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giovedì 28 maggio 2015

VIAGGIO DALL'ATLANTICO AL PACIFICO: BOLIVIA E SUD PERU'




SCAGLIE DI SUDAMERICA: VIAGGIO DALL’ATLANTICO AL PACIFICO (5- fine)

Scorcio di Sucre scendendo dalla Piazza della Recoleta
BOLIVIA 2


Da Potosí scendo a Sucre, altra bella città a saliscendi, altre belle chiese candide e altro barocco. Mi incantano due musei superlativi per interesse culturale, storico e artistico: il Museo Etnologico (http://www.musef.org.bo/) e il Museo di Arte Tessile (alcune diapositive di tripadvisor: https://www.youtube.com/watch?v=fKTdntL_jeE, ben pallido riflesso della ricchezza dell’esposizione).

Il primo ha maschere di una bellezza, inventiva e originalità travolgenti: tutti i personaggi delle colonizzazione vi hanno spazio, trasfigurati sbeffeggiati sublimati. Ma vi si celebra soprattutto la centralità delle divinità ancestrali e l’ipostatizzazione degli antenati, il cuore di tutta la religiosità tradizionale in ogni latitudine, dall’Oceania alle Ande, dal Sahel alle foreste pluviali. Molte le maschere degli Añas, gli antenati: Aña è lo spirito tutelare dei morti: i danzatori mascherati celebrano il ritorno degli antenati e la continuità del lignaggio, la catena dell’essere che lega i vivi ai morti indissolubilmente. Mi vengono in mente le danze dei revenants (gli antenati che si reincarnano nei viventi attraverso le maschere ) cui ho assistito in Benin: identico lo spirito e il significato. In Madagascar si balla addirittura con i cadaveri  dei propri familiari estratti dai loro tumuli.  Una delle maschere/personaggi  che sbeffeggiano gli spagnoli si chiama pakhoci, da pakho che significa “rosso”: si sovrappone il colonizzatore paonazzo per il sole all’immagine del diavolo. 
 

Pieno di scoperte anche il Museo di arte  tessile indigena:  un video racconta la protesta dei Chullpa Puchus, la minoranza andina più numerosa. Si lamentano dell’ imposizione di usanze  estranee che falsificano la loro identità attraverso oggetti e ritmi alieni: le case tradizionali a pianta rotonda sono diventate quadrate, i loro tetti di fibre di paglia intrecciate sono stati sostituiti da lamiere che bollono nel mezzogiorno  e gelano di notte, i sistemi ancestrali di irrigazione degli Uru Chipayas non esistono più. Questi ultimi erano i più antichi abitanti delle zone andine dell’ovest della Bolivia, intorno al Rio Lauca, e la loro civiltà era basata sul controllo dell’irrigazione (la zona di S. Ana de Chipaya è stata studiata da due grandi etnologi, Alfred Métraux e Nathan Wachtel, in epoche diverse: 1930 il primo, anni 1970-80 il secondo). Gli Uru Chipayas hanno un peculiare mito delle origini  che ricorda molto l’episodio biblico dell’arca di Noè: essi narrano che la loro progenie è così antica che i loro antenati preesistevano addirittura all’apparizione del sole, per cui le loro capanne erano orientate a est, ignorando che il sole sarebbe sorto da quel punto dell’orizzonte. Un bel giorno ecco che spunta il sole e incenerisce e distrugge e brucia tutti coloro che si affacciano il mattino dalla capanna. Sopravvive soltanto una coppia che miracolosamente perpetuerà la loro stirpe. 
 
