GRECIA IN BILICO
Sono tornata
da un’estate trascorsa in Grecia, la quarta dal 2013, e ho ancora davanti agli
occhi il mare agitato di Samotracia, la spiaggia di ciottoli avvolti nelle
spire della Poseidonia, l’alga benefica che difende la costa dall’erosione, e sento
il fortissimo vento che vi ha imperversato per tutto agosto e inizio settembre.
Prima di partire dall’Italia avevo meditato a lungo se dirigermi verso le
grandi isole dell’Egeo settentrionale, come Lesbos, Samos e Chios, dove circa undicimila
rifugiati sono precariamente ospitati in attesa che la lentissima burocrazia si
occupi di loro e del loro avvenire, soccorsi da organizzazioni di volontariato
più e oltre che da UNHCR. Ma ho temuto che, per dare una mano non generica, la
conoscenza del greco fosse necessaria e che una pecora sciolta, anche se con
qualche competenza in materia di cooperazione internazionale e di” aiuti
umanitari” - termine che detesto per motivi già esposti in questo blog[1]
– potesse avere non poche difficoltà a inserirsi utilmente in una situazione
che si intuisce caotica e contraddittoria. Questo timore si è rivelato fondato
– mesi dopo – in seguito a una conversazione con una viaggiatrice francese che
si era recata al campo di Idomeni nella tarda primavera e aveva trascorso una
giornata a pelare patate, costretta a negarle a umilianti richieste individuali
di elargizioni sottobanco. Aveva avuto la sensazione non solo di caos
organizzativo ma soprattutto di incapacità a promuovere un’autogestione da
parte dei migranti e profughi stessi, il famoso empowerment decantato da decenni.
Scartata
l’ipotesi volontariato, ho puntato a mete precedentemente collaudate e lontane
dalle rotte turistiche più battute, con l’intenzione tuttavia di cogliere
qualche indizio della situazione attuale, dello stato d’animo prevalente tra la
persone comuni, deducendolo per lo più dall’osservazione della vita quotidiana,
dato che non ho (ancora) imparato il greco e che la maggioranza degli autoctoni
non è poliglotta. Viaggiando con i mezzi pubblici gli spunti sono molti.
L’anno scorso
avevo vissuto la parabola del tifone Grexit, con le restrizioni ai prelievi
bancari, la paura dell’esclusione dal clan europeo, il referendum che aveva
dappertutto fatto il pieno di “oxi”, un no sonoro, ribaltato la settimana dopo
da uno Tsipras penitente che ha consegnato alla vendetta della Troika quel che
restava della Grecia Felix conosciuta negli anni ’90.
La prima
persona cui ho chiesto se a suo avviso la situazione fosse migliore quest’anno
rispetto al 2015 è stato un albergatore di Volos che conosco da anni. Mi ha
fulminato con un “no, non è migliore” e una faccia così scura che non ho osato
approfondire né riprendere la questione il giorno seguente.
Tuttavia il traghetto per le isole Sporadi era
pieno nonostante si fosse soltanto a giugno, e Alonnisos, la terza e ultima
tappa della nave, discretamente animata da turisti.
Amo Alonnisos
e soprattutto amo una baia, Milia Bay, situata abbastanza vicino al porto dove pianto
le tende in modo da poterla raggiungere a piedi ogni giorno. A inizio stagione
è poco frequentata, il mare è incantevole e liscio come olio in quanto
l’abbraccio delle due lingue di terra boscosa che la racchiudono la ripara dal
vento, e la spiaggiola di sassi è delimitata a est da robusti lentischi che
offrono l’ombra necessaria nelle ore più calde.
L’ho lasciata con rammarico nella seconda metà di luglio perché a
quest’epoca l’isola comincia a riempirsi e io emigro verso sponde anche meno
affollate, anzi, deserte.
Incontrato
sulla via del ritorno in settembre, un italiano di Torino che ha lavorato là come
cuoco per tutta l’estate affermava che la stagione turistica era andata bene.
