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giovedì 6 aprile 2017

KONTAN WÉ ZOT: APPUNTI DI VIAGGIO TRA MARTINICA E GUADALUPA





 Carnevale a Point-à-Pitre, Guadalupa

Kontan wé zot: contenti di vedervi, equivale a "benvenuti" in creolo. Se si sfogliano i materiali informativi forniti da qualunque agenzia di viaggi sembra che “Martinica e Guadalupa” equivalgano a spiagge assolate fornite di palme adeguatamente curve e intingoli piccanti innaffiati di rhum, non a esperienza culturale.


Indubbiamente appena arrivati si rimane incantati dalle bellezze naturali, ancora non (troppo) intaccate dalla speculazione immobiliare favorita dalla domanda crescente da parte di nutriti contingenti di pensionati e di professionisti stressati. Turisti soprattutto francesi, che giocano in casa. Infatti chi ha seguito le vicende recenti della protesta scoppiata nella Guaiana francese (Caienna) avrà presente che i cosiddetti DOM-TOM - domini e territori dell’oltremare di cui sia la Guaiana che le Piccole Antille, Martinica e Guadalupa comprese, fanno parte - sono Dipartimenti francesi, parte integrante dell’Esagono da ogni punto di vista, amministrativo, militare e politico. Sono ex-colonie incorporate nella metropoli, realtà sociali ambivalenti, ibride, che si fatica a definire. Sono un’altra sfaccettatura della realtà poliedrica della cosiddetta “post-colonia” teorizzata da Achille Mbembe[2] per l’Africa già negli anni ‘90, concetto valido anche per le Antille poiché il sostrato storico della schiavitù è comune.


Ho viaggiato sei settimane in Martinica e Guadalupa – in Guadalupa solo una settimana – ma mi è bastato per intravvedere un mondo culturale a sé, meticcio eppure ancora marchiato dall’eredità di un passato dicotomico di padroni e di schiavi, un miscuglio inedito di Africa e di Sudamerica che prende corpo nelle facce della gente, nella lingua creola, nelle sgargianti stoffe “Madras”, nei tamburi del Carnevale come negli scorci della selva che ricordano la foresta dell’Angola e nella produzione letteraria dei numerosi intellettuali (ben due premi Nobel[3] per la poesia). Su tutto aleggia la memoria della schiavitù che si prolunga nella persistenza a tutt’oggi di dinamiche di potere ereditate dagli antichi planteurs, i cui discendenti, i cosiddetti békés[4], hanno ancora in mano le redini dell’economia e della finanza: la Francia detta metropolitana è lontana e vicina. E “Planteur” si chiama uno dei cocktail più rinomati e diffusi in Martinica.



Salgo sull’autobus il mattino per andare a nuotare: alloggio a due passi da una magnifica spiaggia, a Le Diamant, ma l’oceano e il vento consigliano a chi non sia un aficionado del surf di non avventurarsi tra le onde e quindi opto per un’ora di trasporto pubblico verso una spiaggia dalle acque tranquille. In alto sopra l’abitacolo dell’autista c’è il riquadro elettronico con data e ora. Noto con sorpresa che sono le 15.00 passate: ohibò. Sono le dieci di mattina! Già, ma in Francia sono le tre. Tutti gli autobus recano l’imprinting della metropoli! Non credo sia difficile cambiare l’ora, perché non lo si fa? La sorpresa di questa dislocazione oraria è stata la prima avvisaglia di uno stato di cose in qualche modo anomalo, ambiguo, un ossimoro temporale che riflette un ossimoro culturale…esistenziale? L’unghia del dominio che perdura, lunga ottomila chilometri.
E’ Claudine, una signora creola[5] che ha lavorato in Francia a lungo ed ora vive con il marito in una bellissima villa a picco sul mare, che mi parla per prima dei békés. Stiamo facendo una passeggiata nei pressi di Grand Rivière, villaggio dell’estremo nord dell’isola affacciato sull’oceano, un tripudio di fiori che sembrano sculture di porcellana e foreste, terra di manguste, pellicani e colibrì. Il sentiero passa attraverso una residenza in stile coloniale abbinata a una grande piantagione di canna da zucchero dove è in corso la raccolta: più avanti, sul lato opposto del sentiero, un camion sale col cassone vuoto e scende stracarico. Claudine mi indica i padroni della tenuta che ci salutano da lontano, appunto dei békés, abbreviazione di bianchi creoli.
E come si fa a non evocare il concetto di post-colonia a proposito della Martinica quando si apprende che sono loro, i békés, l’1% della popolazione, che ancora detengono il 30 % delle imprese di più di 20 dipendenti, il 52% delle terre agricole, il 40% della grande distribuzione e il 90% dell’industria agro-alimentare[6] dell’isola. 


