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sabato 18 aprile 2015

VIAGGIO IN SUDAMERICA: URUGUAY

SCAGLIE DI SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (1)

 Buenos Aires vista dal Mar de la Plata

Da novembre 2014 a febbraio  2015 ho percorso varie migliaia di km da Buenos Aires a Lima, in autobus principalmente: solo un tratto del sud della Bolivia l’ho coperto in treno, e un altro tratto in aereo, dato che la strada era danneggiata da piogge e frane  tra Sucre e Cochabamba, sempre in Bolivia. 

Ho toccato cinque paesi: Uruguay, Argentina, Paraguay, Bolivia e Perù. E’ stato un grande privilegio poter andarmene a zonzo disegnando il percorso man mano che avanzavo, correggendo traiettorie  a seconda degli interessi, degli stimoli e delle curiosità, a volte  costretta dalle condizioni metereologiche a modificare la meta. Molti parchi naturali si sono rivelati difficilmente raggiungibili con mezzi pubblici o poco agibili per fango e piogge, come in Paraguay, il paese logisticamente più arduo da negoziare in autobus e a piedi.
Di ogni paese ho conservato impressioni molto diverse: città e paesaggi fortemente caratterizzati, visi persone incontri variegati, musei indimenticabili, e su tutto  dominano nel ricordo  alcune realtà  più dure e sconvolgenti: la “mineria”, la vita nelle miniere di Potosí: Cerro Rico è a 4700 mt di altezza. E ho colto per la prima volta non solo intellettualmente, librescamente, alla lontana come un’eco spenta, ma con il sentimento, quel che può aver significato la Conquista per il sub-continente: l’azzeramento, l’annichilamento, il genocidio non solo di popolazioni intere, di milioni di schiavi africani, ma di culture millenarie, di centinaia di enclaves ricchissime di tradizioni, storia, filosofia, lingue e scritture, tutto finito e trasformato in fossili da archivio, reperti museali. Oppure, e nel migliore dei casi, trasfuso e meticciato  in nuove entità culturali criolle. 
Anche le mummie sembrano urlare la loro protesta.
 Mai ne avevo visto tante, e così icastiche, vocali, dalle bocche contorte dischiuse in un grido muto,  ancora vestite dei brandelli di cinquecento anni fa, capelli pervicacemente attaccati alla testa, sandali ai piedi.  I musei brulicano di una incredibile profusione di strumenti musicali, di oggetti d’arte, di vasi, statue, gioielli, manufatti, tessuti  che rimandano alla  cultura immateriale che li ha generati, a  visioni del mondo: le vene aperte dell’America Latina non sono più solo un libro che hai letto chissà quando, diventano esperienza “vivida” e interiorizzata di una violenza immane, protratta per secoli di spoliazione e di schiavitù. Tanto più palpabile fisicamente  in paesi dove quasi non esistono più né indigeni né meticci, come in Uruguay e Argentina; gli abitanti  sono quasi  tutti di discendenza  europea,  persone con cognomi italiani, baschi, castigliani, portoghesi,  tedeschi, e così  via. Certo, lo si sa anche prima di arrivare, ma ripeto, è una cosa diversa rendersene conto dall’altra parte dell’Atlantico.

Museo Precolombino, Montevideo

In contrasto con i due paesi più europeizzati, Uruguay e Argentina, in Paraguay il 90% della popolazione si dichiara meticcio, il che salta agli occhi dal primo sgangherato autobus paraguayo che prendo a Posadas, sul fiume Paranà,  per attraversare la frontiera e arrivare a Encarnación (Paraguay).  
Anche in Bolivia basta passare il posto di frontiera con l’Argentina a Villazón, a sud, per rendersi conto di entrare in un mondo indio: donne in “pollera”, la gonna lunga e arricciata diffusissima, trecce nerissime e lunghissime dietro la schiena e legate tra di loro in fondo per tenerle ordinatamente parallele, cappello rotondo di paglia o a bombetta (attenzione, ci sono differenti tipi di bombette, quelle di La Paz sono diverse da quelle portate dalle donne del sud), e un immancabile grembiule.
Mi ci è voluto più di un mese per ordinare le foto e gli appunti. Di ogni paese ho selezionato alcuni aspetti. E comincerò seguendo un ordine cronologico dall’Uruguay, dove sono stata quasi un mese, fino a Natale.
  
Uruguay

Ci sono arrivata a ridossso delle elezioni presidenziali: l’amatissimo e popolarissimo Pepe Mujica, ex guerrigliero Tupamaro imprigionato e torturato durante la dittatura (anni ’70-80) aveva terminato il suo mandato durante il quale aveva fortemente contribuito a far conoscere l’Uruguay nel mondo con la sua comunicativa, le sue iniziative democratiche, il suo stile di vita frugale e la sua onestà intellettuale. Si votava il 30 novembre, domenica, il favorito era Tabaré Vasquez, del Frente Amplio, la stessa formazione politica di Mujica. La sera dello stesso giorno gli exit polls davano già certa la vittoria di Vasquez, e il centro di Montevideo esplodeva di gioia: scorribande di auto strombazzanti con bandiere del Frente e dell’Uruguay, una folla di gente in strada che si radunava spontaneamente, si spostava in direzioni diverse, un frastuono di gioia e sollievo, persone che si abbracciavano, volti infiammati di allegria, da molto tempo non avevo visto un tripudio politico così coinvolgente e contagioso. Il mio telefono non era un gran che come fotocamera soprattutto per cogliere il rapido movimento di auto e folla, ma ecco alcune delle foto che sono riuscita a fare.


