LA
FABBRICA DEL JIHAD GLOBALE OVVERO COME DIROTTARE LE LOTTE DI CLASSE
Seconda
parte
Baghdad: giovani gridano slogan davanti a Centro di reclutamento
“Viva l’Italia, viva Oriana Fallaci!”
Con queste parole mi ha accolto il fruttivendolo sotto casa
qualche giorno fa, facendomi rabbrividire. E’ in sintonia con lo stato d’animo
post 13 novembre 2015 che prevale in gran parte d’Italia e d’Europa: allons
enfants de la patrie, la guerra senza quartiere come unica soluzione. Strano
che i guerrafondai non si pongano una semplice domanda: le guerre dichiarate
dopo il 1989, queste guerre di nuovo tipo post guerra fredda, hanno prodotto un
mondo più sicuro, più vivibile, società più armoniose e meno conflittuali, o il
contrario? A chi hanno giovato?
Basta avere una minima conoscenza della
situazione dei Balcani, degli avvenimenti in Israele, Cisgiordania e Gaza, e
soprattutto guardare agli esiti delle guerre asiatiche di G.W. Bush e Blair
fino alla coalizione del settembre 2014 contro ISIS, fino agli appelli odierni
ad una alleanza maggiorata contro “il terrorismo”, per rendersi conto che forse
la chiamata alle armi per una invincibile armata non avrà l’esito sperato. Ma
qual è l’esito sperato? Forse non è esattamente quello sbandierato ai quattro
venti: distruggere ISIS. E intanto bisogna considerare alcune ricadute
domestiche positive per uno dei bellicosi capi di stato che affronta elezioni
regionali pericolose: l’indice di gradimento di Monsieur Hollande è salito di
20 punti tra i suoi concittadini (RFI, 2 dicembre 2005).
Ma vediamo “come tutto cominciò” nel mondo post Muro di
Berlino.
Anche G. Bush padre, come il figlio, non scherzava in fatto
di doublespeak e doublethink.[1] “Noi posiamo la pietra
angolare di un ordine internazionale più pacifico”, dichiarava il neo
Presidente degli Stati Uniti durante un incontro con Gorbachev a Helsinki
(Time, 17 settembre 1990), mentre preparava la mattanza della prima Guerra del
Golfo.
Sotto la sua presidenza si sono inaugurate” le guerre del
futuro”, secondo Michael Klare (Le Monde
Diplo, gennaio 1991) che denunciava la nuova dottrina del Pentagono,
centrata sui MIC (medium-intensity conflicts, contrapposti ai low-intensity
conflicts precedenti, quelli africani tipo Angola o Mozambico[2] del periodo della guerra
fredda). La strategia verrà collaudata con l’operazione Scudo del deserto[3]. Altri parlavano
ottimisticamente dei “dividendi della pace”; la Nato e il Pentagono vedevano
allontanarsi un nemico, l’Unione Sovietica, e già pensavano di costruirne un
altro. Martin Sherry, storico, autore di un libro sulla militarizzazione degli
Stati Uniti, osserva che “gli Americani (intesi come cittadini USA) sono
talmente abituati alla guerra, sotto una forma o un’altra, che la fine di essa
sembra loro quasi inimmaginabile” (citato da Alain Gresh in “Croisade
antiterroriste”, Le Monde Diplo,
settembre 1996). E l’autore dell’articolo continua: “(gli americani) cercano
sempre un nuovo nemico”. “Il declino delle ambizioni imperiali sovietiche e
della minaccia sovietica di tipo convenzionale in Europa non significa la fine
della storia, come si è detto, ma la fine di una tappa della storia...la
prossima tappa sarà senza dubbio centrata sui dei conflitti di media intensità”.
Così Michael Klare, citando un gruppo di alto livello riunito a Washington nel 1990 dal Centro di Studi
Strategici e Internazionali.
Con Bush padre nasce lo slogan dei “regimi
canaglia”, medie potenze regionali come la Siria e l’Irak, che possono minacciare
l’egemonia degli Stati Uniti e soprattutto la loro libertà d’accesso a risorse
strategiche, leggi petrolio (così Dick Cheney, capo del Pentagono, secondo un
documento segreto che fissa le regole della difesa per il 1992-1997, come
citato dal New York Times, 7 febbraio
1990). Per il Pentagono e i suoi accoliti, si tratta di pedine su uno
scacchiere geopolitico, non di nazioni di milioni di persone in carne e ossa.
Nazioni presiedute, piccolo particolare, da tiranni con il loro trademark:”....se
(Saddam) era un mostro, lo avevano creato gli Stati Uniti” (Patrick Cockburn, Counterpunch, 5 gennaio 2011). Una tra
le tante possibili citazioni.
