saranno invincibili in quanto iniziati e si fanno massacrare a decine, a centinaia. Tutto il Grand Kasai, cinque provincie, insorge: alla base ci sono i soliti temi politici e sociali, il rifiuto della marginalità, della miseria, della disoccupazione e l’accusa contro il potere centrale di immischiarsi in questioni che riguardano solo l’autorità delle chefferies tradizionali: riti, battesimi, fuoco sacro sono intoccabili. I video girati dai militari mostrano corpi straziati di ragazzini e anche bambine accanto alle loro miserabili armi reputate magiche.
Miliziani Kamuina Nsapu durante un'azione
La ribellione dilaga in parallelo con la malattia e la morte dell’oppositore storico Etienne Tshisekedi, anche egli nativo del Kasai Central, regione che, pur tradizionalmente ostile al potere centrale, era conosciuta come “un’oasi di pace”. A Kinshasa cresce l’allarme: il 12 marzo 2017, nel pomeriggio, un nuovo ministro degli Interni arriva a Kananga per cercare di concludere un accordo con la famiglia del capo ucciso con la quale ha già preso contatto e calmare così le acque. In quello stesso giorno e quasi alla stessa ora, due esperti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, arrivati qualche giorno prima in Kasai per investigare le origini delle violenze e gli abusi evidenti della repressione dei militari e della polizia, vengono assassinati a un centinaio di km da Kananga. Ufficialmente, scompaiono. I loro cadaveri verranno scoperti solo il 27 marzo. Anche i loro accompagnatori e l’interprete mancano all’appello.
Foto di Sonia Rolley, una delle autrici del webdoc RFI
Intanto l’accordo tra governo centrale e la famiglia del capo KN viene raggiunto ma l’insurrezione non si calma: per i miliziani KN questi militari sono degli occupanti, degli stranieri, vengono dall’est e sono rwandofoni[4]. In effetti, molti dei capi militari della repressione sono famigerati comandanti ex ribelli, che hanno combattuto dalla fine anni 90’nei vari gruppi armati Mai Mai o M23[5]. Alcuni sono oriundi del Rwanda e molti sono sotto sanzioni ONU per crimini di guerra e innumerevoli violazioni dei diritti umani, come il Generale Eric Ruhorimbere, che ha partecipato ai massacri del Nord e Sud Kivu, o il Colonnello François Muhire, o il luogotenente Julle Mukamumbe, detto il “macellaio”. Criminali trasformati in alti graduati. Con questi “capi” al vertice della repressione, non c’è da stupirsi che dei contadini dicano che dal gennaio del 2017, se vedono camion militari girare di notte, al mattino dopo si scoprono fosse comuni. Nel maggio del 2017 l’Unione Europea adotta sanzioni contro 9 personalità della RDC e tra di essi figura il generale Ruhorimbere per le violenze commesse in Kasai. I timidi tentativi delle Nazioni Unite di condurre inchieste sulle origini dell’insurrezione e sulle esazioni commesse sono bloccati dal potere di Kinshasa; il personale della missione in loco dell’ONU, la MONUSCO, la più annosa e costosa delle missioni di peace-keeping ONU (20.000 uomini e più di un miliardo di USD all’anno) sembra impotente. Da tempo i caschi blu in RDC non hanno buona fama: arrivano sempre troppo tardi sui luoghi dei massacri o degli assalti dei gruppi ribelli, non sono riusciti a impedire gli stupri di massa nel Sud Kivu, non si accorgono di ciò che succede a un km di distanza, come il 13 agosto 2016 a Rwangoma. Solo un giorno dopo l’uccisione del capo Kamuina Nsapu c’è il primo massacro, 51 morti, quasi sotto il naso della MONUSCO.
A New York
cominciano a preoccuparsi di ciò che accade in Kasai a fine agosto 2016; in
novembre i dispacci della MONUSCO parlano di attacchi di miliziani KN anche
all’aeroporto di Kananga, la capitale del Kasai Central. L’ONU ignora che il
capo KN aveva chiesto la protezione della MONUSCO e che questa gli era stata
rifiutata. La MONUSCO comincia a parlare della scoperta di fosse comuni e
infine nel febbraio 2017 in un dispaccio dichiara di essere “preoccupata” per
le atrocità commesse. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani si sveglia: è
tempo di agire, ma ci sono tensioni di vecchia data tra le varie istanze e
corpi ONU. A sua volta la MONUSCO dovrebbe sia proteggere la popolazione e al
contempo mantenere buoni rapporti con il governo congolese, che non vuole
interferenze. Quadratura del cerchio. Tuttavia nel gennaio del 2017 la MONUSCO riesce
a documentare ulteriori gravi violazioni nella repressione delle violenze da
parte dei militari contro ragazzi armati di bastoni e armi giocattolo. La
rivolta non si spegne, la repressione è spietata.Colonnello François Muhire, accusatodi due massacri
All’inizio di marzo la situazione diventa insostenibile e l’Alto Commissario ai Diritti Umani chiede ufficialmente una missione d’inchiesta internazionale. Pur riuscendo ad accertare almeno 42 fosse comuni la MONUSCO è continuamente bloccata nelle sue azioni sul terreno. Quattro giorni dopo il discorso dell’Alto Commissario, due consulenti che fanno parte del gruppo di esperti del Consiglio di Sicurezza sono incaricati di una missione nel Kasai Central al fine di indagare sulle radici delle violenze, le caratteristiche del movimento dei miliziani KN e la repressione del governo congolese. Sono Michael Sharp, un cittadino USA e una svedese di origini cilene, Zaida Catalan. I due esperti fanno il loro lavoro e durante una missione ritenuta cruciale nel villaggio di Bunkonde, il 12 marzo, a due passi dal villaggio del capo KN ucciso nell’agosto precedente, spariscono. I loro cadaveri verranno trovati il 27 marzo. Zaida Catalan è stata anche decapitata. Come è potuto accadere? Finora a nessun civile ONU era stato torto un capello nella RDC.
Altra fossa comune, foto di Sonia Rolley
[2] La chefferie si trasmette di padre in figlio, o entro la ristretta cerchia parentale dell’ex capo.
[3] Nell’Africa dei villaggi la concession è il recinto entro il quale ci sono le varie case della famiglia allargata che può comprendere fino a 20 o più persone.
[4] Quindi non parlano ciluba, la loro lingua.
[5] Un comunicato dell’International Crisis Group del 13 maggio u.s. (ieri) parla di una “miriade di gruppi ribelli” nell’Est del DR Congo. Hold your fire! A Perilous free-for-all in the eastern DR Congo (https.//shows.acast.com>episodes
* Tutte le foto sono tratte dal webdoc di Radio France International
Grazie Stefania
RispondiEliminaO l'Onu reagisce o si torna alla giungla