RACCONTI DALLA MINIERA
DI
VICTOR MONTOYA (BOLIVIA)
LA K’ACHACHOLA (**)
Civiltà precolombiane: idolo nel Museo archeologico di Montevideo, Uruguay
Dicono
che Florencio Nina, il charanguero[1]
che faceva vibrare i cuori delle donne come le corde del suo strumento, entrò
nella miniera con l’intenzione di uccidersi. Non era passato molto tempo da
quando aveva perduto la donna che amava e si era dato al bere, come quando era
ritornato dal servizio militare ed era entrato nella Sezione Lagunas[2]
della miniera, dove i suoi compagni di lavoro lo avevano soprannominato
Nina-Nina[3],
perché il suo nome era scolpito nel cuore delle donne e correva sulla bocca
degli uomini.
Era
il re dei bevitori e degli amanti. Non c’era donna che non fosse stata irretita
dalla sua galanteria né uomo che non avesse avuto gli occhi umidi ascoltando il
suo charango. Per le prime egli era
il dongiovanni della miniera e per i secondi il miglior charanguero della provincia.
Quando
Florencio Nina entrò nella miniera, ancora ubriaco e con il charango a
tracolla, non indossava altro che il suo poncho huayruro [4]e
gli stivali di gomma. Aveva i capelli arruffati, una barbaccia ispida e lo
sguardo perso nel vuoto. Era Carnevale e la miniera era vuota. Per questo, man
mano che si addentrava nella galleria principale, l’oscurità che lo circondava aumentava
sempre più, provocandogli una sensazione di paura che di tanto in tanto sembrava
schiacciarlo.
A duecento metri dall’imboccatura della
miniera, quando già non si udiva più che l’eco dei suoi passi, deviò a destra
in una galleria dove proseguì alla cieca e a tentoni, fino a perdere
l’orientamento e la speranza di uscirne vivo. Si addossò alla parete e
sciaguattando in un canale in cui scorreva la copajira[5],
quasi fosse una sorgente che precipitava dall’alto delle rocce, proseguì a tastoni
verso l’interno della miniera.
Florencio
Nina, man mano che l’effetto dell’alcool si acuiva, canticchiava il wayño[6]che
tante volte aveva interpretato nelle osterie locali. Ma all’udire le grida di
una voce femminile davanti a sé strinse forte il manico del charango, suo fedele
amico nella buona e nella cattiva sorte, che lo aiutava a esprimere nel canto i
suoi crucci e le sue gioie.
Ormai
lontano dall’imboccatura della miniera, circondato da un gelo che gli si
infiltrava addosso attraverso gli stivali di gomma, gli venne in mente che
nessuno poteva restare da solo dentro le gallerie, neppure coloro che avevano
stretto un patto con il Tío.
Cosicché, in preda al panico, pensò che sarebbe stato più facile togliersi la
vita nelle catacombe dell’inferno piuttosto che nel profondo della miniera,
dove le grida di una donna potevano far presagire un esito funesto.
Le
grida si facevano via via più alte mentre egli cercava di allontanarsi tastando
il terreno con mani e piedi, finché d’improvviso gli si parò davanti una bolla
di luce che lo abbagliò e lo fece cadere sopra il charango come se fosse stato
colpito da un fulmine. Lo strumento, con la cassa di armadillo e i pioli di
metallo, gemette sotto il peso del suo padrone e si spaccò. Florencio Nina, con
lo sguardo rabbuiato, gli occhi spalancati e il viso schizzato di copajira,
cercò di riaccostare i pezzi del charango per abbracciarlo e baciarlo, come se
avesse perduto un fratello, mentre le grida gli sibilavano nelle orecchie con
maggior forza dell’eco del vento nelle gole della cordigliera.
Quando
levò lo sguardo, maledicendo la perdita del suo charango, scorse una donna
avvolta in un’aureola rosso arancio, le cui sembianze gli ricordavano la Vergine
del Socavón[7],
ma anche la donna che aveva perduto tra le braccia di un altro uomo. Poi,
credendo di avere trovato l’uscita verso la luce del giorno, si drizzò in piedi
stropicciandosi gli occhi, ma l’immagine della donna, che aveva trecce lunghe
fino alla vita, non si mosse e gli sorrise.
Florencio Nina, non sapendo come trarsi d’impaccio, la salutò cortesemente
restituendole il sorriso. Poi le chiese premuroso:” Chi sei?”.