Mi sono coricata allegrissima, scoppiettante: che differenza tra il nostro clima politico e quella festa! Che invidia! E anche, quanti ricordi di speranze deluse sui nostri lidi. 

Il paesaggio uruguayo ( pronuncia: uruguajo, con j francese) più spettacolare è quello della costa: l’interno offre panorami distesi molto verdi e  ameni di quiete campestre e boschiva, senza scenografie drammatiche, senza contrasti violenti: dolci colline a perdita d’occhio, mandrie al pascolo, cavalli e sentieri bianchi, erbe alte, cactus e cespugli fioriti. L’albero nazionale è il ceibo, dai fiori rosso fiamma (foto non mia).

Le spiagge sono bellissime: chiaramente non le ho potute visitare tutte, ho selezionato alcune tappe saltando Punta del Este, la più rinomata e turistica, quindi la più affollata: ho visto Piriapolis, La Paloma, Cabo Polonio e Punta del Diablo, la mia preferita, selvaggia e immensa, spazzata dal vento, piena di luce anche quando piove.

A La Paloma ho visto uno spettacolo per me meraviglioso e singolare: la spiaggia era disseminata di stranissime uova semitrasparenti, giallognole, grandi come uova di gallina e un po’ ammaccate, alcune piene di un liquido appiccicoso, altre, la maggioranza, ormai vuote. Se piene, la pellicola translucida lasciava intravvedere qualcosa all’interno che non riuscivo a distinguere. Mentre le guardavo perplessa, un signore con attrezzatura da sub si è fermato e mi ha spiegato che si trattava di uova di lumachine di mare, che si riproducono in primavera e che ogni anno inondano la riva di migliaia di uova come quelle che stavo guardando.” E se guarda bene dentro, vedrà le lumachine neonate!” Infatti. In alcune uova ce n’erano numerose, in altre due o tre, ed infine le vuote erano state già abbandonate dalle neo-lumache
Mi sono rivolta a un amico biologo marino per avere maggiori lumi via internet: mi è stato spiegato che si tratta di aplysie. E quale la mia soddisfazione nel leggere con cognizione di causa, qualche settimana fa, in un articolo di una rivista scientifica che questi minuscoli molluschi sono usati per studiare la sede della memoria umana (.I ricordi perduti potrebbero essere ripristinati: speranza per l'Alzheimer),rr), che pare risieda  nel nucleo dei neuroni  e non, come pensavano molti studiosi, le sinapsi.
 
Sapevo che la bevanda nazionale uruguaya, come in Argentina, è il mate, ma non credevo a tanta ubiquità. Quasi ognuno si sposta,  a piedi e in macchina, con la sua “matera”, cioè una specie di valigetta aperta che contiene il kit completo per bere mate tutto il giorno: thermos con acqua calda, tazza, erba mate e bombilla, la cannuccia per sorbire il the. E la parola mate, che deriva da una parola quechua che significa tazza, designa appunto non l’erba ma il recipiente da cui si beve, che tradizionalmente era una calabaça, oppure una tazza scavata nel legno  o addirittura di guampa, cioè di corno di vacca. Ce ne sono di antiche molto belle esposte in vari musei che ho visitato che celebrano la “vida gaucha”.


Altro aspetto caratteristico dell’Uruguay: la vita del gaucho. Come mi spiega il custode di un interessante museo che visito un sabato sera a Salto, dove attraverserò con una lancia  il confine con l’Argentina sul rio Uruguay, il gaucho non ha casa, non ha moglie, non ha altro mestiere che vagabondare e procacciarsi il necessario per continuare a farlo. Se si ferma presso una donna non è per restare più di tanto: i figli (ovvio) li alleverà lei, la sua legge è il nomadismo, vive a cavallo, dorme per terra, mangia nei bivacchi, ed è un solitario. Ho chiesto a un gaucho che viaggiava in autobus accanto a me il permesso di fotografarlo: aveva un viso asciutto che non riuscivo a smettere di guardare, caratteristico come era. E dove andava? Ma naturalmente in un villaggio dove c’era una festa gaucha! Accanto al gaucho, un “asado” (arrosto)  che ho visto preparare a Tacuarembo alle 10 di mattina di una domenica di dicembre.
E per finire, il rio Uruguay, amplissimo e maestoso, a Salto, dove ci sono delle piacevolissime e bollenti acque termali in un vasto giardino fiorito e ombroso.









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