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domenica 17 novembre 2019

VIAGGIO A CIPRO E TURCHIA: ANATOLIA (1)


ANATOLIA: SULLE ORME DI REMOTE CIVILTA’

Cittadella di Gaziantep


Partendo da Girne, Cipro turca, con il traghetto si giunge dopo circa tre ore a Taşucu, piccolo porto con spiaggia a lato, modesta stazione balneare per un turismo tutto locale: la città di Silifke, l’antica Seleucia, dista soltanto una decina di km. Fondata dal re di Siria Seleucio I Nicator nel III secolo a.C., l’odierna Silifke ha ancora numerose rovine che ricordano la pristina gloria: spezzoni di cinta muraria, un’immensa cisterna bizantina, la cittadella (la strada sconnessa e deserta mi ha scoraggiato dal raggiungerla) e ben accessibile in centro il tempio a Giove, del quale sopravvive oltre a frammenti sparsi una sola colonna intera con capitello corinzio, che al momento della visita era sovrastata da un paffuto nido di cicogna con inquilina installata.
Silifke, Tempio di Giove
Bello il ponte di pietra sul fiume Göksu (in turco “acqua azzurro cielo”), dove annegò Federico Barbarossa en route verso la Palestina per la 3° crociata, il 10 giugno 1190, astutamente tuffandosi per rinfrescarsi con armatura addosso in acque tumultuose per il recente disgelo a monte.

Sulle montagne del Tauro, a 1100 mt di altitudine e a 30 km da Silifke si trova un sito archeologico tanto affascinante quanto poco conosciuto dal nome ingrato: Uzuncanburç[1], dove da un lato si possono ammirare i resti di un acquedotto dell’antica città romana di Olba, mentre sull’altro versante dell’altura sorgono i resti e le numerose colonne del tempio greco a Zeus Olbios, preceduto da un ninfeo ben conservato.
 
Uzuncamburç, Tempio di Zeus Olbios
Anche qui parte dell’incanto del luogo è legato alla qualità della luce sfolgorante di giugno nell’aria limpida, al silenzio rotto dal frinire di qualche cicala e al panorama montano superbo. Incredibilmente c’è un servizio pubblico di trasporto di andata e ritorno giornaliero per i contadini del villaggio e i rari viaggiatori a piedi.

L’ufficio turistico di Silifke, il primo e l’ultimo aperto e funzionante in ore d’ufficio che troverò in Anatolia, mi aveva rifornito di dépliant seducenti sulle meraviglie archeologiche visitabili prima di Mersin, direzione est: il castello di Korykos, Kizcalesi (il castello della fanciulla) e le grotte dette del paradiso e dell’inferno. 

Particolare, Tempio di Zeus
Quando avevo già un piede sul predellino per scendere dall’autobus a Kizcalesi ho dato una rapida occhiata intorno e ho fatto un balzo indietro per recuperare il sedile: a destra e a sinistra della strada si assiepavano file compatte di moderni albergacci e spacci di patatine fritte, e l’unico spiraglio nella muraglia di cemento lasciava intravvedere una spiaggia con schiere di ombrelloni. Con rammarico ho cambiato il biglietto e dopo due ore e mezzo interminabili con decine di fermate e mostri di calcestruzzo schierati a nascondere il mare sono scesa per esaurimento alla periferia di Mersin, grossa città con importante (e invisibile) porto commerciale e di trascurabili attrattive. E pensare che la Mersin arcaica, Yumuktepe (5000 a.C.), era un importante snodo geo-culturale tra la Mesopotamia a partire dall’antica Cilicia Pedias – oggi regione di Çukurova – attraverso il passo di Sertavul nella catena del Tauro verso il Mediterraneo e la Siria settentrionale. Il suffisso tepe dei toponimi arcaici turchi indica un rilievo, un tumulo che racchiude reperti archeologici sepolti.
Sarikeçili in viaggio


Della odierna Mersin apprezzo soltanto il Museo archeologico che vanta scenografiche ricostruzioni di tombe intagliate nella roccia[2] con statue mollemente adagiate su triclini e bei sarcofaghi romani; si proietta inoltre a getto continuo un filmato molto interessante sull’ultimo esiguo nucleo di popolazione nomade turca: i Sarikeçili[3], pastori originari di un villaggio omonimo in provincia di Adana, filmato che rivedo più volte per coglierne foto eloquenti e toccanti[4].
Rock-cut tombs, Museo di Mersin


