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mercoledì 17 ottobre 2018

MARE E' MONTAGNA: MARSIGLIA E LANGUEDOC-ROUSSILLON


MARE E’ MONTAGNA: DALLA SARDEGNA AI PIRENEI CATALANI (3)

Marsiglia: vecchio porto e Notre Dame de la Garde sullo sfondo

L’impressione provata all’arrivo nel centro di Marsiglia è stata quella di essere stata catapultata nell’ombelico di un mondo caleidoscopico dalle mille sfaccettature e colori, un microcosmo multiculturale effervescente e traboccante di vitalità e versatilità, che tuttavia si manifesta sul fondale tutto francese di palazzi dalle alte finestre piombate, di piazze dall’architettura enfatico-imperiale e di boulevard alberati. Ci sono più cuori nel centro antico[1] di questa città, ma l’arteria in cui la vita pulsa più forte è la Canebière, che parte dal vecchio porto e sale verso la stazione ferroviaria, e il cuor dei cuori è il bacino del porto, ammaliante al crepuscolo con i suoi riflessi rossastri tra i gusci di barche e la visione lucente di Notre Dame de la Garde che si accende poco dopo, appollaiata sulla collina a 162 mt sul livello del mare proprio di fronte al Quai du Port che pullula di ristoranti affollati. 
Notre Dame de la Garde
In fondo al Quai du port, dopo il Forte St Jean (fortezza del 1600), troneggia la mole del MuCEM, il Museo delle civiltà d’Europa e del Mediterraneo, la cui progettazione[2] riesce magistralmente a sposare una sagoma dalla linearità degna di Le Corbusier a delle vestigia secolari. All’epoca della mia visita, oltre a una profusione di altre mostre e alle collezioni permanenti, c’era una esposizione che ho trovato bellissima e originale il cui leitmotiv era l’oro, con il suo pendant esecrabile (esecrata fame dell’oro di virgiliana memoria), attraverso le culture, i continenti e i millenni. 

Tra una folla di oggetti, abiti e monili splendenti, particolarmente coinvolgenti sono le storie umane dietro alcuni gioielli provenienti dal Monte dei Pegni di cui si sono rintracciati gli antichi proprietari, costretti a separarsene per sopravvivere, e che sono stati riscattati dagli organizzatori e loro restituiti.
Mi ha poi colpito la grande foto di un paesaggio irto di guglie e speroni di terra rossa inframmezzati da una vegetazione rigogliosa. Il lungo pannello illustrativo rivela che quel panorama non ha nulla di naturale e si scopre l’incredibile: la contestata tecnica del moderno hydraulic fracking, usata oggigiorno per recuperare lo shale gas e le sabbie bituminose ricche di petrolio, ha insospettati antecedenti e risale addirittura al 1° sec. d.C. Infatti fu ideata e sperimentata in Spagna dai tecnici e ingegneri dell’impero romano[3], salvo che invece di usare le moderne trivelle, gli esplosivi e le micidiali sostanze chimiche si impiegava la forza lavoro umana per aprire i percorsi di penetrazione dell’acqua nella roccia. 