 Rovine di una antica hacienda che produceva cacao vicino a Grand Rivière

Visitando il Museo della Pagérie, la dimora signorile dove nacque e visse fino a 16 anni la più celebre béké della Martinica, colei che dal 1804 al 1809 fu “l’Imperatrice dei Francesi”, Joséphine de Beauharnais, prima moglie di Napoleone, la guida ci dice che ancora oggi un béké che sposa una donna creola viene cacciato via dal suo gruppo di appartenenza: l’esogamia viene vissuta come un “tradimento”. Nel giardino del museo mi fermo davanti a un pilastro annerito alto un po’ più di un metro, di pietra grezza: che cos’è? Semplicemente uno delle migliaia di pilastri simili a questo che i coloni disseminavano nella foresta e nella savana tutt’intorno alle loro proprietà per rallentare e impedire la fuga degli schiavi, che nella notte non potevano scorgere questi ostacoli e vi sbattevano contro, ferendosi.


I fuggiaschi che riuscivano nella loro impresa, i “marrons”, si rifugiavano sulle “mornes”, le selvagge e ripide colline difese dalla fitta vegetazione e davano vita a minuscole colonie basate su economie di sussistenza. Ci sono tuttora molti toponimi con questo vocabolo creolo: Morne Rouge, Morne Vert, Gros Morne, ecc. Mi viene in mente la “morna” la malinconica musica creola di Capo Verde resa celebre da Cesària Evora: che ci sia un legame semantico tra i due lessemi? Ascoltate “Sodade”[7], che sta per “saudade”, cioè nostalgia, in portoghese.

Le memoria della schiavitù pesa come un macigno in Martinica e Guadalupa, anche se la bellezza dei luoghi, la lucentezza del mare e del cielo, il verde splendente che ti circonda quasi ovunque tendono a fartelo dimenticare; è un passato infame da cui è nata una popolazione meticcia la cui gentilezza, disponibilità, apertura all’altro non cessano di stupirmi. La facilità con la quale si intavola conversazione per strada, la prontezza nel venirti incontro se hai difficoltà, darti indicazioni e un passaggio in auto, farti la telefonata locale che tu non puoi fare senza roaming o wi-fi, sono straordinarie e ti fanno innamorare di queste isole al di là del loro pregio naturalistico e culturale.
A ricordartela, la schiavitù, non ci sono soltanto le riproduzioni delle sagome delle navi negriere o le pesantissime catene e gli anelli di ferro conservati nelle capanne della Savane des Esclaves, riproduzione di un villaggio tradizionale di schiavi fuggiaschi o emancipati dopo il 1848, ricreato su una di queste “mornes” vicino al borgo di Trois Ilêts dal lavoro indefesso di un solo uomo, Gilbert Larose, che ha disboscato a forza di braccia due ettari di foresta per farne uno dei luoghi più visitati della Martinica. Lo status attuale dei DOM-TOM, nei giorni in cui scrivo messo pesantemente in discussione dalla rivolta in Guaiana, territorio particolarmente difficile dove il turismo non arriva a fare da ammortizzatore di tensioni e rivendicazioni di tipo economico e sociale, è di per sé ambiguo e fatalmente inestricabile dal retaggio coloniale. Mi colpisce che la mia padrona di casa, parlando delle sue visite in Francia, non dica semplicemente: “Je vais à Paris” ma “Je vais à la métropole”. Se la Francia è ancora la metropoli, le Antille sono la periferia? E ancora: il calendario scolastico locale è identico a quello francese, quindi inizio delle lezioni a settembre e termine delle stesse a giugno, quando settembre e ottobre sono non solo mesi caldissimi ma anche stagione di piogge torrenziali e cicloni. Perché non adottare un calendario più adatto al clima locale?