Partendo da Mersin sempre diretta a est ho la cattiva idea di fare una tappa a Tarso, anche se le poche righe della guida dovrebbero scoraggiarmi, e ho quanto mi merito: l’abitato è banale e il museo che raggiungo a fatica balbettando dieci volte in turco la stessa domanda sul cammino da percorrere è chiuso, evidentemente da molto tempo, e mi chiedo per quale perversità nessuno me lo ha fatto sospettare, dato che “aperto/chiuso” sono tra i pochi vocaboli turchi che conosco. Introvabile la cosiddetta fontana di San Paolo.

Dietrofront e treno per Adana: la linea Mersin-Adana è l’unica connessione ferroviaria del sud Anatolia in funzione. Sorpresa: Adana è veramente una città interessante e mi è parsa la più aperta al mondo non turco, la più piacevole anche se difficile da girare a piedi date le distanze e i lunghi viali pur alberati pulsanti di traffico, l’unica dove riesco a trovare bei negozi e un ristorante con un’ottima cucina italiana gestita da una coppia locale, quella cucina italiana che in genere all’estero snobbo ma che questa volta mi sembra un regalo divino dopo parche cene analcoliche.
 
Sigilli del calcolitico, Museo di Adana


E il museo archeologico è il primo di una serie di musei uno più bello dell’altro, che sono stati il sale del viaggio e mi hanno fatto capire la differenza tra il vedere tesori d’arte assira o babilonese al Pergamon di Berlino o al British di Londra o vederli là dove la civiltà i cui tesori sono esposti si è sviluppata e si è ahimè spenta. Anche dopo tre o quattro ore di visita non ho mai provato quel senso di oppressione che mi coglieva al British, che è (o era, non so oggi) gratis e che visitavo spesso quando studiavo a Londra. 
Nelle prime teche ci sono numerosi sigilli del calcolitico di terracotta, di pietra o anche d’osso, provenienti dalla Siria e dalla Mesopotamia, risalenti al 7° millennio a. C; venivano usati in ambito legale per inviare pacchi o lettere. Poi si succedono straordinarie serie di tavolette d’argilla di pochi centimetri scritte in finissimi e fittissimi caratteri sumerici cuneiformi, che rappresentano la prima forma di scrittura intorno al 3500 a.C. 
 
Tavolette in caratteri cuneiformi, Adana
Sono registri contabili di merci consegnate redatte da funzionari dell’Impero Ittita (1700-1200 circa a.C.) che adottò la scrittura cuneiforme di origine assira. Le tavolette sono state dissotterrate a Uruk, nella bassa Mesopotamia, la città del famoso re Gilgamesh, protagonista dell’epopea omonima[5]. La tavoletta con un brano di questo poema la vedrò nel museo di Şanliurfa. Imponente la statua del dio Tarhunda, eretto su un cocchio che era trainato da due tori simboleggianti il giorno e la notte.

Il dio Tarhunda, Adana
 l giorno successivo parto per Gaziantep, ormai entrando nell’ex-Mesopotamia - vedere accanto la provvidenziale cartina fornita dal locale museo archeologico, lo Zeugma Museum -  che è uno scrigno di mezzo km quadrato di mosaici  romani magnifici e molto ben conservati, e pour cause!
 
Mezzaluna Fertile
Infatti le ville romane dove si trovavano rimasero sepolte per secoli, finché durante gli scavi per la costruzione della vicina diga Birecik sul fiume Eufrate vennero alla luce e furono asportati per salvarli dall’inondazione. Le raffigurazioni sono di una grande eleganza e nettissime: uno dei più famosi è il dittico di Oceano e Teti, ma sono tutti mosaici stupendi: le tessere sono minuscole fino a evocare veri e propri quadri, le espressioni dei volti intense, i colori dei drappeggi sontuosi e cangianti, le membra hanno toni sfumati e sono piene di movimento; una festa per l’occhio e per lo spirito, anche se, pensando al lavoro artigianale di migliaia di schiavi curvi a tagliare prima la pietra e poi le tessere, si riflette ancora una volta sul sudore e sangue che la bellezza dell’arte spesso sottende.