Nei meravigliosi arazzi della cultura Jalq’a , che diventano veri e propri affreschi cosmologici, si rappresenta e celebra una visione tripartita del mondo:  il mondo superiore (hanan pacha), il mondo terreno (kay pacha) e il mondo infero, sotterraneo (ukhu pacha).  Per illustrare visivamente questa tripartizione esistono canoni figurativi e colori deputati, per cui ad esempio il mondo infero è raffigurato e intessuto solo con i colori rosso fiamma e nero carbone, mentre il mondo terreno ha tenui  colori  tra ocra e cilestrino: i disegni sono minutissimi e perfetti, donne spesso semi-analfabete hanno una maestria ineguagliabile e raffinatissima nell’intrecciare e annodare migliaia di fili per dar vita a questi  riquadri dove è racchiuso il loro universo mentale e spirituale. La complessità dei tracciati è enorme, mind-blowing dicono gli inglesi, ti fa saltare il cervello. 
  Gli arazzi sono di dimensioni contenute, devono stare in povere capanne di pochi metri quadrati e i telai che li tendono sono fatti di rami rozzamente tagliati. Quelle che mi intrigano sommamente sono le raffigurazioni del mondo di sotto, dell’ukhu pacha: una specie di enciclopedia dell’inconscio a mio avviso, anche se una delle impiegate del museo non concorda.: ci sono gli spiritelli, specie di elfi, chiamati khurus, che le tessitrici chiamano familiarmente con un diminutivo: khuritos, ci sono dei demoni , i supays, e poi il gobbo, el jorobado.  I tessuti si chiamano aqsu. Il più bello di tutti è ancora teso sul suo telaio originale di rami nodosi: l’autrice è morta appena dopo averlo terminato, avrebbe voluto venderlo per realizzare un suo sogno segreto. Il Museo da alcuni anni organizza corsi per coltivare e sviluppare quest’arte tradizionale, e con successo, fornendo a centinaia di famiglie la possibilità di mantenersi e migliorare il proprio standard di vita.



Da Sucre prendo un aereo per Cochabamba, e da lì l’autobus per Villa Tunari e il vicino Parque Machía, in direzione est  alla volta di Santa Cruz, la zona più ricca (e reazionaria) della Bolivia,  che non raggiungo. Nel Parco, al solito verdissimo  umidissimo e caldissimo, degli animali decantati  dalla brochure-réclame vedrò solo tante scimmie.  Ma sono scimmie che non avevo mai visto, chiamate scimmie ragno per la lunga coda prensile. Il parco si sviluppa in altezza, ci si arrampica qualche centinaio di metri in una giungla gocciolante di  acquerugiola  fine finché si arriva al mirador.  Molte scimmie sono sdraiate pacificamente sui sedili destinati ai turisti o giocano a rincorrersi di ramo in ramo.  Un bel fiume si snoda  sotto la foresta nella nebbiolina. Una scimmietta si precipita ad assaporare golosa l’orina della compagna: de gustibus.

Da Cochabamba salgo a Oruro, di nuovo al freddo e a cercare un albergo dotato di stufette elettriche. E’ imminente il famoso carnevale, ma faccio fatica a trovare una stanza e solo per il venerdì sera, per sabato notte niente da fare,  è inevitabile battere in ritirata e puntare a nord ovest verso  La Paz.  Ecco alcune foto della capitale, annidata in un avvallamento  con tentacoli che si protendono in ogni direzione su per i fianchi delle montagne attorno, è una città aggrappata alle pareti dei monti e sovrastata da El Alto, che prima era un suo quartiere e ora è municipio a sé. 
 Bellissimo il Monastero di S. Francesco: una domenica pomeriggio mi  inerpico su su  tra bancarelle di patate fino a scorgere finalmente il tramonto dietro la vetta  dell’ Illimani, a  6438 mt di altezza, che ho gloriosamente  di fronte. E infine risolvo l’enigma del nome del gruppo di canzoni rivoluzionarie più famoso del mondo degli anni ’70, mentre ammiro  l’Inti Illimani in compagnia di un bel pappagallo che si affaccia a una vicina finestra.: gli Inti Illimani sono il Sole dell’Illimani, Inti  in quechua significa sole, e Illimani è il nome della montagna!  Mi riecheggiano all’orecchio mentre scendo verso il buio le parole del canto del famoso complesso, il ritornello: “Venceremos, venceremos, mil cadenas habrá que romper….”. 
Un altro museo superlativo tra quelli che visito a La Paz è quello degli strumenti musicali tradizionali, dove ascolto anche un sabato sera un eccezionale concerto del Teatro del Charango: il charango è una specie di chitarra tradizionale e i suonatori  esibiscono una gamma di esemplari che va da un minuscolo aggeggio di pochi centimetri a un charango double face  con un numero di corde diverso, creazione personale degli artisti. La voce melodiosa di Dagmar Dümchen è ammaliante, una donna bellissima sul cui volto dai lineamenti nobili e decisi si legge una vita interiore intensa  e vibrante, e un grande amore per la musica cui si abbandona con gli occhi socchiusi (un bel video anche se molto breve si trova a questo indirizzo. https://www.youtube.com/watch?v=8PDD7bDVJJY)  