Passeggiando nel parco de La Savane a Fort de France (Martinica) non c’è solo la statua decapitata di Joséphine de Beauharnais a significare un rapporto tormentato con il passato, ma anche la targa che ricorda le vittime della rivolta del 1959. Nella capitale della Guadalupa, a Point-à-Pitre, un drammatico murale vicino alla darsena commemora le vittime (numero tuttora imprecisato) dell’insurrezione del giugno 1967. Sono varie le rivolte che hanno punteggiato il periodo post-1946, anno nel quale Martinica, Guadalupa, Guaiana e Réunion[8] acquistano lo status di dipartimenti francesi. Da notare che il Rapporto della Commissione Stora, istituita per indagare su queste rivolte ma anche sull’incidente aereo del 1962 in Guadalupa che costò la vita a più di cento persone è stato reso…nel novembre del 2016, pochi mesi fa![9] Il sigillo del segreto di Stato sulle conclusioni del Rapporto ufficiale sull’incidente aereo è stato levato nel 2012.




Non c’è soltanto la natura favolosamente bella a distogliere il pensiero da queste considerazioni inquietanti: c’è anche il Carnevale, che è vissuto nelle Antille come la migliore occasione per esprimere tutta la vitalità, la sensualità e l’amore per la danza e la musica di cui la popolazione è capace. Le gioiose parate di uomini e donne, maschere e tamburi, ti avvolgono in spire esaltanti e contagiose scoppiettanti di gioia di vivere. In Guadalupa per qualche giorno si è fermato tutto: chiusi molti negozi, non funzionavano gli autobus (il che è un problema per chi come me viaggia a piedi). Ma con l’autostop ho evitato il rischio di perdermi la parata: un gentilissimo proprietario di Toyota non solo mi ha accompagnato a Point-à-Pitre fino alla strada sbarrata per l’arrivo del corteo, ma mi ha dato appuntamento per riaccompagnarmi a casa dopo due ore. La mattina, un’infermiera mi aveva aiutato a trovare un negozio aperto egualmente accompagnandomi con la sua automobile. Mi chiedo se mi sarebbe capitato in Italia.

“E’ un corpo senza testa, la nostra storia, a somiglianza della statua di Joséphine I.O.F. (Imperatrice dei francesi e non, da notare, della Francia) che degli intrepidi in cerca di storia e che a buon diritto avevano del rancore verso la Storia hanno decapitato in uno di questi viali della Savane di Fort de France…” dice Edouard Glissant nella prima pagina di uno dei suoi romanzi[10]. E Martin Bernal, autore dell’Atene Nera che nel 1987 fece infuriare tanti grecisti ortodossi e fu accusato di essere “anti-europeo”, ribadisce: “Il mio nemico non è l’Europa, ma la purezza, l’idea che la purezza possa esistere o che, se mai esiste, è in qualche modo più creativa, dal punto di vista culturale, delle mescolanze. Credo che la cultura greca sia così affascinante proprio perché è fatta di mescolanze[11]”. 

Parafrasandolo, si può dire che la cultura e l’atmosfera delle Antille è così attraente e coinvolgente a causa del suo essere meticcia.

 






[1] Achille Mbembe. De la postcolonie. Essai sur l’imagination politique dans l’Afrique contemporaine. Karthala, 2000.

[2] Saint-John Perse (nato in Guadalupa) e Derek Walcott (nato a Santa Lucia). Ma anche Frantz Fanon, il grande psichiatra rivoluzionario che scrisse un libro epocale come “I dannati della terra” è nativo della Martinica, come il poeta e leader politico Aimé Césaire.

[3] Blancs créoles. Si veda : « Les derniers maîtres de la Martinique »


[4] Quando si dice «creola» si implica «di colore».

[5] Martin Bolzinger, réportage Les derniers Maîtres de la Martinique, diffuso da Canal+ il 6 febbraio 2009 (https://www.youtube.com/watch?v=4N0OS2f4xVg)

[6] https://www.youtube.com/watch?v=dk1rRaZWLvs

[7] Situata però nell’Oceano Indiano.

[8] http://la1ere.francetvinfo.fr/commission-stora-evenements-1959-martinique-1962-guadeloupe-guyane-1967-guadeloupe-remis-son-rapport-419137.html

[9] Edouard Glissant. Tout-Monde. Gallimard, 1993.


[10] Martin Bernal, ‘Black Athena’ Scholar, Dies at 76, Paul Vitello, New York Times (http://www.nytimes.com/2013/06/23/arts/martin-bernal-black-athena-scholar-dies-at-76.html)



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