SUD SUDAN: L'IMMAGINAZIONE AL POTERE
Un accampamento per rifugiati a Malakal, Sud Sudan, Agosto 2014
A fine ottobre, mi ha colpito il titolo di un
articolo di Le Monde: “Au Soudan du
Sud, une guerre non-fumeur”( https://www.google.it/#q=Au+Sudan+du+Sud+une+guerre+non-fumeur).
. Dal 15 dicembre del 2013 il Sud Sudan, lo
stato più giovane del mondo, nato nel luglio del 2011 da una scissione sancita
da referendum dal Sudan, è lacerato da una guerra intestina tra governo e
opposizione che ha provocato qualcosa come un milione e mezzo (o più a seconda delle stime) tra sfollati e
rifugiati nei paesi confinanti, decine di migliaia di morti e la distruzione
delle città più vicine ai ricchi giacimenti di petrolio del nord: Malakal, Bor
e Bentiu. Una crisi umanitaria di
proporzioni bibliche è stata finora evitata con massicci flussi di aiuti
internazionali, ma una carestia simile a quella dell’Etiopia del 1984 è dietro
l’angolo. Almeno centomila persone hanno trovato rifugio nei campi della
Missione delle Nazioni Unite per il Sud Sudan, UNMISS, dove le condizioni di
sopravvivenza sono spesso miserabili al di là dell’immaginabile, tra fango
senza fine (stagione piovosa che dura da aprile a novembre) e scarsità di tutto:
cibo, servizi igienici, tende e acqua. Una guerra non fumatori??
Ebbene si: il Ministro dell’Ambiente, dalla
capitale Juba, ha emesso un decreto per cui dal 7 ottobre 2014 è “formalmente
proibito fumare nei luoghi pubblici”.
L’articolista ne deduce che, essendo anche i campi di battaglia tali, chi oserà
fumare negli intervalli tra una mattanza e l’altra avrà l’amara sorpresa di
essere multato per la bella sommetta di
500 lire sudanesi, corrispondenti a circa 80 euro. Il decreto è tanto più sorprendente in quanto
l’ignoto estensore del decreto, probabilmente
influenzato da letture surrealiste e non contraddetto dal distratto ministro,
si lancia in una enumerazione fantastica ma dettagliata di tali “luoghi
pubblici”, menzionando “porti marittimi, sale di cinema e teatri”. Trascurando
un piccolo particolare: il Sud Sudan è perfettamente inchiavardato da
ogni lato da migliaia di chilometri di terraferma. Inoltre non esistono sale di
cinema e ancor meno teatri, a meno di non considerare tali claustrofobici
anfratti dove si proiettano DVD clonati varie volte, che mi pare di avere
intravisto già nel 2008 o nel 2009, quando sono stata qualche giorno a Juba, una
delle più orrende città che abbia mai visto in Africa, cui non credo che la
guerra abbia giovato.
Stati del Sud Sudan
E, stante
il contesto, ancora più surreale l’obiettivo perseguito dalla nuova norma:”creare
un ambiente favorevole alla salute in tutto il paese”.
Appunto, il contesto, eccolo qua, illustrato da
un articolo pubblicato su Africa Confidential il 7 marzo 2014 (http://www.africa-confidential.com/article/id/5294/Shooting_in_Juba,_talking_in_Addis),
che fa il punto sulla situazione dei colloqui di pace in Etiopia tra i due
principali contendenti, il presidente Sud Sudanese Salva Kiir, di etnia Dinka
(la maggiore del paese), e l’ex-vice-presidente che capeggia la ribellione,
Riek Machar, di etnia Nuer, atavica rivale dei Dinka: “E’ stata spezzata la
tradizione secondo la quale esiste il rispetto per le proprietà della Chiesa.
Adulti e bambini sono stati massacrati dentro le chiese, donne (sono state)
stuprate e rapite. C’è stato chi, telefonando a casa di familiari per avere
notizie, si è sentito rispondere: “Ho appena ucciso il tuo parente” (I just
killed your relative)”. Un ambientino favorevole alla salute, fisica e
mentale.
E’ una guerra quasi ignorata dai quotidiani e
canali televisivi italiani. Uno dei migliori siti per informarsi è curato da
un professore universitario del
Massachusetts, Eric Reeves, che ha anche scritto diffusamente sulle radici del
conflitto odierno: www.sudanreeves.org
Nel prossimo dicembre, alla fine della
stagione delle piogge, c’è il rischio molto concreto che i combattimenti e le
stragi, che hanno dovuto subire una battuta d’arresto perché la pluviometria
impedisce gli spostamenti in gran parte del paese, riprendano: l’ultimo “
Conflict Alert” del 30 ottobre di International
Crisis Group segnala che il governo di Juba ha speso decine di milioni di
dollari in nuovi armamenti durante la “pausa piogge”, e che un comandante
dell’opposizione dichiarava “risolveremo
questa storia con la guerra”. Nove mesi di discussioni ad Addis Abeba non sono
serviti a molto. Non mi stupisce più di tanto: ho passato quasi un anno nel Sud
Sudan e nonostante abbia lavorato in molti paesi africani, compresa la Somalia,
mi sembra di non essermi mai imbattuta in una popolazione più attaccabrighe,
più aggressiva e violenta di quella Dinka. Ma non si può dire che altri gruppi
etnici non siano alla loro altezza. E d’altra
parte la maggioranza della popolazione, ovviamente giovane, non ha conosciuto
altro che guerra (la guerra tra Nord e Sud è durata dal 1983 fino al 2002), le condizioni
in cui i bambini ancora oggi vengono allevati nelle zone rurali sono durissime; chi
sopravvive è un vincitore che se vuole continuare a prevalere non può andare per
il sottile. I conflitti tra i clan e le razzie di bestiame sono il pane
quotidiano. Non ho mai avuto il coraggio di entrare in un “cattle camp”, cioè
gli accampamenti nella boscaglia dove sin dai 5-6 anni i ragazzi convivono con
le mandrie per mesi, da soli, bastando a se stessi e governando centinaia di capi. Bestie con corna lunghe
quasi mezzo metro.
