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sabato 25 ottobre 2025

SFIDE E RISPOSTE PLANETARIE

 

ATTUALITA’ DELL’ANALISI STORICA DI ARNOLD TOYNBEE

Foto mia, ispirato all'Ultimo Abete, di Paul Klee

Molti anni fa nella ricerca di un tema per la mia tesina di storia all’Università, mi imbattei in biblioteca in qualche libro in cui si menzionava il ciclopico studio, in 12 volumi, dello storico inglese Arnold Toynbee. Me ne interessai, trovai un testo (chissà quale) in cui il monumentale lavoro era spiegato e riassunto, perché certamente non affrontai the “real thing”, A study of History,[1] nel corso del quale ben ventuno civiltà a livello planetario erano presentate e discusse. Il nocciolo dello studio era abbastanza semplice: ognuna di queste civiltà, da quella ittita alla islamica alla greca e greco-romana, eccetera, si era trovata ad un particolare momento della sua evoluzione di fronte ad una sfida epocale, ad un crinale drammatico che ne minacciava la stessa esistenza. Dalla capacità o incapacità di questa stessa civiltà di rispondere alla sfida con risposte adeguate sarebbe dipesa la sua sopravvivenza ed eventuale trasformazione oppure il suo collasso. In inglese, challenge and response, sfida e risposta. Mi interessò l’ottica adottata dallo storico, scrissi la mia tesina che fu apprezzata e …quel concetto di sfida e risposta mi si appiccicò al cervello e non lo scordai più. Il monumentale studio di Toynbee, estremamente articolato e particolareggiato, esibiva una profondissima e vastissima conoscenza delle complicate vicende storiche di molteplici civiltà sviluppatesi nel corso di millenni in ogni ambito geografico. Arnold Toynbee divenne famoso e ricercatissimo in ambito accademico per molti anni, finché la sua celebrità declinò e anche la sua opera e la sua intuizione analitica finirono se non nel dimenticatoio, certamente nel magazzino dei ferri vecchi, finché…

Probabilmente fu il libro di Samuel Huntington negli anni 1990, Lo scontro di civiltà[2], e l’islam politico in espansione ad oriente e a sud del mondo, accompagnato da vari movimenti jihadisti (tuttora vivi e vegeti in vaste zone dell’Africa e non solo) che richiamò in vita il concetto di “civiltà”, al plurale, e la loro evoluzione, come strumento ancora utile di comprensione del presente storico. E, a me sembra, riportò alla ribalta la pertinenza dell’impostazione dell’analisi di Toynbee, cioè l’identificazione di una sfida, una prova del fuoco, nella quale si imbatterono le civiltà di cui si occupa, dalla cui positiva soluzione ed evoluzione è dipesa la loro sopravvivenza anche sotto altre forme (come nel caso della civiltà greco-romana) oppure il collasso. Non in maniera meccanicistica.

 Però effettivamente lo schema adottato da Toynbee poteva diventare un letto di Procuste in cui costringere i fatti, e fu questa la debolezza che minò infine il suo studio e la credibilità della sua impostazione. Oggi mi pare che il suo strumento analitico possa essere utile, attualizzato e rivisto alla luce delle molteplici sfide, vere e proprie pietre d’inciampo che si profilano all’orizzonte dell’inizio del terzo millennio. E il panorama si presenta assai complicato perché da un lato abbiamo una “civiltà globale” oggettiva: globalizzazione degli scambi, delle prospettive storiche ed economiche, dei modi di relazionarsi e delle sfide culturali ed ecologiche da affrontare. Basta pensare al finanzcapitalismo, alla reti criminali, alle rivoluzioni tecnologiche, all’uso planetario di internet, ai movimenti migratori che si sono moltiplicati a livello planetario, e soprattutto alla incombente crisi climatica sempre più minacciosa. Si tratta di una serie di sfide globali, planetarie, di una civiltà alla fine unica che è la “civiltà umana”.