Oceano e Tei, Gaziantep

Museo di Gaziantep

La Cittadella selgiuchide[6] che domina Gaziantep su una altura appena fuori del cuore del centro storico è tutta occupata da un museo inneggiante alla guerra d’indipendenza turca, immediatamente successiva alla prima guerra mondiale, nella quale L’Impero Ottomano si era schierato con gli Imperi Centrali. In particolare vi si celebra la vittoria nella guerra franco-turca (1918/21) combattuta in Cilicia, che vide la resistenza accanita contro le truppe francesi che difendevano gli interessi della Francia di tre città soprattutto: Antep, Maraş e Urfa che riuscirono a respingere il nemico. In seguito alla vittoria il nome delle città cambiò in Gaziantep, Kahramanmaraş e Şanliurfa, premettendo ai nomi rispettivi gli aggettivi “reduci”, “eroici” e “gloriosi” in onore dei combattenti. Peccato che l’ombra dei Giovani Turchi aleggi pesante e che quanto esposto trasudi un iper-nazionalismo e un militarismo trionfalistici molto fastidiosi, a scapito di una documentazione storica spassionata chiaramente impossibile, poiché l’identità nazionale turca si costituì contro le identità greca e armena che pure erano parte integrante del patrimonio storico e culturale dell’Anatolia occidentale. A quell’epoca il genocidio armeno (24 aprile 1915/1917) era ormai compiuto[7] e si preparava quello che i greci chiamano “il genocidio dei greci del Ponto” e lo strappo sciagurato dello “scambio di popolazioni” con annessa distruzione –e massacro - di una città cosmopolita con una storia millenaria come Smirne, l’odierna Izmir[8].
 
Guanto speciale di lana di capra per hamam

Intristita dall’esaltazione smaccata di un’epoca relazionata a tali catastrofi, mi rasserena la visita a un antico hamam trasformato in museo, costruito intorno al 1565. In Anatolia i bagni pubblici esistevano sin dall’era del bronzo (3600-1200 a.C.) e prendevano come modello le terme romane con il calidarium, tepidarium e frigidarium. Addirittura prima del 1000 d.C. anche le popolazioni nomadi facevano il bagno in tende di pelli chiamate çerge. A tutt’oggi in aree rurali si fabbrica artigianalmente il sapone con liscivia e olio d’oliva (forse anche grasso di montone, penso io, memore di una conversazione in Mali con una collega che come grasso per la confezione di sapone aveva utilizzato i resti del montone del Tabaski[9]). C’erano già allora i massaggiatori professionali che usavano ruvidi guanti di lana di capra chiamati keseler (plurale di kese). Una vasca speciale in una stanzetta a parte era riservata al bagno rituale (mikveh) dei clienti ebrei.

Lasciata Gaziantep procedo a est e arrivo a Şanliurfa, dove vedrò il tempio del neolitico preceramico più antico del mondo[10] (9600 a.C.) e, non lontano dal tempio, sia la grotta dove secondo la tradizione (?) nacque Abramo che lo stagno sgorgato dalle fiamme che avrebbero dovuto bruciarlo (da adulto), quando i carboni ardenti si trasformarono in carpe guizzanti. Peccato che al mio arrivo il termometro segni 41 gradi C all’ombra.



 
Statuetta di personaggio enigmatico , Museo di Adana


Leone di Basalto, Museo di Adana



[1] La “c” in turco suona g palatale (gi,ge italiano) e ç come c dolce (cena).
[2] Rock-cut tombs in inglese, tipiche di molte zone dell’Anatolia, visibili a Dalyan, a Fethtiye e appunto nella zona di Silifke e Mersin.
[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Sar%C4%B1ke%C3%A7ili,_Ceyhan
[4] https://www.youtube.com/watch?v=rYg9iuTlL3Y ( questa è un’intervista in lingua turca e non il filmato  che ho visto nel museo di Mersin, tuttavia è evidente il contesto pastorale).
[5] Uruk fu nel 4° millennio una grande città che nel periodo del massimo splendore aveva ben 80.000 abitanti in 6 km2, forse la più grande del mondo in quel periodo.
[6] http://www.treccani.it/enciclopedia/selgiuchidi/
[7] http://www.comunitaarmena.it/il-genocidio-armeno/
[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Scambio_di_popolazioni_tra_Grecia_e_Turchia
[9] Così si chiama in Africa Occidentale la festa dell’Eid al-adha, festa del sacrificio che commemora il sacrificio di Isacco risparmiato all’ultimo momento. Invece nessuno salva i montoni.
[10] Le ziqqurat sumere sono datate 5000 anni più tardi.

