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sabato 5 dicembre 2015

LA FABBRICA DEL JIHAD GLOBALE



LA FABBRICA DEL JIHAD GLOBALE OVVERO COME DIROTTARE LE LOTTE DI CLASSE

Seconda parte


Baghdad: giovani gridano slogan davanti a Centro di reclutamento




“Viva l’Italia, viva Oriana Fallaci!” 

Con queste parole mi ha accolto il fruttivendolo sotto casa qualche giorno fa, facendomi rabbrividire. E’ in sintonia con lo stato d’animo post 13 novembre 2015 che prevale in gran parte d’Italia e d’Europa: allons enfants de la patrie, la guerra senza quartiere come unica soluzione. Strano che i guerrafondai non si pongano una semplice domanda: le guerre dichiarate dopo il 1989, queste guerre di nuovo tipo post guerra fredda, hanno prodotto un mondo più sicuro, più vivibile, società più armoniose e meno conflittuali, o il contrario? A chi hanno giovato?
Basta avere una minima conoscenza della situazione dei Balcani, degli avvenimenti in Israele, Cisgiordania e Gaza, e soprattutto guardare agli esiti delle guerre asiatiche di G.W. Bush e Blair fino alla coalizione del settembre 2014 contro ISIS, fino agli appelli odierni ad una alleanza maggiorata contro “il terrorismo”, per rendersi conto che forse la chiamata alle armi per una invincibile armata non avrà l’esito sperato. Ma qual è l’esito sperato? Forse non è esattamente quello sbandierato ai quattro venti: distruggere ISIS. E intanto bisogna considerare alcune ricadute domestiche positive per uno dei bellicosi capi di stato che affronta elezioni regionali pericolose: l’indice di gradimento di Monsieur Hollande è salito di 20 punti tra i suoi concittadini (RFI, 2 dicembre 2005).

Ma vediamo “come tutto cominciò” nel mondo post Muro di Berlino.
Anche G. Bush padre, come il figlio, non scherzava in fatto di doublespeak e doublethink.[1] “Noi posiamo la pietra angolare di un ordine internazionale più pacifico”, dichiarava il neo Presidente degli Stati Uniti durante un incontro con Gorbachev a Helsinki (Time, 17 settembre 1990), mentre preparava la mattanza della prima Guerra del Golfo.
Sotto la sua presidenza si sono inaugurate” le guerre del futuro”, secondo Michael Klare (Le Monde Diplo, gennaio 1991) che denunciava la nuova dottrina del Pentagono, centrata sui MIC (medium-intensity conflicts, contrapposti ai low-intensity conflicts precedenti, quelli africani tipo Angola o Mozambico[2] del periodo della guerra fredda). La strategia verrà collaudata con l’operazione Scudo del deserto[3]. Altri parlavano ottimisticamente dei “dividendi della pace”; la Nato e il Pentagono vedevano allontanarsi un nemico, l’Unione Sovietica, e già pensavano di costruirne un altro. Martin Sherry, storico, autore di un libro sulla militarizzazione degli Stati Uniti, osserva che “gli Americani (intesi come cittadini USA) sono talmente abituati alla guerra, sotto una forma o un’altra, che la fine di essa sembra loro quasi inimmaginabile” (citato da Alain Gresh in “Croisade antiterroriste”, Le Monde Diplo, settembre 1996). E l’autore dell’articolo continua: “(gli americani) cercano sempre un nuovo nemico”. “Il declino delle ambizioni imperiali sovietiche e della minaccia sovietica di tipo convenzionale in Europa non significa la fine della storia, come si è detto, ma la fine di una tappa della storia...la prossima tappa sarà senza dubbio centrata sui dei conflitti di media intensità”. Così Michael Klare, citando un gruppo di alto livello riunito a  Washington nel 1990 dal Centro di Studi Strategici e Internazionali. 


Con Bush padre nasce lo slogan dei “regimi canaglia”, medie potenze regionali come la Siria e l’Irak, che possono minacciare l’egemonia degli Stati Uniti e soprattutto la loro libertà d’accesso a risorse strategiche, leggi petrolio (così Dick Cheney, capo del Pentagono, secondo un documento segreto che fissa le regole della difesa per il 1992-1997, come citato dal New York Times, 7 febbraio 1990). Per il Pentagono e i suoi accoliti, si tratta di pedine su uno scacchiere geopolitico, non di nazioni di milioni di persone in carne e ossa. Nazioni presiedute, piccolo particolare, da tiranni con il loro trademark:”....se (Saddam) era un mostro, lo avevano creato gli Stati Uniti” (Patrick Cockburn, Counterpunch, 5 gennaio 2011). Una tra le tante possibili citazioni.