Nel contempo e per fortuna, parallelamente sussistono civiltà plurali, diversità nazionali, una grande articolazione di tradizioni e di lingue, quindi di mentalità, di modi di essere al mondo, di approcci politici e di economie. Come esempio estremo, si pensi alle popolazioni cosiddette indigene, alcune delle quali sono rimaste indenni dal contatto con l’esterno, il mondo del 2000, e vivono delle loro risorse autoctone, il cui modo di vita in primis corre un pericolo mortale, perché il riscaldamento climatico ha un impatto maggiore sulle popolazioni più legate ad un uso esclusivo delle risorse del loro ambiente naturale. Quindi siamo di fronte a una pluralità di sfide, più o meno gravi a seconda del punto del globo in cui ci troviamo. Ma tutti nella stessa ballonzolante barca.

Grecia, Samotracia, foto mia

Come le stiamo affrontando? Che chances abbiamo non solo come umanità ma come esseri viventi, comprendendo la ricchezza di flora e fauna, di paesaggi molteplici, di un futuro che non sia una discesa nel precipizio che ha inghiottito molte civiltà in passato per ragioni ben diverse? Gli equilibri che hanno permesso il nascere e lo sviluppo delle varie civiltà umane del presente sono compromessi seriamente, e le politiche che i vari centri di potere stanno adottando, il predominio del capitalismo finanziario e della ricerca di profitto a tutti i costi, si dimostrano mortifere. Invece di puntare a conservare i viventi tutti, vige l’imperativo dello sfruttamento del vivente, comprendendo con vivente anche il sottosuolo, il pianeta vivente tutto. Il crollo della biodiversità e la noncuranza che circonda tale crisi lo dimostra. In ogni incontro internazionale si giunge sempre ad un compromesso al ribasso all’ultimo minuto.  Dal 1993, la perdita di biodiversità ha fatto passi da gigante, un declino costante: in media un 69% di declino delle popolazioni selvatiche tra il 1970 e il 2018.[3]