martedì 29 ottobre 2019

VIAGGIO TRA CIPRO E TURCHIA 2: CIPRO


CIPRO: AFRODITE NON ABITA PIU’ QUI

Museo Pierides, Larnaca

Il mese trascorso a Cipro non ha offerto difficoltà particolari, a parte l’impossibilità per chi viaggia in bus di visitare i villaggi sulle montagne dell’interno o la penisola di Karpas, celebrata come area paesaggistica ancora preservata dal cemento e costellata di interessanti monasteri, a meno di non andare intruppati in un torpedone affollato o in taxi, due opzioni che ho scartato come non appetibili o troppo costose.

Veneri neolitiche, Museo Pierides
 Il Museo privato Pierides di Larnaca conserva reperti unici: stupefacente l’estatico e ridente personaggio di ceramica di epoca calcolitica (5500/4000 a.C.) con i gomiti appoggiati alle cosce e la bocca spalancata per ricevere un’acqua che doveva sgorgare dal grosso foro del pene. Interpretazione della mia guida: l’uomo urla, non ride (come pare a me). Ce ne sono altre di statuette calcolitiche simili, ma più piccole e meno icastiche; in un’altra teca ancheggiano leggiadre Veneri neolitiche. 
 
Forte di Larnaca
Aghios Lazaros, Larnaca
Il castello-fortezza di epoca ottomana prospiciente il mare è ben conservato anche se non spettacolare come quello che vedrò a Lemesos, la spiaggia e il mare sono mondi di plastiche e affini. La più bella immagine di Larnaca è però notturna: la chiesa bizantina di Aghios Lazaros illuminata dai riflettori è una visione dorata in fondo a una piazza buia e sembra quasi sospesa a mezz’aria, irreale e perfetta, armonica nelle proporzioni nonostante le demolizioni e i rifacimenti attraverso i secoli, compresa la transizione passeggera a moschea. 
In compenso il lungomare è una parata di orrori: Mac Donald, Burger King, spocchiosi alberghi, ristoranti e bar poco accoglienti con prezzi gonfiati, e un via vai continuo di turisti doc in calzoncini e cappelloni. La spiaggia è irta di ombrelloni con relativi lettini fino alla striscia sottile di sabbia davanti al castello, finalmente libera da ostruzioni e aperta ai non paganti.
Lemesos, interno castello

Sulla costa più a ovest, Lemesos ha un bel centro storico e un castello con probabili origini bizantine; l’attuale imponente fortezza, trasformata in un ricco e originale museo medievale, è stata ricostruita dagli Ottomani. In mostra preziose ceramiche dai colori pastello di epoca crociata nella cornice di una architettura interna molto movimentata, tra arcate e cunicoli, scale strette e ripide a chiocciola, corridoi tappezzati di lapidi e pietre tombali o visi di pietra, a volte stranamente sfregiati. Tra le curiosità sono esibite delle granate a mano di terracotta, di provenienza sconosciuta e non datate. 
Granate di terracotta

Purtroppo è stato creato recentemente, con grande dispendio di fondi, un nuovo porto turistico con relativa zona di boutiques e uffici di società immobiliari, un mega-progetto battezzato La Marina dai developers, concepito dall’architetto francese Xavier Bohl. Giganteschi cartelloni esibiscono ireniche visioni di isolette edilizie azzurrine dove danarosi pensionati e giovani leoni potranno godersela tra piscine saune giardini in penta o esa-stellati hotel di venti piani … immagini che fanno a pugni con il vicino centro storico di stradine, antiche chiese e case a due piani. Notevole spudoratezza falso-avveniristica. Mi viene in mente Bastia in Corsica, dove la distanza tra porto antico e nuovo porto commerciale smussa completamente ogni possibilità di cacofonia visiva.
Speculazione edilizia a Lemesos (cartellone pubblicitario)

