L’effigie del Tío *
Statuetta del Tio: collezione privata dell'autore dei racconti
Sinforoso Choque lo vide ancora una volta in sogno: aveva un
corpo grottesco, un sembiante feroce, degli occhi lampeggianti, il naso
schiacciato, zanne come denti di una sega, lingua a penzoloni e orecchie
d’asino. In effetti, visto da vicino, la faccia assomigliava alla maschera del
diavolo che aveva appeso alla parete della sua camera, a fianco dell’immagine
della Vergine del Socavón. Ma che questo
personaggio misterioso fosse penetrato
nei suoi incubi, come se fosse fatto della stessa sostanza dei sogni, era
dovuto al semplice motivo che lui stesso era rimasto terrorizzato dalla sua statua,
vista per la prima volta nella galleria vicina al luogo frequentato dal qhencha[1]
Condori, un uomo di provenienza oscura, che
non solo aveva imparato a stringere patti con el Tío ma anche a comunicare con le anime dei minatori morti nel
labirinto delle gallerie.
Si alzò dal letto, come se si riscuotesse
da una sbronza cattiva, e si diresse verso l’entrata della miniera mentre
risonava la sirena di inizio turno, il cui lamento era più triste dell’ululato
di un lupo. Nella sua bisaccia di tela grezza macchiata di schizzi di silice aveva
messo un fagotto con mais bollito, carne secca di llama e una patata disidratata
come colazione, una bottiglia di aguardiente e un sacchetto con foglie di coca,
lejia[2]
e tabacco da pijchar[3]
vicino alla statuetta di argilla e quarzo del Tío, questo personaggio che, secondo le
credenze, era il dio e il diavolo della miniera, che trattava con
condiscendenza oppure strapazzava i minatori
a seconda che lo avessero onorato oppure offeso.
Sinforoso Choque prese la torcia
agganciata al guardatojo[4]
e si addentrò nella notte perpetua della miniera, pensando che non aveva mai
avuto nulla dalla vita, neppure una famiglia, eccetto una sorella gemella che
si era data alla prostituzione.
Arrivato al luogo dove si doveva
far saltare la roccia con la dinamite, il qhencha
Condori, che era sempre il primo a entrare e l’ultimo a uscire dalla miniera,
lo accolse con un sorriso mefistofelico e disse, mettendogli una mano sulla
spalla:” Non avere paura”. Quindi si girò e avanzò verso il rajo[5] dove
si trovava il materiale pronto per sventrare la roccia.
“Vedrai che la montagna è come
una ragazza”, gli disse. “ Le togli le gonne e ti si apre tutta”.
Sinforoso Choque lo ascoltava
attento, senza guardarlo e senza parlargli. Il qhencha Condori si addossò con
il corpo alla roccia come un ragno, sistemò la cartuccia di dinamite nella
fenditura e gli ingiunse di portargli il detonatore che era nella sua bisaccia.
Sinforoso Choque, sapendo che la propria posizione gerarchica era inferiore
rispetto a quella dei più anziani, adempì il suo dovere di apprendista e
aspettò che Condori innescasse il detonatore e preparasse la miccia incidendola
all’estremità. A quella profondità, dove l’aria era greve e il calore
asfissiante, si aveva la sensazione di trovarsi nel ventre di un mostro fatto
di pietra e di tenebre.
“E’ il momento dello scoppio!”
esclamò il qhencha Condori
staccandosi dalla roccia. Tirò fuori dal suo sacchetto una scatola di
fiammiferi e dette fuoco alla miccia. Dopo di che Condori e Sinforoso Choque
corsero giù verso la galleria principale gridando a squarciagola:” Scoppio!
Scoppio!”
La detonazione rimbombò di volta
in volta come se un tuono si fosse scatenato dal profondo della montagna. Una
gran luce balenò e si spense tra nuvole di polvere, istoriate dai barbagli
evanescenti delle lampade. “Calmati,
vecchia puttanona”, sussurrò il qhencha
Condori accarezzando la roccia quasi fosse il dorso di un gatto.
La montagna si acquietò, tacque. Il
qhencha Condori che sapeva calcolare
la temperatura delle rocce come se si trattasse del proprio corpo, corse a
controllare i frammenti dell’esplosione; nel frattempo Sinforoso Choque,
emergendo dall’anfratto dove si era rannicchiato per difendersi dal vortice di
fumo e polvere, si rifugiò nella galleria dove si trovava el Tío. Si accovacciò su uno spuntone di roccia e cominciò a pijchar un rotolo di foglie di coca e a
bere l’aguardiente dalla bottiglia senza curarsi della presenza del Tío, cui non offrì né la coca né il
liquore, senza neppure mettergli in bocca il tabacco.