Foto di Las Medulas al MuCEM
L’acqua del fiume Cabo era convogliata in un grande bacino a monte della zona aurifera da dove, tramite canali scavati da migliaia di braccia, si faceva irrompere l’acqua in gallerie praticate nella roccia che scoppiava cedendo alla pressione, dopo di che i filoni auriferi venivano allo scoperto e depredati[4].  Così la possente montagna è stata letteralmente demolita per sciacquarne via quasi cinque tonnellate d’oro durante i 250 anni di sfruttamento. Il paesaggio semilunare attuale che ne è conseguito è quello di Las Medulas, nella regione di Leon e Castiglia, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1997 (ben avida umanità!), ed è Plinio il Vecchio, procurator in Spagna nel 74 d.C., che descrive la tecnica di estrazione dell’oro dalle profondità della montagna coperta dalla foresta primaria e ne depreca le conseguenze distruttive e feroci sul paesaggio e sugli esseri umani:
“Ciò che si realizza è più di quanto potrebbero fare dei giganti. Si scavano corridoi e gallerie nelle montagne al lume di lampade che servono (anche) a scandire i turni di lavoro. Per mesi i lavoratori non escono a vedere la luce del sole e molti di loro muoiono nei tunnel. Questa tecnica è stata definita “ruina montium” (distruzione delle montagne). ues Le crepe inferte alle viscere della roccia sono così pericolose che sarebbe più facile cercare la porporina o le perle sul fondo del mare che ferire la pietra. Quanto abbiamo reso pericolosa la terra![5]” Oggi questa regione unica e spettacolare è visitata annualmente da migliaia di turisti[6].
Las Medulas oggi, foto dal sito :https://www.spain.info/en
 Nell’esposizione Ruralités scopro un altro tipo di miniere, le “miniere d’acqua”. Si tratta di antichi reticoli sotterranei drenanti, preziose fonti di rifornimento idrico per le oasi date le frequenti crisi di siccità, abbandonati e oggi riscoperti e accuratamente riabilitati, chiamati khettaras in Marocco, foggaras in Algeria e qanâts in Iran.
Calanchi di Marsiglia
Murale nel quartiere di Panier
Dal vecchio porto parto con un’escursione in barca per vedere i calanchi, mini-fiordi di calcare bianchissimo che si estendono per miglia nelle vicinanze, e ammirare il castello d’If, nella baia, in onore di Dumas e del suo eroe più famoso, il Conte di Montecristo. Il quartiere antico chiamato Panier è un’altra attrazione del centro storico, con i vicoli rallegrati da murales beffardi e il museo dedicato all’infanzia del Préau des Accoules, che trovo chiuso poiché è domenica. E’ aperto invece il museo della Vieille Charité, originariamente un ospizio seicentesco dove si rinchiudevano i mendicanti, i vagabondi, i devianti bollati come folli, in breve una discarica sociale creata dalla nascente borghesia cittadina, un’invenzione moderna descritta e denunciata da Michel Foucalt nel suo primo libro, la Storia della follia nell’età classica.
La prossima tappa è Montpellier, altra magnifica città, altro magnifico centro storico, ma altra cornice culturale: siamo nella Linguadoca e il centro antico è medievale, ben preservato e curato.
Montpellier, centro storico
Le targhe dei monumenti e le didascalie recano una doppia dicitura: francese e catalana. Infatti la denominazione geografica Linguadoca deriva da “langue d’oc”, uno dei primi volgari (dopo il latino) parlato in questa regione dove “oc” equivaleva al nostro “si”. Al centro e al nord prevaleva invece la “langue d’oil”, sempre definita a partire dalla sua particella affermativa. Tra i due volgari, quello del sud (oc) e quello del nord (oil), prevalse l’oil grazie al centro del potere politico che si stabilì dal 1200 in poi decisamente al centro-nord con la dinastia reale dei Plantageneti, legati all’Inghilterra. Ma ancora oggi la storia delle battaglie catalane per l’indipendenza testimonia della vitalità di una tradizione culturale e di una lingua (trasformata certo) fortemente caratterizzate e dalle profonde radici. Scopro grazie a una lapide commemorativa che i poeti e le poetesse che ancora compongono le loro opere in langue d’oc sono denominate rispettivamente félibres e félibresses: essi partecipano ai lavori del Félibrige[7] per salvaguardare e promuovere questa lingua, che non viene più parlata nemmeno come dialetto locale. La si può imparare a scuola se la si sceglie come materia opzionale, mi dice una studentessa incontrata vicino alla monumentale Facoltà di Medicina dell’Università, tra le più antiche al mondo.
Montpellier, facoltà di Medicina
Per proseguire da Montpellier, sperimentata l’inaffidabile puntualità dei treni ordinari francesi[8], mi affido a Eurolines e approdo puntualmente al capolinea di Perpignan, altra piacevolissima città del Roussillon, ricca di musei e palazzi storici, il più interessante dei quali è l’imponente Palazzo dei Re di Maiorca. 
Castellit a Perpignan

Notevole anche il Castellit, porta d’ingresso al centro storico pedonale, con un museo antropologico e di varia umanità, che si estende per molti piani, dove apprendo l’origine della parola “campana”: fu nell’anno ‘400 che per la prima volta delle campane (finora chiamate kaudanés dal greco) furono installate in un campanile della città campana di Nola, per cui da allora furono chiamate “nole” o…campane[9]. All’ultimo piano sono esposte delle statuette chiamate dagydes, strumenti di stregoneria nera usate per gettare la mala sorte[10]. Bellissima la mostra su Raoul Dufy al museo Hyacinthe-Rigaud.
Musica in strada a Perpignan
Infine arrivo alla tappa finale del viaggio, i Pirenei, di cui esploro parzialmente soltanto la sezione orientale grazie al famoso trenino giallo, meraviglia tecnologica del 1910 che si arrampica fino oltre 1550 mt di altitudine su solidi ponti d’ acciaio tra foreste, in servizio (estivo) ininterrotto da 118 anni. Sovrastando grandi distese di prati le montagne più alte si profilano all’orizzonte, ruscelli e fiumi scorrono in abbondanza, per cui le passeggiate sono sempre accompagnate dal borbottio dell’acqua che scorre da qualche parte. Il villaggio più densamente abitato è Villefranche de Conflent, capolinea inferiore del percorso del trenino giallo, sul quale incombe inastato su una rupe vellutata di verde la fortezza Liberia, capolavoro dell’architetto-ingegnere di fiducia di Luigi XIV, il marchese di Vauban[11], che ne fece costruire tutta una serie a difesa del territorio francese.
Trenino giallo dei Pirenei
Fort Liberia visto da Villefranche de Conflent