La visita organizzata da un’ Agenzia turistica  all’antichissimo sito archeologico di Tihuanaco è complessa : la guida è bravissima e coltissima (forse troppo) ma  la mia scarsa dimestichezza con le culture ancestrali andine  e la frettolosa lettura della Lonely Planet,  parca di spiegazioni storiche, si rivelano un handicap strutturale.  Il fatto di dover seguire ritmi incalzanti per non perdere le tracce del gruppo  mi impedisce la dovuta concentrazione. Faccio fotografie ma  la storia dei vari templi e delle statue,  con la famosissima Puerta del Sol , la vado a ripassare la sera su Wikipedia. Se ci andate, preparatevi in anticipo come per un esame!
 
L’ultima tappa boliviana è Copacabana, che non può non soggiogare l’animo e non ispirare il desiderio di tornarvi almeno una volta all’anno. E’ un cittadina piccola e deliziosa, distesa lungo le rive dell’estremità sud-est  del lago Titicaca sacro al dio Inca Wiracocha, una limpida distesa  azzurra che si estende tra dolci colline verdeggianti  fino all’orizzonte a perdita d’occhio, per cui  assomiglia a un mare lievitato a 3700 mt. Per arrivarci scendiamo dall’autobus  per attraversare  un braccio del lago da Desaguadero alla penisola di Copacabana  e saliamo su una lancia. Il buffo è che anche l’autobus vuoto sale su un altro traghetto, lo vediamo arrivare traballante sul filo della corrente; ad ogni oscillazione temo per i bagagli a bordo. 
 
Naturalmente la prima visita obbligata  è alla famosa Isla del Sol, la cui parte nord è quasi tutta un sacrario Inca costellata di monumenti. La traversata  in un barcone piuttosto anziano dura un’ora  e mezzo, che trascorre rapidissima in conversazione con un cineoperatore olandese e una  signora che abita sull’isola e vive come quasi tutti qui di turismo vendendo i suoi manufatti (ha un fagotto enorme, come tutte le donne che ho visto in Bolivia, che lo caricano con nonchalance sulla schiena e ci fanno chilometri). Lei sferruzza  velocemente con vari ferretti molto corti e ci racconta una storia terribile del tempo della dittatura:  una notte arrivarono sull’isola dei soldati  che volevano snidare dei ribelli e ammazzare tutti coloro che erano sospettati di appoggiarli. Chi si salvò lo fece scivolando verso la riva nell’oscurità, poi tagliando i corti rami di un alberello che nell’acqua si gonfiano e galleggiano, trasformandosi in minuscole zattere; su di esse gli scampati all’eccidio vogarono con le braccia verso la salvezza. Come la maggioranza dei boliviani anche lei  rifiuta di farsi fotografare (si noterà che le mie foto di donne sono quasi tutte di schiena o di sguincio).
 
 L’unica donna che invece si mette quasi in posa è l’anziana guardiana della Piedra Sagrada del Inca, uno dei monumenti dell’area nord, che quando chiedo indicazioni sul sentiero da seguire per vederla mi dice:”Vieni, te la  mostro io, è nel mio orto”.  Difatti in fondo a un giardino di pochi metri quadrati, alto due metri e largo di meno, massiccio, biancastro, troneggia un masso. Lei si siede su una panca di fronte alla pietra e racconta:” Gli Inca avevano tre leggi: Amalluya, Amakella, Amasua [1] ( non mentire, non rubare, non oziare). Chi trasgrediva veniva “inforcato” (ahorcado, dice) con una corda (soga) contro questa pietra. Oggi ogni anno quando viene il giorno di S. Andrea, il 29 novembre, si fa una gran festa, si sacrifica un llama, il corpo si seppellisce, il sangue è offerto alla Pachamama,( la madre terra)”. Dopo i dovuti ringraziamenti, la lascio e proseguo verso il labirinto, che però non raggiungo per  il timore di perdere la barca che salpa per la parte sud dell’isola alle 13.30. 


