SONNET LXXI By William Shakespeare
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giovedì 26 dicembre 2024
SHAKESPEARE' SONNET LXXI (traduzione mia)
domenica 15 dicembre 2024
C'ERA UNA VOLTA IL MOZAMBICO SOCIALISTA
LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE PER IL SOCIALISMO
Contadine mozambicane costruiscono delle gabbie per i conigli (foto mia)
Preambolo
Il Mozambico è stato il primo paese nel quale ho lavorato come “cooperante internacional”, ed il paese del quale mi ero innamorata, nonostante alcune riserve dovute al mio ipersviluppato senso critico. Riserve che però sono germogliate poco a poco, verso la fine dei quattro anni in cui ho vissuto là. La mia esperienza lavorativa mozambicana è stata ristretta all’ambito urbano della capitale Maputo, mentre in seguito ho lavorato prevalentemente in ambito rurale, in/con migliaia di villaggi, almeno in Africa. Sono arrivata in Mozambico in quanto “técnica” accettata a livello privato dall’allora Ministro dei trasporti e Comunicazioni, in quanto possibile insegnante di inglese per i lavoratori della sede del Ministero e altrove a seconda dei bisogni. Il Presidente Samora Machel, che aveva guidato la guerra di liberazione, rifiutava all’epoca sdegnosamente ogni rapporto o dipendenza a livello internazionale. Quindi quella che sarebbe poi diventata la cooperazione allo sviluppo ufficiale non esisteva, almeno per quanto riguardava l’Italia.
Il Mozambico era diventato indipendente nel 1975, dopo una dura lotta di liberazione più che decennale dal colonialismo portoghese, che fu infame come qualsiasi altro regime coloniale. I portoghesi erano stati padroni ottusi più di altri, e analfabeta era probabilmente il 95% della popolazione, i quadri istruiti si contavano sulle dita di poche mani, quella che sarebbe diventata la maggioranza della direzione politica del partito dell’indipendenza, il FRELIMO (fronte per la liberazione del Mozambico) era parzialmente all’estero a studiare o insegnare). Fu la classe dirigente più illuminata, più retta e rigorosa di ogni altro paese che abbia poi conosciuto. Arrivai a Maputo con mio figlio nell’agosto del 1978. Dopo circa due mesi in albergo, trovammo alloggio con un’amica italiana, anche lei cooperante, in un bellissimo appartamento con una vista spettacolare sulla baia di Maputo, un colpo di fortuna incredibile. Tutto era statale, quindi gli affitti erano calmierati a seconda degli stipendi degli inquilini. Noi eravamo pagati in moneta locale. Nel 1978 ancora i negozi erano praticamente vuoti e anche il cibo scarso. Ricordo i grandi magazzini in cui in mostra c’erano file e file di…olio per mobili. Oppure vedevi scatole nelle vetrine, entravi per comprarne il contenuto, e scoprivi che si esibivano scatole vuote. E per procurarsi di che vivere c’erano file e file, perché tutto era razionato. Dati gli orari di lavoro, mattina e anche pomeriggio, era indispensabile avere un “empregado o empregada”, una persona che ti pulisse casa, ti facesse le file per avere il cibo e te lo cucinasse.
Ho conservato alcune copie carbone delle lettere che scrivevo a casa, e ne trascrivo qua sotto un delle prime, purtroppo senza data ma credo risalga ai primi mesi del 1979, gennaio o febbraio. In piena estate australe. Credo che renda bene l’atmosfera e l’ambiente in cui vivemmo allora, pieno di speranza in un avvenire che non poteva non essere più felice e giusto: le ristrettezze erano ben accette in vista del “telos[1]”, il sol dell’avvenire. Si diceva: a vitòria è certa”, la vittoria è sicura. Ma non fu così. Impossibile ripercorrere le vicende avverse da allora in questa sede: oggi purtroppo il Frelimo, il partito ex integerrimo, è profondamente corrotto e azzoppato, le ultime elezioni presidenziali di ottobre scorso sono state inficiate da frodi (come molte delle precedenti) e il popolo si sta ribellando con proteste di strada che sono represse a colpi di fucile. Decine di morti. Per questo voglio evocare ora quello che fu il Mozambico che conobbi e amai allora. Scomparso, ahimè, temo per sempre.
