LA
FABBRICA DEL JIHAD GLOBALE OVVERO
COME
DIROTTARE LE LOTTE DI CLASSE
Terza
parte
Terra vista dallo spazio
“La
guerra è quello che facciamo per vivere”: è quanto dichiarava un combattente
somalo dell’Alleanza del Nord in Afghanistan[1]. Echeggia un’altra frase
contenuta in un raccapricciante reportage sulle torture inflitte ai migranti
dai “boia del Sinai”: “Dopo gli attentati
del 2005 (di Charm El Cheick, 88 morti) ho perso il mio impiego nel turismo.
Allora ho scelto questo lavoro. All’inizio gli africani pagavano solo 1000 $ e
li facevo passare in Israele senza far loro niente. Nel 2008 sono arrivati gli
Eritrei. Sapevamo che erano disperati. E’ stato a quel punto che è cominciato
il” lavoro”. Gli autori del reportage aggiungono per chiarimento che il
termine “lavoro” sta per “sequestro e tortura[2]”. La lettura delle vicende
rwandesi e non solo ci ha abituato a questo lessico: anche gli hutu assassini
andavano al “lavoro” il mattino presto e smontavano la sera, stanchi ma paghi
del dovere compiuto. Ma la questione qui non è la degenerazione dell’umano o di
ciò che si intende per tale, bensì ciò che per molti versi ne è la causa primaria.
La disponibilità di una manovalanza pronta a tutto per sopravvivere è infatti conseguenza
di un perverso circolo vizioso: miseria, disoccupazione, diseguaglianze e
corruzione generano conflitti e guerra; conflitti e guerra generano più
povertà, più disoccupazione, la perdita di orizzonti di significato e crescente
disumanità, da cui derivano altri conflitti.
La disponibilità
di manovalanza all’infinito è quella che alimenta quasi tutte le guerriglie
jihadiste, tra cui il dilagare degli attacchi di Boko
Haram nel nord della Nigeria,
che ha ritenuto opportuno nel 2014, dopo la proclamazione del califfato da
parte di al Baghdadi, di apporre l’etichetta ISIS sugli scempi perpetrati: più
di 6000 morti e centinaia di migliaia di rifugiati nel corso del 2015, che non
è finito.
La storia di
come una setta locale non eccessivamente pericolosa abbia potuto trasformarsi
in un disastro che dal nord della Nigeria è dilagato in tutto il bacino del Lago Ciad è una vicenda intessuta di
stoltezza politica, corruzione immane, repressione e impunità delle forze di
sicurezza e ovviamente di disoccupazione e povertà. Non a caso
la ribellione ha avuto il suo baricentro in uno dei più poveri tra i 36 stati nigeriani,
a Maiduguri, nel Borno[3].
Il leader leggendario del gruppo, Mohammed Yusuf, fu arrestato a fine luglio
2009 in seguito a scontri violenti e assalti contro stazioni di polizia e non
uscì vivo di prigione. Era un oratore eccezionale, possedeva grandi capacità di
convinzione e denunciava il sistema scolastico nigeriano (sinonimo di
Occidente) in quanto fucina delle carriere della classe politica nigeriana marcia
fino al midollo, una scuola (boko=libro) che funzionava come sistema
discriminatorio produttore di privilegi da un lato e miseria senza scampo
dall’altro.
Abubakar Umar
Gada, senatore di Sokoto, altro stato del nord della Nigeria, diceva già nel
2009 a proposito di Boko Haram che “aveva tratto vantaggio dal grande numero di disoccupati”[4].
E la rivista Nigrizia (febbraio 2012)
ricorda che, una settimana dopo l’uccisione di Yusuf crivellato di colpi di
pistola dentro la stazione di polizia, il suocero si recò in caserma per
chiedere ragione della distruzione della propria abitazione e anche lui fece la
stessa fine del genero. Abba Aji Kalli [5]
intervistato da Libération, ricorda
che Yusuf ripeteva “Boko is
haram ! Boko is haram![6] E aggiunge: " Lui si batteva contro l’ingiustizia sociale, voleva una società basata
sull’islam rigoroso, ma non parlava di jihad” (http://www.liberation.fr/planete/2015/02/26/aux-sources-de-boko-haram_1210555).