Tra la fine degli anni 1990 e l’inizio del 2000 sembrava che si stessero creando le premesse per una presa di coscienza planetaria della gravità e l’ubiquità delle varie sfide epocali. Il contributo maggiore a tale consapevolezza è stato dato dalle dettagliatissime e approfondite analisi degli scienziati del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC acronimo inglese), un forum scientifico messo in piedi nel 1988 da due organismi dell’ONU, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (PNUE) e l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OIM). E’ in cantiere la preparazione del settimo rapporto, la cui pubblicazione è prevista nel 2029. Il sesto rapporto di cui ho consultato l’executive summary, il riassunto, induce penose riflessioni sulla gravità della congiuntura planetaria. I dati sono del 2023, i più recenti all’epoca della redazione del rapporto. L’innalzamento medio della temperatura della superficie della Terra rispetto al periodo preindustriale era di 1,09° C, livello di confidenza, cioè la variazione reale che può essere inferiore (0,95° C) o superiore (1,20° C), in quanto tutti i dati statistici (su campioni rappresentativi) sono citati con la possibile “forchetta” di variazione. La proporzione maggiore di emissioni di gas serra è attribuibile all’uso di combustibili fossili e ai processi industriali, seguita dal metano. Le emissioni medie annuali di gas climalteranti nell’intervallo 2010/2019 sono state le più alte di ogni intervallo precedente di 10 anni, anche se il tasso di accrescimento 2010/2019 è stato più basso rispetto alla precedente. Si sono verificati ampi e rapidi cambiamenti nell’atmosfera, nell’oceano, nella criosfera (ghiaccio e permafrost) e biosfera. I cambiamenti climatici causati da attività umane (la causa non è più in discussione, nonostante le strampalate argomentazioni di geologhi fino a qualche anno fa) stanno già procurando condizioni meteorologiche estreme in tutte le aree del pianeta, più o meno gravi, con conseguenze catastrofiche. E le popolazioni più esposte ad eventi climatici avversi sono quelle che meno hanno contribuito all’innalzamento della temperatura media globale. Tra il 2010 e il 2020 il tasso di mortalità dovuto a inondazioni, siccità e tempeste è stato 15 volte più alto nelle zone più vulnerabili che in quelle meno esposte. L’impatto su certi ecosistemi sta raggiungendo un punto di irreversibilità. A questo proposito è uscito recentemente un nuovo rapporto cui hanno contribuito 160 scienziati di tutto il mondo: Global Tipping Points Report 2025 (Rapporto sui punti di non ritorno globali 2025), che mentre puntualizza i pericoli esistenziali per tutta la biosfera, mette in luce anche i crinali positivi a portata di mano, che devono essere presi in considerazione. Le aree più in pericolo riguardano l’Africa Occidentale, l’Asia orientale e sudorientale, l’America centrale, l’area Caraibica, le calotte polari. “Il Sud globale ha un ruolo centrale nel tentativo di fermare e invertire il riscaldamento climatico. In Africa, Asia, America Latina e I Caraibi, varie comunità stanno sperimentando una agricoltura rigenerativa, ricostituendo zone di mangrovie e foreste, sviluppando nuove catene di valore di bio-economia, cercando strumenti finanziari innovativi per una transizione equa. Questi non sono esperimenti marginali, costituiscono le sementi di un cambiamento sistemico, capace di avere un impatto globale se alimentato da solidarietà, risorse e volontà politica” (citato dalla Prefazione allo studio). Ora quanta solidarietà, quante risorse e quanta volontà politica nel mondo industrializzato, nei centri di potere mondiali? Qui cade l’asino. Se “il momento di agire è ora”, come si afferma, come si contribuisce all’azione da parte di Europa e Stati Uniti? Russia Cina e India? I risultati delle COP post 2015 sono stati deludenti, i contributi necessari per l’adattamento delle aree del pianeta più vulnerabili non sono stati sufficienti, e ora rimane da sperare che la COP 30, del prossimo novembre a Belém, in Brasile, arrivi ad impegni più incisivi e soprattutto li rispetti. Nel sesto rapporto dell’IPCC si afferma che “il riscaldamento climatico continuerà ad intensificarsi tra il 2021 e il 2040 soprattutto a causa dell’aumento cumulativo di CO2 – in tutti gli scenari presi in considerazione”. Ma naturalmente l’entità dell’aumento dipenderà dalle politiche di contenimento adottate o NON adottate. Gli Stati Uniti con l’attuale presidente, pervicace negazionista e appassionato climalterante, sono fuori corsa. E nella “virtuosa Europa”?