“Maputo, Mozambico. …1979
Da più di un mese manca il caffè. Fortunosamente fino a qualche giorno fa siamo riuscite[2] a rimediare la tazzina shock del mattino con pacchi dono giunti, tramite inviati speciali in Italia, da mamme o amici, ma da ieri anche per il caffè facciamo come quelli di Cosenza, che notoriamente fanno senza. Allora si trangugia un po’ di the e di latte in polvere con pane, ottimo, si aspetta l’ascensore per una media di cinque minuti d’orologio (abitiamo all’undicesimo piano) e quando l’ordigno arriva al pianerottolo si procede in questo modo: il più agile rimane fuori per chiudere la porta automatica difettosa e permettere il sussulto decisivo di partenza, all’interno cortesemente si preme il bottone corrispondente al piano inferiore, l’atleta si slancia giù per le scale e si catapulta di sotto dentro l’ascensore mentre i più fortunati già dentro lo incitano e gli tengono aperte le porte automatiche cercando di non farlo schiacciare. Una volta raggiunta la strada, ci si procura il giornale (Noticias, l’unico disponibile), che dei ragazzini vendono sotto casa, non esistono edicole propriamente dette, e si valuta la situazione “trasporto al luogo di lavoro”. Ambedue lavoriamo al Ministero dei Trasporti e Comunicazioni, che non è vicino, quindi è indispensabile un passaggio in macchina. Se non c’è nessuno che stia mettendo in moto nei paraggi si inizia la fase autostop 1. Abbiamo ormai tutta una serie di clienti fissi che appena ci vedono si fermano (l’orario di lavoro è uguale per tutti), ma qualche volta sono già passati o quel giorno passano in motorino, e allora si cerca di apparire meno ingrugnite possibile nonostante il sonno per guadagnarsi la “boleia” (passaggio in portoghese) e non arrivare in ritardo. Quando c’era ancora il caffè e si era in anticipo, si faceva una puntata rapida all’Avenida, un buchetto di bar dove dopo una fila ragionevolmente breve riuscivi ad avere un caffè “quasi come da noi”. Ora l’itinerario è accorciato, sul classico, casa-ufficio. Ore 7,30, sulla breccia della rivoluzione, davanti al tavolo. Le mie lezioni di inglese mi sollevano lo spirito, mi costringono a svegliarmi completamente e a far funzionare il cervello e l’inventiva. Con i “miei” lavoratori- alunni ho un bel rapporto, fanno progressi, sembra che a loro piaccia imparare l’inglese e io finalmente ho l’impressione di fare qualcosa di utile. L’atmosfera nel Ministero è piuttosto familiare. Dal momento in cui arrivai, ormai parecchi mesi fa, ebbi questa impressione, di ambiente poco formale, amichevole. C’è però da dire che la tendenza negli ultimi tempi è stata verso un certo irrigidimento della disciplina, parola che comincia a diventare chiave. Ora, un funzionamento efficiente è importante, ovviamente, il coordinamento per non perdere tempo, ma un’enfasi eccessiva sulla “disciplina” è preoccupante per i fantasmi che suscita. Dal 1° dicembre ha fatto la sua apparizione l’obbligo di timbrare il cartellino all’entrata, mentre prima la puntualità era affidata alla coscienza di ciascun lavoratore. Il bar interno al quarto piano era aperto durante tutto l’orario di lavoro per un eventuale “matabicho[3]”, un panino e un sorso di the. Orario di lavoro che va dalle 7,30 del mattino a mezzogiorno, e dalle 14.00 alle 17.00. Di fatto i quadri superiori (quasi tutti bianchi) rimangono anche fino alle 6 di sera e oltre. Ora invece il bar è aperto soltanto per mezz’ora, sia al mattino che nel pomeriggio, con fenomeni di congestione notevoli. Quanto all’abbigliamento, si parla di introdurre una “moda safari”, pantaloni e giacca, per tutti, colori assortiti ma stesso modello, quindi una divisa, il che evoca la spettrale visione di soldatini e soldatine a poche dimensioni[4].
Il progetto “safari” non si è concretizzato finora, ma è la premonizione di un vento più rigido. Nonostante ciò, gli africani hanno una vitalità, una vivacità e un calore umano che travalica la volontà di inquadramento; e poi diamine, andiamo verso il socialismo realizzato e siamo tutti compagni, c’è lo spirito di “cameradagem”, cameratismo (che in italiano ha un’eco militaresca o addirittura fascista), che tempera la tendenza alle formalità ministeriali.