Ed è a questi giovani dei cattle camps che pare si sia rivolto Salva Kiir per farne
delle milizie che affianchino l’esercito regolare di Juba, il Sudan People Liberation
Army –J (SPLA-J), decimato da diserzioni a favore dei ribelli, a loro volta
supportati dal cosiddetto “White Army”, un’altra milizia che spalleggia i ribelli,
i Nuer. In più, l’Uganda e un altro gruppo di guerriglia presente in
Sud Kordofan e nel Blue Nile, stati che appartengono al Sudan,
appoggiano militarmente il Governo di Juba. Così si moltiplicano la milizie e le
bande armate. Secondo l’ICG, in Sud Sudan oggi ce ne sono addirittura due dozzine.
"La causa alla radice del
conflitto in Sud Sudan è la dura lotta di potere dentro la leadership dello
SPLM (Sudan People Liberation Movement)[1] ....Sfortunatamente, questi conflitti
tra individui tendono a contagiare la popolazione, in quanto questi leader
rappresentano gruppi diversi dentro il paese" (Nikolai Hegertun, Project Coordinator
dell’Oslo Center on Peace and Human Rights, marzo 2014 (http://www.oslocenter.no/en/). Sono
antiche malattie africane, il tribalismo e la rivalità tra i clan, soprattutto
forti nelle società pastorali che devono lottare sempre di più per l’accesso
alle vitali risorse di pozzi e pascoli, oltre che per la libertà di movimento.
Il rimedio prescritto è semplice da enunciare ma assai più arduo da
raggiungere, soprattutto quando è in gioco la posta degli stati petroliferi: “Più
di ogni cosa, il Sud Sudan deve lottare per raggiungere l’inclusione e la
riconciliazione”, coinvolgendo tutti gli attori e non solo i leader, come ha
fatto finora il principale organo di mediazione cui l’Unione Africana ha
demandato il compito di paciere, l’IGAD (Intergovernmental Authority on
Development), a partire dal gennaio 2014, con i buoni auspici di Kenya, Uganda
e Etiopia.
Ma non sembra che i responsabili dello
sgretolamento della compagine statuale del Sud Sudan abbiano per ora intenzioni
pacifiche. Nel suo website, Eric Reeves pubblicava il 2 novembre un inquietante
comunicato del SPLA/iO, l’ esercito dei ribelli, nel quale si minaccia di abbattere gli
elicotteri cargo delle Nazioni Unite in missione umanitaria, accusandoli di
trasportarvi truppe dell’esercito di Juba. Stranamente oggi 9 novembre 2014 il
testo del 2 novembre è scomparso. Minacce ricevute?? Riproduco qua sotto l’intestazione
dell’articolo del 2 novembre a riprova di quanto affermato:
“SPLA/in
Opposition” Issue an Ominous “Press Release” Concerning UN Helicopters, 2
November 2014
Ed ecco invece la pagina di apertura del
website di oggi, 9 novembre:
“Eric Reeves, 28 September 2014
“Khartoum Offers Strategic Military Support to Rebels in South Sudan (SPLA-in-Opposition)” (Part Three of “Looking Directly into the Heart of Darkness”)”
Mi sembra molto strano.
Ad ogni buon conto, il titolo del 28 settembre evoca il timore che il Sudan (il governo del tagliagole Omar Al-Bashir, che il Tribunale Penale Internazionale ha accusato di crimini di guerra nel 2009, emettendo un mandato di arresto internazionale che non si riesce a rendere esecutivo) stia appoggiando i ribelli di Riek Machar, che hanno le loro basi principali nei due stati petroliferi di Unity e Upper Nile, al confine settentrionale, per impadronirsi di questi territori, installando magari Machar come governatore fantoccio in una futura zona cuscinetto, in modo da assicurarsi di nuovo la sovranità sulle fonti di approvvigionamento energetiche vitali per la sua economia dissanguata dai debiti e dalla guerra in Darfur.
L’unica buona notizia viene dalla zona di Yei,
200 km a sud di Juba, per la penna del Reverendo Bernard Oliya Suwa ( http://www.sudantribune.com/spip.php?article52956),
che in una vivace “township” quasi al confine
con l’ Uganda e la RDC, ha miracolosamente trovato una “Small London”, una enclave coordinata
dalla chiesa locale dove convergono giovani provenienti da tutti gli stati del
Sud Sudan, e quindi appartenenti a decine di gruppi etnici diversi. Al Reverendo pare di sognare: ciascuno
racconta storie personali orrende sulla
propria esperienza del conflitto attuale e si piange insieme (“they shared horrendous personal testimonies from the
recent conflict together – and they cried together”).
Come fare perché questo piccolo e
meraviglioso esempio si allarghi a tutto il paese?
[1]
Il SPLM è il partito che ha condotto la lotta di liberazione contro il Sudan del
Nord e che dal 2011 è al governo.
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