SCAGLIE DI
SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (1)
Buenos Aires vista dal Mar de la Plata
Da novembre 2014 a febbraio 2015 ho percorso varie migliaia di km da
Buenos Aires a Lima, in autobus principalmente: solo un tratto del sud della
Bolivia l’ho coperto in treno, e un altro tratto in aereo, dato che la strada
era danneggiata da piogge e frane tra
Sucre e Cochabamba, sempre in Bolivia.
Ho toccato cinque paesi: Uruguay,
Argentina, Paraguay, Bolivia e Perù. E’ stato un grande privilegio poter
andarmene a zonzo disegnando il percorso man mano che avanzavo, correggendo
traiettorie a seconda degli interessi,
degli stimoli e delle curiosità, a volte costretta dalle condizioni metereologiche a modificare
la meta. Molti parchi naturali si sono rivelati difficilmente raggiungibili con
mezzi pubblici o poco agibili per fango e piogge, come in Paraguay, il paese
logisticamente più arduo da negoziare in autobus e a piedi.
Di ogni paese ho conservato impressioni
molto diverse: città e paesaggi fortemente caratterizzati, visi persone
incontri variegati, musei indimenticabili, e su tutto dominano nel ricordo alcune realtà più dure e sconvolgenti: la “mineria”, la vita
nelle miniere di Potosí: Cerro Rico è a 4700 mt di altezza. E ho colto per la
prima volta non solo intellettualmente, librescamente, alla lontana come un’eco
spenta, ma con il sentimento, quel che può aver significato la Conquista per il
sub-continente: l’azzeramento, l’annichilamento, il genocidio non solo di
popolazioni intere, di milioni di schiavi africani, ma di culture millenarie, di centinaia di enclaves ricchissime di tradizioni, storia, filosofia,
lingue e scritture, tutto finito e trasformato in fossili da archivio, reperti
museali. Oppure, e nel migliore dei casi, trasfuso e meticciato in nuove entità culturali criolle.
Anche le mummie sembrano urlare la loro
protesta.
Mai ne avevo visto tante, e così icastiche, vocali, dalle bocche contorte dischiuse in un grido muto, ancora vestite dei brandelli di cinquecento anni fa, capelli pervicacemente attaccati alla testa, sandali ai piedi. I musei brulicano di una incredibile profusione di strumenti musicali, di oggetti d’arte, di vasi, statue, gioielli, manufatti, tessuti che rimandano alla cultura immateriale che li ha generati, a visioni del mondo: le vene aperte dell’America Latina non sono più solo un libro che hai letto chissà quando, diventano esperienza “vivida” e interiorizzata di una violenza immane, protratta per secoli di spoliazione e di schiavitù. Tanto più palpabile fisicamente in paesi dove quasi non esistono più né indigeni né meticci, come in Uruguay e Argentina; gli abitanti sono quasi tutti di discendenza europea, persone con cognomi italiani, baschi, castigliani, portoghesi, tedeschi, e così via. Certo, lo si sa anche prima di arrivare, ma ripeto, è una cosa diversa rendersene conto dall’altra parte dell’Atlantico.
Mai ne avevo visto tante, e così icastiche, vocali, dalle bocche contorte dischiuse in un grido muto, ancora vestite dei brandelli di cinquecento anni fa, capelli pervicacemente attaccati alla testa, sandali ai piedi. I musei brulicano di una incredibile profusione di strumenti musicali, di oggetti d’arte, di vasi, statue, gioielli, manufatti, tessuti che rimandano alla cultura immateriale che li ha generati, a visioni del mondo: le vene aperte dell’America Latina non sono più solo un libro che hai letto chissà quando, diventano esperienza “vivida” e interiorizzata di una violenza immane, protratta per secoli di spoliazione e di schiavitù. Tanto più palpabile fisicamente in paesi dove quasi non esistono più né indigeni né meticci, come in Uruguay e Argentina; gli abitanti sono quasi tutti di discendenza europea, persone con cognomi italiani, baschi, castigliani, portoghesi, tedeschi, e così via. Certo, lo si sa anche prima di arrivare, ma ripeto, è una cosa diversa rendersene conto dall’altra parte dell’Atlantico.
In contrasto con i due paesi più
europeizzati, Uruguay e Argentina, in Paraguay il 90% della popolazione si
dichiara meticcio, il che salta agli occhi dal primo sgangherato autobus paraguayo che prendo a Posadas, sul fiume Paranà, per
attraversare la frontiera e arrivare a Encarnación (Paraguay).
Anche in Bolivia basta passare il posto di
frontiera con l’Argentina a Villazón, a sud, per rendersi conto di entrare in
un mondo indio: donne in “pollera”, la gonna lunga e arricciata
diffusissima, trecce nerissime e lunghissime dietro la schiena e legate tra di
loro in fondo per tenerle ordinatamente parallele, cappello rotondo di paglia o
a bombetta (attenzione, ci sono differenti tipi di bombette, quelle di La Paz
sono diverse da quelle portate dalle donne del sud), e un immancabile grembiule.
Mi ci è voluto più di un mese per
ordinare le foto e gli appunti. Di ogni
paese ho selezionato alcuni aspetti. E comincerò seguendo un ordine cronologico
dall’Uruguay, dove sono stata quasi un mese, fino a Natale.