Il pianeta vivente

Lo strombazzato “Green Deal” dell’Unione Europea, che già era stato criticato per inadeguatezza nei suoi obiettivi, è stato spuntato delle sue ambizioni maggiori. Ad esempio, l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 90% rispetto al 1990 nel 2040 è diventato “una spinosa questione politica”: Si parla di utilizzare crediti carbone, cioè di monetizzare le emissioni compensandole con diminuzioni di emissioni di altri paesi, l’uso di pesticidi è ancora ampio e la possibilità di utilizzo del glifosato è stato prolungato fino al dicembre 2033. Recentemente è rientrata nel campo del possibile l’installazione di nuove centrali nucleari per la produzione di energia quando ancora non è risolto il problema dello smaltimento sicuro delle scorie.  Ma l’attentato recente, forse il più letale, alla possibilità di investimenti nella transizione energetica è il malefico progetto “Rearm Europe”, il riarmo europeo, geniale trovata per gettare montagne di miliardi nel perseguimento di una “prontezza” armata nel 2030 al fine di difendersi con unghie e denti da possibili aggressioni russe. Vero scopo: ingrassare il complesso militare-industriale contro aggressioni del tutto fantasmatiche, in quanto lo zar Putin sarà pure un mascalzone ma non un imbecille. L’aggressione all’Ucraina è stata motivata dall’espansione della NATO nell’est europeo, che ai tempi di Gorbacev e della distensione est-ovest era stata esclusa. La minaccia dell’inglobamento dell’Ucraina nella NATO, alla frontiera con la Russia è stata la goccia di troppo e il vaso è traboccato. Così con l’asservimento alle politiche aggressive NATO si butta a mare la possibilità non solo di finanziare adeguatamente una transizione verde reale e non a parole, ma anche si sabota il finanziamento di sanità pubblica, di educazione e di edilizia popolare, ormai inesistente. La lezione del COVID non è servita a nulla, l’impreparazione dei sistemi sanitari sarebbe la stessa in una possibile prossima pandemia, niente affatto improbabile. E non si può certo sostenere che i milioni di tonnellate di bombe esplose in questi ultimi dieci anni e i voli degli F35 abbiano giovato alla biosfera. Si continuano le prospezioni in vista dello sfruttamento di nuovi campi petroliferi e di gas (Total Energies e ENI in Mozambico), ma anche in Brasile, dove Lula pensa di finanziare la transizione verde con i proventi del petrolio. Si definiscono “ideologiche” le raccomandazioni di centinaia di scienziati, in nome di un presunto pragmatismo e pressati dalla ricerca di “competitività”. La deforestazione in Amazzonia e nel Congo procede. I dati scientifici sono “ideologia” e sabotaggio del PIL.

E finisco con quella che è una minaccia di diversa natura, ma non meno pericolosa, una minaccia alla stessa possibilità di convivenza tra Stati all’interno di una cornice di regole condivise Dopo l’orrore dei massacri nella ex Jugoslavia, dopo il genocidio in Rwanda, che sono stati giudicati da tribunali ad hoc, Il crimine di genocidio e di ecocidio perpetrato da Israele durante due anni in Palestina, di fronte a Stati Uniti, Stati europei che anzi lo hanno rimpinzato di armi perché potesse continuare nel suo sterminio, l’impunità oltraggiosa di cui Israele ha goduto e continua fino ad oggi a godere a dispetto dei due mandati d’arresto comminati dalla Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant e la mancata ottemperanza sia alle Risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU che del Consiglio di Sicurezza, mettono in crisi tutto l’apparato di leggi internazionali creato dopo il 1945. E’ il crollo dell’ordine giuridico internazionale. Se uno Stato che ha ignorato per decenni tutte le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU si arroga il diritto di accanirsi contro un’intera popolazione fino a cercarne l’annichilimento, se l’Unione Europea non riesce neppure a denunciare un trattato commerciale la cui validità dipende dal rispetto dei diritti umani, se gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno appoggiato e reso possibile il genocidio, con stati arabi sostanzialmente supini, come guardare a un futuro di regole internazionali rispettate? E’ l’architettura mondiale che non può sopravvivere alla violazione di ogni principio di etica, il ritorno alla giungla.

Sfida di un clima impazzito, corsa forsennata agli armamenti, sfida di una declinante diversità biologica, indegnità di una compagine di stati chiave a livello planetario che rischiano di essere definiti canaglia, sfide multiple per un pianeta che bolle in cui regna l’assenza di regole di convivenza. Vogliamo diventare uno sfasciume morto rotante nello spazio? Forse possiamo ancora evitare il peggio, ma dov’è un forte volontà politica? Possiamo incidere dal basso? Hic Rhodus, ci saranno saltatori sufficienti?


 

 



[1] The real thing, cioè il testo complete originale, il cui titolo è Uno studio storico (A Study of History).

[2] Samuel Huntington, The Clash of Civilizations and the remaking of the world order, 1996

[3] Living Planet Report WWF 2022

1 commento:

  1. Testo di eccezionale chiarezza. Va pubblicato. Su qualche passaggio si può anche non concordare, ma la sfida così bene descritta è assolutamente reale. Grzie Stefania.

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