Fatema Mernissi, recentemente scomparsa, grande studiosa del rapporto tra Islam, modernità e democrazia, che sa che il mondo musulmano è abitato da persone e non bersagli, ricorda con accenti toccanti lo sgomento e il trauma del mondo musulmano allo scatenarsi della prima guerra del Golfo, dopo il tripudio quasi incredulo per l’empito libertario sgorgato dallo sgretolarsi del muro di Berlino: “Allah! I tedeschi hanno i nostri stessi sentimenti. Amano i loro fratelli più poveri e li stanno liberando…”, esclama Ali, un mercante del suq al-Sabat, il mercato delle scarpe di Rabat, citato dalla scrittrice (Islam and Democracy, 1992, pag. 4). Ma poi, due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti del gennaio 1991, lo stesso Ali dice:” Non capisco nulla, Ustada (professore). Questa è una questione che riguarda i potenti (“the big shots” Devono risolverla tra di loro. I venditori di scarpe di Baghdad non c’entrano. Perché bombardare la gente? Lei può immaginare che cosa succederebbe se buttassero una bomba sul suq al-Sabat? Un petardo soltanto darebbe fuoco a tutta la medina!”(ibid., pag. 5). 

 Fabbro nel suq di Meknès, Marocco

Già, perché bombardare i poveracci? Non è terrorismo seminare il terrore indiscriminatamente? E l’Arabia Saudita, la terra della Mecca e di Medina, è l’alleato dei profanatori della sacra terra dove è nato l’Islam. Ali non ci capisce più nulla. E vende il televisore comprato dopo la caduta del Muro di Berlino.

Rinascono nel mondo islamico fantasmi storici mai seppelliti definitivamente: ricordi del colonialismo, frustrazioni, rancori secolari, e spettri ancora più antichi: le Crociate, il disordine, l’incubo della fitna, la lotta interna al mondo musulmano dopo la morte di Maometto tra seguaci di Ali e seguaci di Uthman. E’ fitna l’attuale conflitto sanguinoso tra sciiti e sunniti, rinfocolato dalle aggressioni di cui gli Stati Uniti si sono fatti alfieri in questi ultimi decenni, e in particolare esploso nel 2003 grazie all’ideatore della rinascita del Califfato, il giordano al Zarqawi, riempito di soldi dagli alleati degli USA (Loretta Napoleoni, Isis lo stato del terrore, 2014, pag.68).

Parallelamente al processo di fabbricazione delle guerre del Golfo e del caos mediorientale attuale (e alla disintegrazione dei Balcani, alla guerra in Cecenia), negli anni ’90 si scardinano in molti stati europei le basi dello Stato Sociale: garanzia del posto di lavoro, un robusto sindacato, contrattazione collettiva, sanità pubblica di buona qualità garantita, pensioni decenti d’anzianità, diritto allo studio. Si è già fatto strada negli anni ’80 il pensiero debole; imperversa la moda rizomatica, bando alle radici e viva la fine delle ideologie, delle grandi narrazioni, socialismo e comunismo sono ferrivecchi, viva l’individualismo e la libera impresa, ognuno è solo di fronte alla concorrenza e responsabile di farsi strada da sé, se non ce la fa è colpa sua, ha qualcosa di sbagliato, è un “loser”, grande anatema made in USA. I perdenti, guai a loro.La lotta di classe come fattore esplicativo centrale (certamente non unico) dei movimenti societari è messa in soffitta insieme alle grandi narrazioni e al pensiero marxista, armamentario non utile a interpretare la dinamica del presente storico, buono per inguaribili nostalgici. Il Milton Friedman pensiero celebra le virtù del libero mercato.

 Non si può non collegare tutto ciò alla anomia crescente nelle società europee, alla emarginazione dei “laissés pour compte”, espressione francese che designa i fondi di magazzino, ma umani; è l’essenza della mercificazione del vivente. E non solo si tratta di emarginazione economica ma culturale, linguistica, etnica, spirituale. Religiosa. Come non collegarla ai “riots” del sud Inghilterra, da Brixton nel 1981 agli scontri dell’estate 2011 a Tottenham, alle sommosse della famosa banlieue di Parigi a Clichy-sous- Bois nel 2005. Per lo meno gli inglesi sono scrupolosi e ci hanno studiato sopra: “Tra tutti i partecipanti alle sommosse intervistati dal Guardian/ London School of Economics che erano in età lavorativa e non studiavano, 59% erano disoccupati. L’analisi di più di 1000 schede di persone (records) elaborate dall’autorità giudiziaria e visionate dal Guardian indica che il 59% dei partecipanti ai disordini provenivano dal 20% delle aree più deprivate del Regno Unito” (The Guardian, 9 dicembre 2011). Idem con variazioni per la Francia : «  Cinque anni dopo (le sommosse) malgrado il piano Speranza banlieue e lo sblocco di più di 5 miliardi di euro per riabilitare queste città-satellite, poco è cambiato” (http://www.france24.com/fr/20101026-france-banlieue-emeutes-2005-clichy-sous-bois-echec-plan-nouveau-logement-cite-chene-pointu-rehabilitation). 