El Tío, assiso sul suo trono di argilla, col suo sembiante
diabolico, le zampe da oca, il membro eretto lungo e massiccio, lo guardò con
gli occhi fiammeggianti come se lo scambiasse per la Vieja ,la sua perversa sposa, che ogni giorno prima di ogni scoppio
era insultata e penetrata dai minatori che le estraevano dal ventre i suoi
tesori.
Sinforoso Choque, che da lontano
sembrava inginocchiato davanti all’effigie del Tío, si accorse che l’impasto di coca in bocca era diventato amaro,
il che era di cattivo presagio. In effetti, colto da uno spavento
superstizioso, prima distinse le sagome di due uomini che, scivolando
sospesi a due palmi da terra, apparirono e si dissolsero nel buio delle
gallerie. E poi udì la voce cavernosa del Tío
che si levò dal suo trono e si allontanò furente. Sinforoso Choque rimase di
sasso, cercò di dominarsi e svuotò la bottiglia. Improvvisamente, con le
viscere in tumulto come se avesse preso un purgante al magnesio, sentì lo
stimolo a liberarsi il ventre, benché temesse il dolore dei crampi per evacuare
ciò che aveva mangiato. Si appartò vacillando in cima a un tunnel abbandonato
della roccia dentro il quale nessuno
osava penetrare, poiché si diceva che là abitava el Tío con i due minatori che erano spariti senza lasciare traccia.
Sinforoso Choque si guardò
attorno, si calò i pantaloni e si accovacciò, poggiando le braccia sulle ginocchia.
Mentre spingeva con forza udì dei passi che gli si accostavano alle spalle. Gli
venne in mente che potesse trattarsi del qhencha
Condori che, come tutti i venerdì a quell’ora, veniva a lasciare una manciata
di foglie di coca e un bicchiere di alcool per le anime dei minatori che erano
scomparsi in quel tunnel. Poco dopo, sentendo i passi vicinissimi, si girò e
chiese chi fosse. Nessuno rispose, ma una corrente d’aria sibilò in lontananza.
“Chi va là, perdio!” gridò,
mentre l’indignazione esplodeva in un grido iroso. In quel momento soltanto
sentì una vampata infuocata tra le gambe come se fosse nel fondo dell’inferno. Il
suo corpo si accese come brace e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi. Volle
drizzarsi in piedi, ma el Tío lo
afferrò per le spalle e lo scaraventò a terra bocconi, con il viso nella
polvere.
Sinforoso Choque, scosso da
convulsioni dolorose, sentì nell’anima il fruscio della morte e ansimò come se
una trivella lo trapassasse da un fianco all’altro. Gli sgorgò da sotto un
getto di sangue fresco e il retto gli si aprì come se fosse un tubo rotto. Dopo
ciò, lanciò un grido di paura e si contorse a terra. Si alzò puntellandosi alle
rocce e uscì dal tunnel difilato verso l’imboccatura della miniera mentre el Tío, schioccando e roteando la lingua
come la frusta di un guardiano, lo
incalzava da vicino, sghignazzando con una voce che sembrava il raglio di un
asino.
Quando Sinforoso Choque arrivò
all’uscita, mentre il sole tramontava e l’aria della sera si faceva tiepida, si
imbatté nei suoi compagni del secondo turno, che lo videro emergere
dall’oscurità con l’aspetto di un pazzo, i pantaloni laceri e il fondo dei pantaloni
macchiato di sangue.
“Che ti è
successo, amico?” gli chiesero tutti insieme.
“El Tío, el Tío…” balbettò Sinforoso Choque senza poter frenare le lacrime
che gli solcavano il viso né la bava mista a coca che gli colava dalle labbra.
I minatori,
pensando che avesse perso la ragione, lo presero per le braccia e lo portarono
all’Ospedale degli Operai, dove morì due giorni dopo. Quando i medici lo
sottoposero ad autopsia, si seppe che responsabile del decesso non era el Tío, come molti avevano creduto,
bensì una misteriosa affezione per la quale non c’era stato rimedio.
* il libro Racconti della miniera é disponibile in e-book su varie piattaforme, tra cui Amazon Kindle.
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