Fatema Mernissi, recentemente scomparsa, grande studiosa
del rapporto tra Islam, modernità e democrazia, che sa che il mondo musulmano è
abitato da persone e non bersagli, ricorda con accenti toccanti lo sgomento e
il trauma del mondo musulmano allo scatenarsi della prima guerra del Golfo,
dopo il tripudio quasi incredulo per l’empito libertario sgorgato dallo
sgretolarsi del muro di Berlino: “Allah! I tedeschi hanno i nostri stessi
sentimenti. Amano i loro fratelli più poveri e li stanno liberando…”, esclama
Ali, un mercante del suq al-Sabat, il mercato delle scarpe di Rabat, citato
dalla scrittrice (Islam and Democracy,
1992, pag. 4). Ma poi, due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti del
gennaio 1991, lo stesso Ali dice:” Non capisco nulla, Ustada (professore).
Questa è una questione che riguarda i potenti (“the big shots” Devono
risolverla tra di loro. I venditori di scarpe di Baghdad non c’entrano. Perché
bombardare la gente? Lei può immaginare che cosa succederebbe se buttassero una
bomba sul suq al-Sabat? Un petardo soltanto darebbe fuoco a tutta la
medina!”(ibid., pag. 5).
Fabbro nel suq di Meknès, Marocco
Già, perché bombardare i poveracci? Non è terrorismo
seminare il terrore indiscriminatamente? E l’Arabia Saudita, la terra della
Mecca e di Medina, è l’alleato dei profanatori della sacra terra dove è nato
l’Islam. Ali non ci capisce più nulla. E vende il televisore comprato dopo la
caduta del Muro di Berlino.
Rinascono nel mondo islamico fantasmi storici mai
seppelliti definitivamente: ricordi del colonialismo, frustrazioni, rancori
secolari, e spettri ancora più antichi: le Crociate, il disordine, l’incubo
della fitna, la lotta interna al mondo
musulmano dopo la morte di Maometto tra seguaci di Ali e seguaci di Uthman. E’ fitna l’attuale conflitto sanguinoso tra
sciiti e sunniti, rinfocolato dalle aggressioni di cui gli Stati Uniti si sono
fatti alfieri in questi ultimi decenni, e in particolare esploso nel 2003
grazie all’ideatore della rinascita del Califfato, il giordano al Zarqawi,
riempito di soldi dagli alleati degli USA (Loretta Napoleoni, Isis lo stato del terrore, 2014,
pag.68).
Parallelamente al processo di fabbricazione delle guerre del
Golfo e del caos mediorientale attuale (e alla disintegrazione dei Balcani,
alla guerra in Cecenia), negli anni ’90 si scardinano in molti stati europei le
basi dello Stato Sociale: garanzia del posto di lavoro, un robusto sindacato,
contrattazione collettiva, sanità pubblica di buona qualità garantita, pensioni
decenti d’anzianità, diritto allo studio. Si è già fatto strada negli anni ’80
il pensiero debole; imperversa la moda rizomatica, bando alle radici e viva la
fine delle ideologie, delle grandi narrazioni, socialismo e comunismo sono
ferrivecchi, viva l’individualismo e la libera impresa, ognuno è solo di fronte
alla concorrenza e responsabile di farsi strada da sé, se non ce la fa è colpa
sua, ha qualcosa di sbagliato, è un “loser”, grande anatema made in USA. I
perdenti, guai a loro.La lotta di classe come
fattore esplicativo centrale (certamente non unico) dei movimenti societari è
messa in soffitta insieme alle grandi narrazioni e al pensiero marxista,
armamentario non utile a interpretare la dinamica del presente storico, buono
per inguaribili nostalgici. Il Milton Friedman pensiero celebra le virtù del
libero mercato.
Non si può non
collegare tutto ciò alla anomia crescente nelle società europee, alla
emarginazione dei “laissés pour compte”, espressione francese che designa i
fondi di magazzino, ma umani; è l’essenza della mercificazione del vivente. E
non solo si tratta di emarginazione economica ma culturale, linguistica, etnica,
spirituale. Religiosa. Come non collegarla ai “riots” del sud Inghilterra, da
Brixton nel 1981 agli scontri dell’estate 2011 a Tottenham, alle sommosse della
famosa banlieue di Parigi a Clichy-sous- Bois nel 2005. Per lo meno gli inglesi
sono scrupolosi e ci hanno studiato sopra: “Tra tutti i partecipanti alle
sommosse intervistati dal Guardian/
London School of Economics che erano in età lavorativa e non studiavano,
59% erano disoccupati. L’analisi di più di 1000 schede di persone (records)
elaborate dall’autorità giudiziaria e visionate dal Guardian indica che il 59% dei partecipanti ai disordini
provenivano dal 20% delle aree più deprivate del Regno Unito” (The Guardian, 9 dicembre 2011). Idem con
variazioni per la Francia : « Cinque anni dopo (le sommosse)
malgrado il piano Speranza banlieue e
lo sblocco di più di 5 miliardi di euro per riabilitare queste città-satellite,
poco è cambiato” (http://www.france24.com/fr/20101026-france-banlieue-emeutes-2005-clichy-sous-bois-echec-plan-nouveau-logement-cite-chene-pointu-rehabilitation).