 Dopo una mezz’ora di brivido per rischio naufragio (il motore arranca, il vento è forte e il nocchiero propone un attracco di fortuna a mezza strada che viene declinato) si sbarca alla parte sud, il cui molo è sovrastato da una altissima antica scalinata, anche questa ovviamente battezzata “ scala dell’Inca”. Raggiunta la cima, presa da incantamento  per il panorama e l’aura di sacralità che spira dal paesaggio, soccombo all’estasi:  appoggio il mio giubbetto di pelle a terra per fare una foto e lo abbandono là, dimentica di tutto fuorché di guardare e camminare. Rientrata in me grazie a zaffate di venticello fresco, corro a cercare il mio prezioso e unico indumento pesante, ma ovviamente  non lo ritrovo.
 Al ritorno a Copacabana mi precipito a comperare un giaccone di lana, ce n’è un’ abbondante scelta a prezzi imbattibili. Lutto serale per il compianto giubbetto dotato di tasche e taschini segreti da viaggio, con la consolazione che qualche ragazzino avrà celebrato la mia dimenticanza. Evito prudentemente di imbarcarmi per la Isla de la Luna e mi sfogo con camminate lungo il lago: a Kusijata, villaggio di pescatori e contadini, scopro un minuscolo museo le cui custodi sono due bambine rispettivamente di otto e dodici anni, che alle 17.30 di sera mi aprono il grosso portone e aspettano con aria professionale che ammiri i reperti, non eccezionali a parte una mummia molto ben conservata. La cosa più interessante è una fontana antichissima nel giardino incolto chiamata, indovinate, Fontana del Inca, all’origine di un acquedotto del 1500, da cui sgorga un’acqua limpida e fredda con cui riempio subito la borraccia. Dopo Kusijata, visito una isola galleggiante: ce ne sono molte sul Titicaca, costruite con una canna locale chiamata totora, che si usa anche per fare lunghe canoe. Tutto su queste isolette è costruito di totora. Abbondano le trote.
 
Lascio Copacabana con rimpianto per raggiungere il Perù e comprare ad Arequipa il biglietto di ritorno.  Arequipa è una città coloniale elegante e animata, dominata da vulcani, che però proprio a febbraio sono quasi sempre invisibili grazie a basse nuvole vaganti.  Bellissima la Chiesa della Compagnia di Gesù e stupefacente per bellezza straripante vitalità e sensualità la Cappella di S. Ignazio di Loyola, che rappresenta un Paradiso Terrestre indigeno, un’esplosione di colori tra foglie giganti rami intricati uccelli variopinti animali di ogni tipo, il tutto intrecciato e avvinto in una luce dorata. Trovo interessantissimi due Conventi. Il primo, ex-convento di S. Catalina (Caterina da Siena) è quasi una città: le celle delle novizie sono strette, spoglie e dimesse, in contrasto con quelle della badessa e delle monache più altolocate, ammobiliate anche con un pianoforte fatto giungere appositamente dall’Europa, letti più comodi e larghi, belle suppellettili. Questa é la cucina.

  L’altro Convento , di S. Teresa de Ávila, è invece ancora tale:  qua e là il visitatore è arrestato da targhe con la dicitura: Clausura. Molto particolareggiata e avvincente la ricostruzione della vita e delle illuminazioni di S. Teresa, la fondatrice dell’ordine delle Carmelitane Scalze, e grande intellettuale, poetessa e scrittrice, oltre che efficace riformatrice e agitatrice sociale. Nel 1562 ebbe la rivelazione che le cambiò la vita: el  arrobamiento, come la definì:  estasi, stato di beatitudine. Sempre più spesso preda degli arrobamientos, sentiva il dardo di Cristo che le attraversava il corpo: parlò di una acuta sensazione di  transverberación, intraducibile[2]. Personalmente  la ritengo anche una  maestra della letteratura spagnola insieme a S. Juan de La Cruz, altro mistico straordinario. Tipica dell’intreccio boliviano di culture ecco  una raffigurazione meticcia dell’arcangelo Gabriele: indossa un copricapo Iinca, il Mascaipacha, incoronato da un enorme pennacchio! Un arcangelo meteco!