 Clichy-sous-Bois, 2005

Vanno in onda in parallelo la deindustrializzazione e la dismissione di fabbriche di aree intere di paesi europei i cui padroni sfruttano l’inesistenza di un minimo di legislazione sociale sempre più a est, dall’Albania alla Romania al Bangladesh alla Cina. E la finanziarizzazione dell’economia fa passi da gigante; dopo i crolli di Enron nel 2001 e la crisi del 2007 si ingrassano ancor più i pescicani e si tagliano le gambe ai più deboli (tra i tanti libri e articoli, Finanzcapitalismo del 2011 di Luciano Gallino mi sembra il più informato, appassionato e lucido anche se non recentissimo).

Come non sospettare che lo spostamento massiccio di risorse finanziarie dal lavoro al capitale, lo smantellamento di interi distretti industriali, il trasferimento di fondi pubblici dalle spese sociali alle speculazioni, la proliferazione incessante di un sottobosco di corruzione politica[4], economica e finanziaria in moltissimi paesi occidentali (Italia bandiera nera) e nella nuova Europa orientale non generino linee di faglia rovinose nel tessuto delle società soggette a tali trasformazioni disastrose? Questi fenomeni coincidono temporalmente con la costruzione a tavolino di guerre pretestuose che mirano all’accaparramento di risorse strategiche, i cui burattinai rimangono sovranamente indifferenti alle centinaia di vite falciate. Un “sorry” è il massimo che ci si possa aspettare. L’opinione pubblica (quella che rimane), frastornata, diventa sempre più acquiescente alle favole raccontate dai grandi e piccoli schermi, complice una scuola senza finanziamenti adeguati non all’altezza delle sfide culturali della complessità.

Sono questi a mio avviso gli scenari sui quali interrogarsi, il fondale di cui tenere conto, mentre ci si  chiede angosciosamente su come giovinastri, per lo più seconda generazione di immigrati maghrebini, solo apparentemente integrati nel loro contesto sociale, bevitori di alcool, frequentatori di boites notturne, alcuni piccoli mariuoli con brevi soggiorni in prigione, con famiglie “normali”, si “radicalizzino” con tanta facilità, diventino pericolosi jihadisti, partano per la guerra santa, si lascino totalmente imbonire dai video e dalla propaganda online delle varie reti islamiste. Che capacità critiche possiedono? Che strumenti culturali? Quali freni? Quali aspirazioni? Sono poche migliaia al massimo, ma con un potenziale distruttivo micidiale. Il loro vuoto interiore e la mancanza di prospettive concrete vengono riempiti da una nuova “grande narrazione”, ecco una ragione a mio avviso fondamentale del fascino del jihad esercitato su ragazzi e talvolta ragazze senza ancoraggi solidi, né economici né sociali, affettivi, culturali. E se la disgregazione del tessuto sociale è grave a Occidente, nel Nord Africa, nel Sahel, nell’Africa orientale e centrale, nel Medioriente la situazione è ben peggiore.

In Africa dalla metà degli anni ’80 in poi è andato in onda l’aggiustamento strutturale, altra grande pensata delle istituzioni multilaterali targate FMI e WB, catastrofe economico-sociale che destabilizzerà delle società che escono faticosamente dalla dipendenza neocoloniale, quasi tutte con classi dirigenti corrotte e incapaci, che creerà le premesse dello sviluppo di altre varietà di jihadismo. Alla prossima puntata.















[1] Concetti fondamentali del romanzo di G. Orwell 1984.
[2] Da ricordare come gli USA hanno finanziato durevolmente la guerriglia dell’UNITA di Jonas Savimbi in Angola e la guerra della RENAMO di Alfonso Dhlakama in Mozambico, destabilizzando tutta l’Africa australe durante gli anni post indipendenza dei due stati, via il Sudafrica dell’apartheid.
[3] Le Golfe, banc d’essai des guerres de demain, Le Monde Diplo, gennaio 1991
[4] Vedere per tutti i libri di Vincenzo Ruggero, da Economie sporche 1996 a Perché i potenti delinquono 2015

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