Clichy-sous-Bois, 2005
Vanno in onda in parallelo la deindustrializzazione e la
dismissione di fabbriche di aree intere di paesi europei i cui padroni
sfruttano l’inesistenza di un minimo di legislazione sociale sempre più a est,
dall’Albania alla Romania al Bangladesh alla Cina. E la finanziarizzazione
dell’economia fa passi da gigante; dopo i crolli di Enron nel 2001 e la crisi
del 2007 si ingrassano ancor più i pescicani e si tagliano le gambe ai più
deboli (tra i tanti libri e articoli, Finanzcapitalismo del 2011 di Luciano Gallino mi sembra il più
informato, appassionato e lucido anche se non recentissimo).
Come non sospettare che lo spostamento massiccio di risorse
finanziarie dal lavoro al capitale, lo smantellamento di interi distretti
industriali, il trasferimento di fondi pubblici dalle spese sociali alle
speculazioni, la proliferazione incessante di un sottobosco di corruzione
politica[4], economica e finanziaria
in moltissimi paesi occidentali (Italia bandiera nera) e nella nuova Europa
orientale non generino linee di faglia rovinose nel tessuto delle società
soggette a tali trasformazioni disastrose? Questi fenomeni coincidono
temporalmente con la costruzione a tavolino di guerre pretestuose che mirano
all’accaparramento di risorse strategiche, i cui burattinai rimangono
sovranamente indifferenti alle centinaia di vite falciate. Un “sorry” è il
massimo che ci si possa aspettare. L’opinione pubblica (quella che rimane),
frastornata, diventa sempre più acquiescente alle favole raccontate dai grandi
e piccoli schermi, complice una scuola senza finanziamenti adeguati non
all’altezza delle sfide culturali della complessità.
Sono questi a mio avviso gli scenari sui quali
interrogarsi, il fondale di cui tenere conto, mentre ci si chiede angosciosamente su come giovinastri,
per lo più seconda generazione di immigrati maghrebini, solo apparentemente
integrati nel loro contesto sociale, bevitori di alcool, frequentatori di
boites notturne, alcuni piccoli mariuoli con brevi soggiorni in prigione, con
famiglie “normali”, si “radicalizzino” con tanta facilità, diventino pericolosi
jihadisti, partano per la guerra santa, si lascino totalmente imbonire dai
video e dalla propaganda online delle varie reti islamiste. Che capacità
critiche possiedono? Che strumenti culturali? Quali freni? Quali aspirazioni?
Sono poche migliaia al massimo, ma con un potenziale distruttivo micidiale. Il
loro vuoto interiore e la mancanza di prospettive concrete vengono riempiti da
una nuova “grande narrazione”, ecco una ragione a mio avviso fondamentale del
fascino del jihad esercitato su ragazzi e talvolta ragazze senza ancoraggi solidi, né
economici né sociali, affettivi, culturali. E se la disgregazione del tessuto
sociale è grave a Occidente, nel Nord Africa, nel Sahel, nell’Africa orientale
e centrale, nel Medioriente la situazione è ben peggiore.
In Africa dalla metà degli anni ’80 in poi è andato in onda
l’aggiustamento strutturale, altra grande pensata delle istituzioni
multilaterali targate FMI e WB, catastrofe economico-sociale che destabilizzerà
delle società che escono faticosamente dalla dipendenza neocoloniale, quasi
tutte con classi dirigenti corrotte e incapaci, che creerà le premesse dello
sviluppo di altre varietà di jihadismo. Alla prossima puntata.
[1] Concetti
fondamentali del romanzo di G. Orwell 1984.
[2] Da
ricordare come gli USA hanno finanziato durevolmente la guerriglia dell’UNITA
di Jonas Savimbi in Angola e la guerra della RENAMO di Alfonso Dhlakama in
Mozambico, destabilizzando tutta l’Africa australe durante gli anni post
indipendenza dei due stati, via il Sudafrica dell’apartheid.
[3] Le Golfe, banc d’essai des guerres de
demain, Le Monde Diplo, gennaio 1991
[4] Vedere
per tutti i libri di Vincenzo Ruggero, da Economie
sporche 1996 a Perché i potenti
delinquono 2015
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