Una delle ragazze di Chibok
Di pasta
diversa era però il suo secondo in armi, Abubakar Shekau, fautore di un jihad aggressivo
in opposizione al suo mentore. Dopo la morte di Yusuf, Shekau fece pubblicare
un pamphlet in cui minacciava di “rendere il paese ingovernabile e di vendicare
la morte del suo leader” (ibid.). Sparì per circa un anno, non si sa dove,
verosimilmente per cercare appoggi, soldi, e armi e quando tornò, è sempre Abba
Aji Kalli che parla: “I fedeli di BH cominciarno a indossare uniformi, con colori
diversi sulle maniche, come se avessero dei gradi. A quel punto ci si rese
conto che quest’uomo aveva un progetto” (ibid.). Nel 2010 il movimento cominciò
a finanziarsi assaltando banche e sequestrando ostaggi. Da notare che la
Nigeria aveva già avuto a che fare con movimenti radicali islamisti negli anni
’80. E ben prima, a fine ‘800, il mahdismo rivoluzionario era fiorito nel Califfato
di Sokoto: il Mahdi è il Messia dell’escatologia islamica, letteralmente “colui
che va per la retta via” e instaurerà il regno della giustizia convertendo
l’umanità intera all’islam. Una violenta rivolta aveva sconvolto il nord della
Nigeria e del Niger tra il 1897 e il 1906, epoca della conquista coloniale. Non
a caso lo studioso Thomas Hodgkin accosta nel contesto nigeriano il mahdismo,
il messianismo e il marxismo come espressioni di anticolonialismo.[7]
Dopo l’assassinio di
Yusuf era chiaro che la polveriera era pronta a esplodere: la brutalità
dell’esercito e la repressione indiscriminata che penalizza e uccide moltissimi
innocenti cittadini saranno la miccia. Nel 2009 dilagano già i movimenti di
guerriglia islamista e la moltiplicazione di nuovi focolai offre occasioni
d’oro a Shekau, che prima si allea ad al Q’aida e poi opportunisticamente
dichiara fedeltà a ISIS, che sembra la pedina vincente. Dopo aver conquistato
estese aree di territorio tra il 2010 e il 2014, batte in ritirata dopo la
mobilitazione internazionale e l'offensiva della coalizione degli stati circonvicini capeggiati dal Ciad successive al sequestro delle ragazze di Chibok (hashtag/bringbackourgirls)
e cambia ancora strategia: si dà agli attentati suicidi le cui protagoniste
sono sempre più spesso donne e bambine, addirittura di 7 anni (a Potiskum, 5
morti e 20 feriti).
Questo
movimento sanguinario ha un potenziale distruttivo e una capacità di
infiltrazione pericolosa verso molti stati della regione più a ovest (Burkina,
Guinea, Senegal, Costa d’Avorio), dove può raccordarsi con i gruppi islamisti
del Sahel e del Maghreb. Un Sahel in cui il Mali ha avuto a che fare dal 2012 con la rivolta Tuareg, favorita
dal colpo di Stato di un militare anomalo, Sanogo, che ha cacciato il
Presidente Touré e ha permesso agli insorti di arrivare fino a Sevaré,
minacciando direttamente la capitale Bamako. A questo punto è intervenuto il
corpo di spedizione francese: altra risposta militare in extremis[8].
Anche questa
ribellione era ed è eredità coloniale e post-coloniale. Infatti i Tuareg sono una
popolazione ex nomade, costituita da almeno 5 milioni e mezzo di persone (censimento
degli anni ’90', presente in cinque stati: Mali, Libia, Niger, Algeria, Burkina
Faso. Fanno parte delle nazioni lasciate da parte dalla ricomposizione statuale
post-coloniale, come i Kurdi, altra popolazione dispersa tra vari stati. Le
loro frustrazioni e rivendicazioni sono ataviche.
Già nel 1990
la rivolta era divampata a nord, e non era certo la prima, con rivendicazioni
che andavano dalla richiesta di investimenti sociali e strutturali al diritto
ad una spartizione più equa del potere al vertice e nei ranghi della funzione
pubblica. Richieste respinte al mittente. Nel 1995 si erano conclusi accordi di
pace sempre disattesi. Non stupisce che il conflitto si sia riacceso nel 2006, attizzato
dopo la disintegrazione della Libia nel 2011 dal ritorno dei combattenti pro-Gheddafi,
molti dei quali erano Tuareg. Che sapevano solo fare la guerra
E soffiando
ormai il vento jihadista, quella che era una questione interna maliana è stata
dirottata dagli islamisti. Anche qui, occupazione di territorio, morte e
distruzione, lapidazioni e profughi, interessi internazionali che si
intrecciano convulsamente e sovrappongono ad antiche oppressioni e ingiustizie
sociali provocate dall’ inettitudine, dalla corruzione, dalla incapacità di
stati post-coloniali di sanare le piaghe ereditate dal colonialismo. Gli
accordi di Algeri del giugno 2015 a regia francese sono stati firmati dal
Presidente maliano Boubakar Keita con il Coordinamento dei Movimenti
dell’Azawad (l’Azawad comprende propriamente le regioni a nord di Timbuctu). Ma
non tutti i problemi sono finiti, come ha dimostrato l’attentato del 20
novembre scorso all’Hotel Radisson Blu rivendicato da due entità, Al Morabitoun (affiliato ad al Q’aida) e il Front de Libération du Macina (che si richiama ad Ansar Din). Quest’ultima etichetta è
eloquente nel suo raccordo ideale a quello che fu l’Impero del Macina nel XIX
secolo, da Timbuctu a nord fino a Segou a sud, fondato da un combattente Peul
che instaurò la sharia malekita e fu sconfitto dai Toucouleurs nel 1862 (a sua
volta sconfitti dai Francesi quasi 30 anni dopo). Imperi che praticavano il
jihad. Richiami non casualmente pre-coloniali.