Uruguay
Ci sono arrivata a ridossso delle
elezioni presidenziali: l’amatissimo e popolarissimo Pepe Mujica, ex
guerrigliero Tupamaro imprigionato e torturato durante la dittatura (anni ’70-80)
aveva terminato il suo mandato durante il quale aveva fortemente contribuito a
far conoscere l’Uruguay nel mondo con la sua comunicativa, le sue iniziative
democratiche, il suo stile di vita frugale e la sua onestà intellettuale. Si
votava il 30 novembre, domenica, il favorito era Tabaré Vasquez, del Frente
Amplio, la stessa formazione politica di Mujica. La sera dello stesso
giorno gli exit polls davano già certa la vittoria di Vasquez, e il centro di
Montevideo esplodeva di gioia: scorribande di auto strombazzanti con bandiere del
Frente e dell’Uruguay, una folla di gente in strada che si radunava
spontaneamente, si spostava in direzioni diverse, un frastuono di gioia e
sollievo, persone che si abbracciavano, volti infiammati di allegria, da molto
tempo non avevo visto un tripudio politico così coinvolgente e contagioso. Il
mio telefono non era un gran che come fotocamera soprattutto per cogliere il
rapido movimento di auto e folla, ma ecco alcune delle foto che sono riuscita a
fare.
Mi sono coricata allegrissima,
scoppiettante: che differenza tra il nostro clima politico e quella festa! Che
invidia! E anche, quanti ricordi di speranze deluse sui nostri lidi.
Le spiagge sono bellissime: chiaramente non le ho potute visitare tutte, ho selezionato alcune tappe saltando Punta del Este, la più rinomata e turistica, quindi la più affollata: ho visto Piriapolis, La Paloma, Cabo Polonio e Punta del Diablo, la mia preferita, selvaggia e immensa, spazzata dal vento, piena di luce anche quando piove.
A La Paloma ho visto
uno spettacolo per me meraviglioso e singolare: la spiaggia era disseminata di
stranissime uova semitrasparenti, giallognole, grandi come uova di gallina e un
po’ ammaccate, alcune piene di un liquido appiccicoso, altre, la maggioranza,
ormai vuote. Se piene, la pellicola translucida lasciava intravvedere qualcosa
all’interno che non riuscivo a distinguere. Mentre le guardavo perplessa, un
signore con attrezzatura da sub si è fermato e mi ha spiegato che si trattava
di uova di lumachine di mare, che si riproducono in primavera e che ogni anno
inondano la riva di migliaia di uova come quelle che stavo guardando.” E se
guarda bene dentro, vedrà le lumachine neonate!” Infatti. In alcune uova ce n’erano
numerose, in altre due o tre, ed infine le vuote erano state già abbandonate
dalle neo-lumache
Mi sono rivolta a un amico biologo marino per avere maggiori
lumi via internet: mi è stato spiegato che si tratta di aplysie. E quale la mia
soddisfazione nel leggere con cognizione di causa, qualche settimana fa, in un
articolo di una rivista scientifica che questi minuscoli molluschi sono usati
per studiare la sede della memoria umana (.I ricordi perduti potrebbero essere
ripristinati: speranza per l'Alzheimer),rr), che pare risieda nel nucleo dei neuroni e non, come pensavano molti studiosi, le
sinapsi.
Sapevo che la bevanda nazionale uruguaya,
come in Argentina, è il mate, ma non credevo a tanta ubiquità. Quasi ognuno si
sposta, a piedi e in macchina, con la
sua “matera”, cioè una specie di valigetta aperta che contiene il kit completo
per bere mate tutto il giorno: thermos con acqua calda, tazza, erba mate e
bombilla, la cannuccia per sorbire il the. E la parola mate, che deriva da una
parola quechua che significa tazza, designa appunto non l’erba ma il recipiente
da cui si beve, che tradizionalmente era una calabaça, oppure una tazza scavata
nel legno o addirittura di guampa, cioè
di corno di vacca. Ce ne sono di antiche molto belle esposte in vari musei che
ho visitato che celebrano la “vida gaucha”.
Altro aspetto caratteristico dell’Uruguay:
la vita del gaucho. Come mi spiega il custode di un interessante museo che visito
un sabato sera a Salto, dove attraverserò con una lancia il confine con l’Argentina sul rio Uruguay,
il gaucho non ha casa, non ha moglie, non ha altro mestiere che vagabondare e
procacciarsi il necessario per continuare a farlo. Se si ferma presso una donna
non è per restare più di tanto: i figli (ovvio) li alleverà lei, la sua legge è
il nomadismo, vive a cavallo, dorme per terra, mangia nei bivacchi, ed è un
solitario. Ho chiesto a un gaucho che viaggiava in autobus accanto a me il
permesso di fotografarlo: aveva un viso asciutto che non riuscivo a smettere di
guardare, caratteristico come era. E dove andava? Ma naturalmente in un
villaggio dove c’era una festa gaucha! Accanto al gaucho, un “asado” (arrosto) che ho visto preparare a Tacuarembo alle 10 di
mattina di una domenica di
dicembre.
E per finire, il rio Uruguay, amplissimo
e maestoso, a Salto, dove ci sono delle piacevolissime e bollenti acque termali
in un vasto giardino fiorito e ombroso.
Nessun commento:
Posta un commento