Riuscirà però il turismo a salvare la Grecia dal burrone in cui è precipitata
da sette anni ormai? E a che prezzo?
Viaggiando
verso est per raggiungere Alexandropolis, ultima grossa città prima della
frontiera con la Turchia e unico porto da cui salpa il traghetto per
Samotracia, sono passata a Litochoro, alle pendici del monte Olimpo. Prezzi in media
più alti che nelle isole, turismo un pizzico più sofisticato, e la
constatazione che anche sull’Olimpo il mare è sempre vicino: salendo la sua
visione azzurra ti accompagna a lungo.
Sulla via del monte incontro una sarta
di Volos che ogni giorno porta in autobus il suo cane aggredito da un pitbull dal
veterinario di Litochoro e ritorna a Volos la sera. Parla inglese e quindi si
intavola conversazione. Mentre le confido quanto siano stati importanti nella
mia infanzia i miti greci raccontati ai bambini in salsa New England da
Nathaniel Hawthorne[2],
lei mi interrompe e dice: “Per me non sono miti. Gli dei dell’Olimpo sono i
miei dei. Non ne ho altri”. La dichiarazione mi sembra degna di
approfondimenti, ma il discorso prende un’altra piega, ormai siamo arrivate al
ristorante, così non ho avuto modo di farmi spiegare meglio cosa intendesse e
come vivesse “i suoi dei”. Il suo responso rispetto alla situazione della
Grecia è positivo: a suo avviso la situazione sta migliorando.
Pochi esperti
d’economia sarebbero d’accordo con lei. E forse anche non molti dei suoi
connazionali. Gli articoli che si leggono sulla stampa internazionale non sono
affatto confortanti. Il debito greco è salito al 180% del PIL, la disoccupazione
è intorno al 24%, quasi mezzo milione di persone sono emigrate da quando è
iniziata la crisi e il 20% della popolazione più povero ha perso più del 40%
del suo reddito dal 2009 (https://www.theguardian.com/business/2016/aug/13/greek-economy-still-spiralling-down-year-after-crisis-declared-over). In più le isole che hanno
contribuito a salvare la vita dei migranti l’anno passato sono state
penalizzate con la penuria di turisti (e il leggerlo mi ha fatto pentire di non
essermi recata a Lesbos almeno come turista se non come volontaria). E’ di
pochi giorni fa la notizia dell’incendio del campo di rifugiati di Moria, sull’isola
di Lesbos, che pare sia stato appiccato volontariamente per protesta. Ora le barche sovraccariche non arrivano più da
quel lato del Mediterraneo solo perché le rotte sono cambiate, ma non sono meno
assassine: almeno 2800 morti annegati sono stati registrati al largo delle
coste libiche, egiziane, magrebine, tra gennaio e giugno 2016, rispetto a 1838
l’anno scorso, e sono solo i numeri ufficiali ((http://www.independent.co.uk/news/world/africa/refugee-boat-egypt-carrying-600-capsizes-sinks-mediterranean-africa-migrants-a7320736.html). La tragedia greca si intreccia a
quella di rifugiati e migranti in fuga da guerra, siccità e persecuzione
politica.
E siccità
trovo anche a Samotracia. La spiaggia dove mi rifugio sotto basse tamerici per
passarvi la giornata è cosparsa di rami secchi, gli alberi che ricordavo assai
più fitti e frondosi allungano braccia stecchite.
Riesco egualmente a trovare
una tana ombreggiata quanto basta, e la solitudine è perfetta: gabbiani, gazze
e libellule, oltre a formiche e una scolopendra che mi si infila
proditoriamente nella borraccia.
Mi è capitato di leggere un resoconto poco
lusinghiero su quest’isola che mi affascina nonostante le sue rive scomode e
l’asprezza del paesaggio. Un visitatore di qualche anno fa si chiedeva: “Non so
perché abbia scelto di venire in vacanza in un’isola così brutta”, e la
definiva: “un’isola dominata dalle capre”, il che effettivamente non è lontano
dalla realtà, dato che se si fanno passeggiate sui monti sopra Profitis Ilias,
il paese più alto e vicino al monte Fengari, non si incontra altro che capre barbute.