Il 3 dicembre 2015
Abdelmalek Droukdel,
leader di Al Q’aida nel Maghreb islamico
(AQMI) ha annunciato che Al-Mourabitoun
è confluito nella sua organizzazione, nella
quale sono confluiti molti combattenti islamisti figli della sale guerre, una guerra sporchissima, dell’Algeria
degli anni ’90, scoppiata dopo la repressione del FIS[9] e il furto della sua vittoria
alle elezioni vinte due volte, prima nel 1990 (locali) e poi nel dicembre 1991
(nazionali).
Dopo il trauma
inferto al mondo musulmano dalla prima guerra del Golfo, cui si è accennato
nella prima parte di questo scritto, un altro trauma: il risultato delle
elezioni nazionali che sanziona la vittoria del partito islamista FIS è scippato dalla reazione del FNL[10]
che vede infrangere il monopolio del suo potere ininterrotto dal 1962, data
dell’indipendenza. E’ la prima volta che il primato del FLN, partito unico fino al varo della Costituzione del 1989, viene spezzato
dal gioco democratico.
All’inizio del 1992 il nuovo presidente Chadli
viene costretto alle dimissioni e un veterano del FLN, Mohammed Boudiaf, viene installato in sua vece. Il FIS viene sciolto d’autorità nel marzo
1992. Boudiaf è assassinato nel giugno di quell’anno, e chi lo seguirà non
riuscirà a contrastare la marea montante del disordine sociale che trasformerà
l’Algeria nel teatro di una guerra atroce, pilotata dall’alto, tra un potere
militare screditato e baro e una galassia di gruppi islamisti nati in seguito allo
scippo della vittoria elettorale legittima, di cui il principale fu il GIA, Groupes
Islamistes Armés. Che fu, in gran
parte, creazione dei Servizi di Sicurezza algerini legati al FNL. La guerra in Algeria provocò almeno
200.000 morti e un numero altissimo di desaparecidos.
L’intervista rilasciata in Germania a un giornalista di Libération[11]
da un agente doppio là rifugiato è circostanziata e precisa, ed è soltanto una
tra le tante testimonianze che puntano il dito sulle responsabilità del vecchio
potere post-indipendenza algerino. Non a caso gli assassini dei monaci di
Tibhirine uccisi nel 1996 non sono mai stati identificati[12].
Anche oggi il baluardo del presidente Bouteflika, malato e quasi muto, è l’esercito.
Nel 1978 feci
un viaggio di un mese in autostop in Algeria, spingendomi a sud fino a Ghardaia,
la porta del deserto, indossando jeans e maglietta. Credo che nessuna ragazza
potrebbe provarci oggi.
[1] Loretta
Napoleoni, ISIS Lo stato del terrore, 2014, p.49
[3] E’ una regione incuneata tra Niger, Ciad e
Camerun, il che spiega come abbia potuto tracimare nei paesi confinati con una
certa facilità.
[4] Nigeria’s Boko Haram’s chief killed, Al Jazeera, 31 luglio 2009
[5] Membro
delle Civilian Joint Task Forces, milizie civili che cooperano con l’esercito
nella lotta contro BH
[6]
L’Occidente è peccato: l’educazione è identificata con il sistema scolastico, i
libri.
[7] http://www.artsrn.ualberta.ca/amcdouga/Hist347/additional%20rdgs/case%20studies/sokoto/mahdism_sokoto.pdf
[8]
Interessante l’intervista a Jean-Pierre Olivier de Sardan,
grande studioso dell’Africa all’EHESS, attualmente in Niger, su Boko Haram a
RFI del 10 febbraio 2015: http://www.rfi.fr/emission/20150210-ode-sardan-boko-haram-est-le-receptacle-toutes-frustrations
[9] Front
Islamique du Salut, che si richiamava al movimento dei Fratelli Musulmani di
origine egiziana.
[10] Front de Libération Nationale
[11] José Garçon, 15 novembre 2003, Libération, Les GIA sont une création
des Services de Sécurité algériens.
[12] http://www.lastampa.it/2008/07/06/esteri/i-monaci-in-algeria-uccisi-dai-militari-f2FA69T4HuD4yOWWoV9pdL/pagina.html
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