A mezzogiorno si esce e a volte c’è fuori il camion del Ministero addetto al trasporto lavoratori (per chi abita nella città di cemento[5]) e allora saltiamo su nel cassone in dieci o quindici, esclusi i grandi cervelli che hanno un’automobile, e ci facciamo un giro panoramico di Maputo per viali di flamboyants, le acacie rosse con i pennacchi fiammanti, sotto le acacie gialle con grappoli di infiorescenze, o i jacaranda dai fiori azzurri. Sembrano splendide aiuole sospese. Nelle strade c’è un’animazione vivacissima, una folla colorata che si muove in ogni direzione, i bus sciancati strapieni arrancano come carrette, dato che sono vecchi trabiccoli che perentoriamente affermano il loro diritto ad una vita attiva. In portoghese-mozambicano gli autobus si chiamano con bella onomatopeia “machinbombos” (ch si legge sc). Ogni compagno che arriva salta giù molleggiato dal rimorchio e noi continuiamo il giro dei viali profumati fino ad esaurimento presenze. Alcune volte però arriviamo tardi all’uscita del Ministero, il camioncino è già partito, e allora subentra la fase autostop 2 se anche i capi con vettura individuale se la sono svignata. E’ più dura della mattina, anche perché il sole picchia e si sogna una doccia, un pasto e un letto. A casa, una volta guadagnato l’undicesimo piano senza contrattempi ascensoriali (da contemplare anche il taglio di un polpastrello, come è accaduto a un nostro sfortunato amico), ci aspetta una bella ciotola di riso, a volte con fagioli o piselli in scatola, a volte con sardine. Se hanno fatto la rivoluzione in Cina e in Vietnam con un pugno di riso al giorno, non si vede per quale ragione la cosa non possa funzionare in Mozambico. Una volta alla settimana l’emozione raggiunge l’apice, ci inteneriamo di fronte alla gallina ebdomadaria. E’ la prima volta, concordiamo, che dopo anni di perfida propaganda macrobiotica apprezziamo la deliziosa consistenza della carne. Prende sempre più corpo il sospetto che la macrobiotica sia ottima per gente supernutrita dalla nascita, ma perda decisamente il suo fascino in casi in cui il cibo scarseggia e si rischia una fame cronica. E se poi alla gallina segue quello che chiamiamo ormai il nettare degli dei, un avocado maturo schiacciato e condito con succo di limone e zucchero, ci sembra di avere banchettato e dimentichiamo le scorpacciate di riso.
Un po’ prima delle due del pomeriggio, autostop fase 3. Nei giorni fortunati c’è il passaggio di un amico un po’ dormiglione che in genere fa tardi. Le tre ore pomeridiane, se non c’è l’aria condizionata, sono pesanti, non si combina quasi mai nulla di serio. Se ho lezione alla Scuola Nautica sudo come una fontana cercando di non fare dormire nessuno in fondo aula. A volte devo svegliare chi vedo con tanto di mento sul petto e il respiro regolare del dormiente. Insegno inglese ai marinai. Anche in questo caso per il trasporto mi devo arrangiare, le promesse del direttore di fornirmelo sono state vane.
Finalmente alle 17.00 si esce, e il ritorno anche se lungo e a piedi è piacevole, il caldo è scemato e Maputo nella luce pomeridiana è splendida. Strada facendo raccolgo dei fiori di frangipani sulla Lumumba, un profumo travolgente, li annuso camminando e sono felice.
[1] Fine in greco
[2] Mi riferisco alla mia amica ed io, coinquiline
[3] Spuntino in portoghese mozambicano, letteralmente, ammazza-fame. Matar= ammazzare, bicho significa animale, quindi ammazza fame. Quasi tutti i lavoratori arrivavano al lavoro senza avere fatto colazione, e dopo avere camminato a volte per chilometri.
[4] Io fui redarguita discretamente ma duramente per le mie vesti di cheese-cloth, che non avendo specchi non mi rendevo conto fossero così trasparenti nel sole implacabile dell’estate. Il che scandalizzò il Ministro che mi incrociò proprio all’entrata, alle 2 del pomeriggio.
[5] Allora c’era ancora la divisione tra la città di cemento, ereditata dai portoghesi dove abitavano i coloni, e la città di canne (caniço) dove abitavano i mozambicani, lontana dal centro. Qui abitavano ancora alcuni dei nostri colleghi. Molti poi abitavano in campagna.