La mia sosta successiva è Paphos, con due estese aree archeologiche ambedue affascinanti affacciate sul mare e addossate a rocce di arenaria. La prima è giusto a fianco del piazzale della stazione autobus e vanta magnifici mosaici appena sfocati dal tempo nella cosiddetta Dimora di Dioniso e nella Villa di Teseo, un teatro ellenistico-romano, l’Odeion, ben restaurato, e una fortezza medievale diroccata, oltre ad altre numerose e scenografiche rovine.


Mosaico a Paphos
 Un faro bianchissimo svetta vicino al teatro.  Parte dell’incanto del luogo, nonostante il sole a picco e le distanze da percorrere, lo si deve al contesto di terra riarsa cosparsa di radi arbusti e cespugli, con il mare che respira vicino. Si continua a camminare sui polverosi tracciati tra erbe secche e macchie di fiori azzurrognoli, aria cristallina e cielo terso, e non si vorrebbe più uscire dal magico cerchio luminoso che racchiude l’area. Stessa sensazione il giorno successivo durante la visita alle cosiddette tombe dei re, tutte ipogee: tempo fatto pietra sotto un sole ardente tra “le antiche mani dell’arenaria[1]” e l’erba assetata ma chiazzata di fiori. A dispetto della denominazione, non re ma alti funzionari e aristocratici romani vi furono seppelliti tra il 3° secolo a.C. e il 3° d.C.
Tomba ipogea a Paphos
Dopo il tuffo ammaliante nel remoto passato, il brusco ritorno alla moderna inciviltà: di fronte alla massicciata dove sono allineate le sdraio e gli ombrelloni, se si vuole nuotare verso il largo bisogna guardarsi dalle stolte giravolte (inquinanti) dei motoscafi che innalzano su seggiolini appesi a dei simil-paracadute coppie in cerca di brividi blu, oppure le sballottano avanti e indietro in divanetti di plastica galleggianti, con contorno immancabile di prodezze dei vari ragazzotti a bordo di scooter d’acqua.

Lasciata Paphos, a Nicosia riesco a scovare un piccolo albergo in una stradina pedonale, e la stanza al terzo piano senza ascensore è dotata miracolosamente di una porta finestra con imposte di legno[2] che dà sulla terrazza dalla quale si vedono (e odono) bambinetti che scorrazzano tutto il giorno con biciclette o giocano a palla. 


Signora di Lempa, Museo Archeologico
La visita al Museo Leventis è oltremodo istruttiva e coinvolgente: la prima cosa che mi colpisce è il perfetto parallelo tra il mito della nascita di Afrodite dalla
Venere singolare, Museo Leventis
spuma del mare e l’effettivo sorgere dell’isola dalle profondità dell’antica crosta oceanica. I primi ad emergere dal fondo in seguito alle scosse telluriche furono i monti Trodoös, circa 20 milioni di anni fa; seguì la catena montuosa dei Pentadactylos, che da Kyrenia/Girne si prolunga verso nord-est nella penisola di Karpas e infine venne alla superficie la pianura intermedia di Mesaoria che saldò i due tronconi montagnosi 1.800.000 anni fa. Dopo la geologia, il museo ricostruisce la storia dell’isola a partire dal più antico sito archeologico, uno dei più importanti del Mediterraneo orientale, il villaggio di Choirokoitia[3] che risale a circa 9000 anni fa. Si precisa che le salme sepolte in pozzi, a volte con corredo funebre, avevano addosso pesanti pietre, si ipotizza “affinché non tornassero!” Belle le prime cartografie di Cipro del 1500 e raccapricciante il racconto dell’assedio di Nicosia da parte degli Ottomani nel 1570 di Pietro Contarini, testimone del massacro che ne seguì, descritto nelle pagine della sua Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim Ottomano, pubblicata nel 1572, uno tra i molti libri dei viaggiatori che si avventurarono in Oriente tra il 1600 e il 1800 esposti nel museo. 