(https://andaluusiakoer.wordpress.com/2010/09/21/samothraki-2/). Ma il mare di Samotracia è
splendido, l’acqua pulitissima e si intravedono sul fondo indizi di formazioni
coralline rosse fuoco, oltre a strani fiori rocciosi di un giallo smagliante.
Bellissimi.
E alla faccia
degli indicatori economici una animata socialità e il desiderio di vivere quel
minimo di agio che ci si può permettere non ha abbandonato i Greci. Ovunque i tavoli
dei bar all’aperto sono pieni, per abitudini ataviche, come avevo notato a suo
tempo in Albania, a partire dal primo mattino. Quelli “tradizionali” sono prevalentemente
frequentati da uomini anziani; a Durazzo rimanevano seduti per ore davanti a una tazzina di
caffè e un bicchiere d’acqua, in Grecia hanno di fronte l’eterno frappè o il
“freddo” bevuto con la cannuccia, molti giocano a carte o a dama. E i piatti
greci sono anche piatti albanesi e turchi, come gli involtini di riso in foglie
di vite. L’impero ottomano ha una lunga coda culturale e di costume.
Nei piccoli
supermercati come per gli acquisti più modesti le commesse tendono a
non fare lo scontrino, e nelle piccole pensioni dove si paga sempre in contanti
la ricevuta è evitata. Chi ha il coraggio di protestare?
Ma la misura
della crisi che attraversa ora il paese mi è stata data in maniera del tutto
inattesa una domenica in cui ho deciso di andare per la terza volta a vedere
quella che è la gloria archeologica di Samotracia, il Santuario dei Grandi Dei,
gli antenati degli dei dell’Olimpo, l’ex sito della splendida statua della
Vittoria alata deportata al Louvre. Avevo voglia di ritrovarlo e di verificare
alcuni ricordi rispetto ai pezzi conservati nel museo attiguo. Ahimè: il museo
era chiuso: riaprirà l’anno prossimo! E una volta entrata nel sito archeologico
e arrivata alla fatidica nicchia della Nike alata, dove ero abbastanza sicura
di aver visto anni prima un calco in gesso dell’originale, ho creduto di avere
un’allucinazione malefica.
Posate a terra, invece del calco, c’erano due
minuscole statuette della Nike… come i souvenir da quattro soldi che si vendono
nei botteghini ai turisti. Ho avuto
l’impressione di ricevere uno schiaffo, mi sono venute le lacrime agli occhi,
tanto più che i visitatori accanto a me, non numerosi, sembravano
imperturbabili. Una ragazza seduta a terra in posa ieratica aveva gli occhi
chiusi e sembrava voler rincorrere un trans improbabile. Di fronte ai santini pagani
di plastica.
L’ultima
tappa prima del traghetto per l’Italia è Metsovo, sulle montagne dell’Epiro,
dove vado a salutare la proprietaria di un piccolo albergo a gestione familiare
che è diventata un’amica. Divorziata, mantiene quattro figli (tre ragazze e un
bambino di dieci anni), e non riesce quasi mai ad uscire per una passeggiata o
un qualsiasi svago. Un giorno la vedo con gli occhi arrossati e penso a una
congiuntivite. Poi immediatamente capisco: ha pianto. Che c’è, le chiedo, e lei
sbotta con forza:”Pay, pay pay!” Tasse a tutto spiano. Anche se ha
fortunatamente parecchi clienti, sia in estate che in inverno, è sempre in
tensione, soprattutto ora che la figlia maggiore ha iniziato l’Università e le
spese aumentano.
I vertici UE
si susseguono inutili, le politiche di austerità vengono deprecate a parole mai
seguite da fatti, e la macelleria sociale continua, mentre rifugiati e migranti
continuano a morire nella fuga verso un’Europa sempre più cattiva e povera.
Fino a quando non riusciremo a inventarne un’altra.
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