Il lungo tragitto da Arequipa a Nazca  verso nord dispiega un paesaggio lunare, salvo rari tratti coltivati e boschetti di palme, ma più spesso  punteggiato da cactus e un’erbetta ispida.  A La Joya, cittadina incolore, vedo frequenti  cartelli:  Compro cochinilla, fresca, seca y en polvo[3]. Non ci deve essere molto altro da vendere a parte pesce e crostacei. Il Pacifico è chiazzato da lunghe spume di inquinamento per centinaia d chilometri.  Villaggi di pescatori, deserto, villaggi, deserto, per ore.
 


Nazca mi delude in vari modi: mi sembrava che l’oceano fosse a breve distanza, invece ci vuole un’ora e mezzo per raggiungerlo, gli orari del bus sono sommamente incerti, è giocoforza rinunciarvi se non si vuole perdere tutta la giornata ( inoltre il ritorno non è assicurato entro la sera). Invece prenoto un posto sul Cessna di una delle compagnie che sorvolano le famose linee incise sulla terra del deserto scabro e gibboso da sconosciuti artisti cinquecento anni fa e rimasti miracolosamente intatti. Rappresentano fantastici animali e  bislacchi personaggi: il più famoso è il cosiddetto “aviatore”. Dato che sono giganteschi, pare che la cosa migliore sia ammirarli dall’alto e non dal mirador a pochi chilometri dalla città. Seleziono tra le tante agenzie turistiche quella che mi sembra più affidabile dato che ci sono anche stati incidenti.  Il volo dura poco più di 30 minuti, ma appena riesco a identificare il disegno sottostante  e mi appresto a fotografarlo, l’aereo vira bruscamente e non riesco a fare che fotografie indecifrabili con confuse di strisce di sabbia, di cui non  fornisco dimostrazione I disegni si vedono nettamente su molti siti web, come questo: https://web.infinito.it/utenti/m/mysteryworld/nazca.html . Scendo dal Cessna abbastanza arrabbiata e con un indefinibile e leggero mal di stomaco, el mareo. Per consolarmi vado a nuotare in piscina, per  la bellezza di 10 dollari di biglietto.
 
Ancora mi aspettano centinaia di km di deserto da Nazca a Lima, e questa volta con contorno di tempesta di sabbia dopo Paracas. L’ultima fotografia del viaggio è un vortice biancastro di polvere e vento sull’asfalto.

 Se la Bolivia riuscirà ad avere la meglio nel duro contenzioso con il Cile rispetto alla sua rivendicazione di riavere l’accesso al Pacifico  perduto con il Trattato del 1904, e se il Movimiento al Socialismo si sbarazzerà della zavorra dei residui clientelismi e supererà la prova del potere prolungato, realizzando una vera partecipazione e dialettica democratica dal basso, vi sarà sulla terra  un splendido paese,  ecologicamente, umanamente e politicamente unico, dove  si gusterà il buen vivir, un ideale al cuore delle culture andine. La Pachamama sarà soddisfatta.



















[1] Ho dimenticato di chiederle se sia lingua quechua o  aymara. Dato che Copacabana è quasi al confine con il Perú forse è più probabile che si tratti di aymara.

[2] Nella sua autobiografia descrisse la visione di un angelo che le trapassava l cuore con una freccia infuocata.


[3] Si tratta di piccoli crostacei

2 commenti:

  1. Complimentissimi
    Ma puoi dirmi se viene anche pubblicato (su carta, dico) ?
    “Venceremos, venceremos, mil cadenas habrá que romper….”.

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  2. Per ora no, poi vedremo, sono contenta che vi sia piaciuto

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