Il mio soggiorno in montagna coincide fortunosamente con lo svolgimento del tradizionale Festival internazionale di fotogiornalismo di Perpignan Visa pour l’Image[12], cui partecipano i giornalisti d’inchiesta più famosi del mondo, a ingresso gratuito. Antichi palazzi, conventi e chiese sconsacrate, aule di università, tutti gli spazi pubblici possibili sono utilizzati per le esposizioni tematiche sulle grandi crisi che attanagliano il mondo anche attraverso storie individuali emblematiche con foto di un’icasticità e pregnanza indescrivibili. Ci sono servizi sull’esodo dei Rohingya, sul lavoro e la vita dei minatori del Potosì (che già mi avevano sconvolto durante il mio viaggio in Bolivia[13]),
Minatori di Potosì
sulla lenta rinascita a una nuova vita di ex-guerriglieri e guerrigliere delle FARC in Colombia, e poi le distruzioni in Yemen, Irak, e Siria, un bellissimo lavoro su una prigione modello (Bomana) in Papua-New Guinea, la storia di un ragazzino afgano (Ghorban) partito a 12 anni da Kabul senza un soldo approdato a Parigi, ora cittadino francese, la morte di Bobby Sands e la Belfast del 1981, il disastro attuale urbano di Johannesburg, forse la serie di foto che più mi ha turbato: si vedono in azione le squadre delle cosiddette “Formiche Rosse”, poveracci addestrati e pagati dai proprietari immobiliari per buttare fuori gli squatter da case fatiscenti occupate, con una violenza tale che provoca anche morti. 

Formiche rosse in azione: il marito della donna è a terra morto

Terribile vedere come le Formiche Rosse, così chiamate per le loro uniformi fiammanti, festeggiano brindando fuori dagli immobili sgomberati, loro che sono i fratelli o i cugini e i vicini delle vittime ora homeless e si inorgogliscono del vile potere acquisito su di essi vendendosi l’anima.
Sull’Italia ci sono soltanto degli enormi pannelli e foto nel cortile del Couvent des Minimes, sormontati da una scritta che mi fa rabbrividire: Napoli, la terra dei tumori. Si documenta il calvario della terra dei fuochi con dati precisi e testimonianze: la riflessione sulla metamorfosi della Campania felix in una bomba a frammentazione a effetto ritardato mi riporta bruscamente e crudelmente in patria. Ma ancora un giorno risalgo a godermi il bel paesaggio dei Pirenei.

Paesaggio nei Pirenei orientali vicino alla Cabanasse
 

 


[1] Marsiglia fu una colonia greca e poi romana, e il suo grande porto la rese attraverso i millenni un crogiuolo di lingue e culture, ciò che è ancora oggi.
[2] L’architetto, Rudy Ricciotti, è francese nato ad Algeri.
[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Las_M%C3%A9dulas. La citazione da Plinio è tradotta dall’inglese.
[8] Non i TGV, trains grande vitesse, migliori delle nostre Frecce
[9] https://www.etimo.it/?term=campana
[10] https://lacoupedesfees.jimdo.com/les-bougies-en-magie/les-dagydes/
[11] https://fr.wikipedia.org/wiki/S%C3%A9bastien_Le_Prestre_de_Vauban
[12] https://www.visapourlimage.com/en
[13] Dopo aver visitato Potosì ho tradotto uno dei libri di uno scrittore nato nella regione che descrive in storie insieme fantastiche e truculente la realtà quotidiana dei minatori: Cuentos de la Mina, di Victor Montoya. (Racconti della miniera, reperibile in e-book su varie piattaforme, tra cui Kindle)

martedì 9 ottobre 2018

MARE E' MONTAGNA: LA CORSICA


MARE E’ MONTAGNA
DALLA SARDEGNA AI PIRENEI CATALANI (2)