Molto ricco il museo archeologico, singolare la “signora di Lempa”, ceramica neolitica, bellissime le donne-uccello della tarda età del bronzo (1450/1200 a.C.) usate nei rituali associati alla fertilità e fantasoso il lampadario ellenistico.
 
Donne uccello, Nicosia
Tra il tesoro di una tomba trovata a Kalavassos risalta una fluente chioma di capelli castani che sembrano appena tagliati: sono della tarda età del bronzo.
Il giorno seguente visito la Nicosia turca, ribattezzata Lefkoşa, quasi indenne dalla speculazione edilizia che imperversa nella parte greca, ma visibilmente più povera. Andando verso il centro dal posto di controllo passaporti mi imbatto nell’avanguardistico progetto di case popolari risalente all’inizio del ‘900, quindi di epoca ottomana, varato da tal Musa Irfan Bey, direttore di Evkaf, una Fondazione tuttora esistente che ha per mission dichiarata l’impiego di risorse a beneficio delle classi meno abbienti. C’è una targa che illustra le caratteristiche del quartiere come fu concepito allora: acqua potabile distribuita da una fontana centrale, piazzuole con panchine, verde e giardinetti. Percorro i corridoi tra i vari filari delle case basse bianche e uguali, tutte e 72 abitate ancora oggi, graziose anche se modeste: una signora mi fa visitare la sua e vedo che i tetti sono costruiti in modo da lasciare una intercapedine tra tetto e soffitto in modo da fare da tampone sia al freddo che al caldo. Lodevole lungimiranza. Oggi la fontana non distribuisce più acqua perché l’acquedotto l’ha rimpiazzata. Astrale distanza dall’attuale speculazione edilizia tesa al profitto.
Samanbahce
Procedo verso il Museo Mevlevi Tekke che mi affascina. Tekke significa in turco dimora, albergo. I tekkes erano istituzioni caritatevoli che offrivano cibo e alloggio ai poveri oltre che istruzione gratuita nelle discipline liberali anche ai rampolli di aristocratici e li istradavano alla carriera amministrativa o militare. I fondi provenivano da istituzioni caritative musulmane, le Wakifs, nate subito dopo il 1570, alla caduta della Cipro veneziana. Vi si formavano i dervisci che seguivano un severo apprendistato di 1001 giorni, a partire dalla…cucina, sotto la supervisione del capocuoco e dei suoi assistenti. I pasti venivano consumati in silenzio e iniziavano e finivano con un pizzico di sale. Quando un allievo derviscio voleva bere staccava un pezzetto di pane e lo alzava verso la spalla sinistra, poi guardava il compagno che serviva il pranzo: questi allora gli versava l’acqua e tutti gli altri smettevano di mangiare finché l’assetato non avesse finito di bere. Alla fine del pasto si cantavano in coro le preghiere. Il lungo rosario serviva a recitare i nomi di Dio[4]. Il mistico iniziatore dell’ordine dei dervisci rotanti fu il Mawlana Jalaluddin Rumi, nato a Balkh in Afghanistan nel 1207 e morto a Konya, dove c’è la sua tomba venerata a tutt’oggi.
Museo Mevlevi, sala da pranzo
Visito poi il il Büyük [5]Han Cultural Centre, un antico caravanserraglio trasformato in centro di intrattenimento dove sono in vendita articoli di artigianato, libri, stampe e guide turistiche. Gli Han che vedrò numerosi in Turchia hanno un grande cortile quadrangolare con porticati da ogni lato che era anticamente adibito a stazionamento di dromedari e carri, mentre il piano superiore aveva camere per i viaggiatori tutte intorno al cortile centrale. 
Centro culturale ex Han

In mezzo al cortile c’è una piccola moschea a chiosco con cupola, il tutto molto suggestivo. Infine visito la grande e magnifica chiesa di Santa Sofia che è stata mascherata da moschea e appare assai poco credibile come tale, con la maestà delle sue linee e il rosone della navata centrale. A Lefkoşa si gira comodamente a piedi mentre a Nicosia si è continuamente disturbati dal traffico.