“La
K’achachola”, rispose lei, mettendosi sulle rotaie dei binari della galleria
che rilucevano come strisce d’argento e allontanandosi quasi fosse risucchiata
da una forza misteriosa.
Florencio
Nina, il cervello offuscato dall’alcool e soggiogato da questo amore a prima
vista, la seguì. Lei si tolse il cappello di paglia, il corto mantello, la
blusa con i volants, la gonna arricciata, la sottogonna a balze, e le braghette
di filo di Scozia, finché rimase completamente nuda come una fiaccola
fiammeggiante nella galleria.
Florencio
Nina, illuminato dalla luce che da lei emanava a fiotti, inchiodò lo sguardo su
quei seni che pendevano come meloni maturi.
“Benedetto
sia il tuo nome, coniato su misura su di te”[8],
le disse, ravviandosi il ciuffo ribelle che gli cadeva sulla fronte.
La
K’achachola, esibendo un corpo splendente e seducente come il suo viso, gli
indicò la fessura del sesso, abbozzò una moina lubrica e gli chiese di spegnere
il fuoco del suo desiderio.
Florencio
Nina, attirato dalla calamita di quel corpo le cui curve erano più perfette e
armoniose delle forme del suo charango, le si accostò cautamente, come chi
voglia agguantare una pernice. Eppure più le si avvicinava, più aveva la sensazione
che lei si allontanasse.
“Perché
te ne vai?”, le domandò, intenzionato a possederla a qualsiasi prezzo.
La
K’achachola rispose con un sorriso, mentre continuava a indietreggiare verso il
fondo della galleria, dove l’aria diventava sempre più umida e pesante.
Florencio
Nina, con lo sguardo acceso dalla lussuria e il cuore travolto dalla fiamma di
un amore improvviso, la seguì inciampando nei ciottoli di calcare che
cospargevano il suolo, finché sotto i suoi piedi si aprirono le fauci di un
buzón[9]
dove precipitò con un grido che rimase sospeso nel vuoto.
Il
giorno seguente, due minatori del primo turno lo trovarono tutto nudo sopra un
poncho huayruro, con il viso
sfigurato e le ossa rotte. I minatori lo guardarono senza dire nulla e
portarono il cadavere all’aperto, dove anche gli altri tacquero, perché ognuno
di loro sapeva che non era altro che una vittima in più della K’achachola, che dopo avergli fatto
intravedere il dono del suo corpo – lei che è dappertutto senza trovarsi in
realtà in alcun luogo- lo aveva abbandonato ormai senza vita.
Quando
la gente del posto seppe della tragica morte, le donne più anziane
sentenziarono che alla fine Florencio Nina aveva trovato quello che andava
cercando.
“La
morte, sotto le false spoglie della K’achachola,
lo ha sorpreso in una galleria abbandonata, lo ha stregato con i suoi incanti e
lo ha ucciso senza astio”, disse una di loro. E’ il prezzo che pagano i
donnaioli che entrano soli nella miniera, dove la K’achachola vaga lanciando
grida che chiedono amore da quando il Tío
la cacciò via da sé, temendo che le sue mestruazioni facessero sparire i
filoni”.
“E’
successo già molte volte”, disse un’altra. “I minatori dovettero ch’allar alla Pachamama
affinché i filoni apparissero di nuovo…..”.
Il
giorno in cui Florencio Nina fu sepolto, senza prete e senza cerimonia
religiosa, le osterie rimasero chiuse, i minatori abbandonarono il lavoro e le
donne indossarono il lutto, tutte eccetto colei per la quale lui aveva perso la
vita in uno dei buzones della miniera.
(**)
Traduzione mia dallo spagnolo. Il libro completo “Racconti dalla miniera” è
disponibile come e-book su varie piattaforme, compresa Amazon-Kindle.
[1]
Musicista che suona il charango, strumento diffuso in America del sud simile
alla chitarra
[2] Detta
così perché spesso allagata
[3] Gioco di
parole con il cognome Nina: nina-nina in quechua significa: lucciola
[4] Si
chiama così un tipo di poncho tessuto a mano a strisce rosse e nere, come i
colori del seme di una pianta andina chiamata “huayruro”.
[5] Mistura
di zolfo silicio e calcio
[6] Musica
popolare andina dal ritmo melanconico
[7] Protettrice
dei minatori.
[8] Si
ricordi che K’achachola significa in quechua “bella ragazza”
[9] Armatura
di legno intorno a un pozzo dove si trasporta il minerale