Santa Sofia con minareto

Girne/Kyrenia (turca) si trova sulla costa settentrionale ed è una paciosa cittadina con stradine ripidissime che sboccano sul vecchio porto e la passeggiata a mare fino al castello, un tempo dimora dei Lusignano signori di Cipro dal 1191 al 1489. Questa antica fortezza è forse la più interessante delle due precedenti in quanto possiede affascinanti reperti di due naufragi, uno avvenuto in epoca bizantina e l’altro più antico, nel 288 a.C. Di quest’ultimo si conserva parte dello scafo di legno di pino d’Aleppo: trasportava 410 anfore e un carico di 9000 mandorle “molto ben conservate” (il ritrovamento è degli anni ’60 del ‘900), che sono in mostra. Analisi sulle mandorle hanno dimostrato che si trattava del raccolto del 288 a.C[6]. 
Scafo del 288 a.C.

A pochi chilometri da Girne ci sono il Castello di sant’Ilarione, un castello perfetto per la strega di Biancaneve, in cima ad un cocuzzolo roccioso e irto di arbusti, semidiroccato, e le rovine dell’Abbazia di Bellapais resa celebre dal soggiorno di Lawrence Durrel tra il 1953 e il 1956, con le sue monche ogive gotiche: chiesa, chiostro, sala capitolare, magazzini a volta sullo sfondo di un paesaggio bucolico-marino.

Castello di Sant'Ilarione
La mia penultima tappa cipriota è Famagosta, già caldissima a fine giugno: molte le belle chiese – la più spettacolare è San Nicola - quasi tutte divenute improbabili moschee; del palazzo veneziano resta la facciata, il porto e la marina non sono aree pedonali e pittoresche come a Girne. Il piatto forte è anche qui il castello- fortezza con la cosiddetta torre di Otello governatore di Cipro, castello che Shakespeare apparentemente scelse per l’ambientazione della sua tragedia almeno secondo la tradizione letteraria, dato che Famagosta non è menzionata esplicitamente nel testo.

Torre detta d'Otello a Famagosta

Dopo la visita alla rovine di Salamina[7] sotto un sole di Satana, anche queste disperse in un’area vastissima, lascio Famagosta che bolle a 40°C per una cittadina sul mare un po’ più a nord, Iskele, con una spiaggia che sarebbe bella se fosse meno affollata e più pulita, battezzata pomposamente Long Beach. Cammina e cammina sul bagnasciuga, si riesce a trovare angoli solitari e dune dove l’acqua è trasparente (ma il fondale scomodo). L’unico ristorante del piccolo centro si trova dentro un gigantesco complesso edilizio con tanto di cancelli esterni, e ha un menu ben poco appetitoso. La simpatica e comprensiva gerente dell’Hotel Boutique mi concede per fortuna l’uso della sua moderna e attrezzata cucina, per cui passo giorni piacevoli con lei e con le dune marine.
Vista di Famagosta

Statuetta del dio Bes,divinità egizia, Museo archeologico di Iskele

Area archeologica di Paphos


[1] Di montaliana memoria
[2] Dico miracolosamente perché sarà l’unica stanza da letto trovata in tutto il viaggio dotata di imposte. Sia a Cipro che in Turchia le si ignorano, e le tende spesso chiare che le dovrebbero sostituire fanno sì che la luce del mattino irrompa su chi dorme all’aurora.
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Choirokoitia
[4] La teoria dei nomi di Dio è parte integrante della mistica ebraica.
[5] Büyük signifia “grande” in turco.
[6] Visitando il dungeon, antro e pozzo dove venivano relegati i prigionieri, registro la toccante storia di Joanna l’Aleman, la favorita di Pietro I Lusignano, re di Cipro e Gerusalemme, che fu qui imprigionata e torturata in ogni modo mentre era incinta del re per ordine della moglie di Pietro, gelosa dell’amante dello sposo infedele mentre questi era assente. Arrivarono a metterla in fondo al pozzo della prigione, digiuna per giorni e giorni e con una grossa pietra sul ventre per farla abortire. Joanna resistette a tutto e riuscì a partorire un bambino che sopravvisse, e fu di nuovo accolta a corte dal re reduce dalle sue spedizioni contro i musulmani.
[7] Da non confondere la Salamina cipriota con quella greca, famosa per la battaglia dei greci contro i Persiani nel 480 a.C.