Vista sulle Aiguilles de Bavella da Sari, Corsica centrale
 
Ventìseri! Questo toponimo mi è sembrato assai bizzarro di primo acchito e ha cominciato ad avere senso quando mi è stato spiegato che le due ultime sillabe stanno per “della sera”: quindi, luogo accarezzato dai venti della sera. Dico accarezzato perché la ventilazione era gentile e benvenuta, almeno in piena estate. Si tratta di un villaggio molto piccolo sul versante orientale della Corsica, a poco più di 500 mt d’altitudine e a 15 km dal mare di Solenzara, dal quale si può scorgere, se l’aria è limpida, l’isola di Montecristo galleggiare nel blu. Il calcolo esatto degli abitanti fissi oscilla a seconda degli interlocutori da un minimo di 59 a un massimo di 70/75 (qualche incertezza permaneva), cifra che può raggiungere il centinaio in estate tra turisti e qualche rientro dei transfughi urbanizzati. E’ stato il primo di una serie di villaggi abitati da poche decine di persone che ho incontrato tra la Corsica e il sud della Francia, nei Pirenei orientali, paesini di poche famiglie e numerosi vecchi, in paesaggi sontuosi immersi nel verde dei boschi e tra montagne a volte spettacolari, senza trasporti pubblici e pochi servizi (un’agenzia postale), senza sportelli bancari, senza farmacia, a volte (come a Ventiseri e a Fontpédrouse St Thomas nei Pirenei orientali) senza neppure un singolo negozio di alimentari[1].
Panorama da Ventiseri

Tuttavia a Ventiseri ho trascorso felicemente più di un mese grazie alla generosa amicizia dei vicini (e della mia anfitriona) che mi hanno colmato di attenzioni e scarrozzato tra mare e montagna (oltre a ATM e supermercati). Il villaggio è immerso nel maquis - un misto di boschi, rigogliosa macchia mediterranea, sentieri appena tracciati - dove puoi incontrare cinghiali, tori e mucche alla stato brado, una quantità di uccelli, farfalle e libellule, un insieme incantevole; il profumo di elicriso, cisto e lavanda che aleggia nell’aria è delizioso e marcatissimo, quel profumo che era un marchio di fabbrica della Sardegna di quarant’anni fa e che non vi avevo più ritrovato in seguito.

Libellula
“Mare è muntagna” è la sigla corsa di una piccola impresa locale di turismo che quasi ogni giorno faceva capo all’unico ristorante di Ventiseri, “U Tavolinu”[2] con la sua massiccia Toyota che dopo il pranzo passava davanti alla quercia sotto la cui ombra trascorrevo i pomeriggi leggendo e guardando la fuga di profili montani che in gradazione, dal più basso al più alto, chiudevano l’orizzonte verso sud-ovest come in un montaggio di sapienti quinte teatrali. Nella tranquillità più assoluta mi sembrava di tornare alle letture estive dell’adolescenza, quelle che ti segnano a vita, egualmente immerse in ambiente agreste, quell’atmosfera indimenticabile che Proust accoratamente rievoca in “Journées de lecture” con frasi indimenticabili. “Non ci sono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo più pienamente vissuto di quelli cha abbiamo creduto trascorrere senza viverli, quelli che abbiamo trascorso con un libro amato… (queste letture) lasciano soprattutto in noi l’immagine dei luoghi e dei giorni dove le abbiamo fatte.”[3]
Mi aveva sorpreso la cacofonia dei toponimi della costa, a parte Solenzara, contraddistinti da suffissi spregiativi o con connotazioni negative: Ghisonaccia, Migliacciaru, Casa Mozza, Mignataja... La ragione è semplice: erano tutte zone infestate dalle zanzare anòfele e quindi malariche, frequentate soltanto da pastori che in transumanza vi pascolavano le loro pecore e vacche in inverno. La mia guida precisa che a inizio ‘900 su 12.000 persone costrette in queste tristi contrade si registravano ben 8000 casi di malaria. Risanate a metà secolo, le fertili pianure orientali hanno valorizzato le loro belle spiagge e lagune, sviluppato la piccola industria di trasformazione e i servizi del terziario, aperto supermercati e centri commerciali, e fornite di servizi di trasporto verso sud e nord sono diventate attrattori demografici, spopolando le retrostanti montagne.
Un’altra particolarità di questa parte di Corsica è abbastanza nascosta ma degna di nota, e la scopro grazie alla segnalazione di una gentile e colta ex bibliotecaria che casualmente mi dà un passaggio di ritorno dal mare (e mi ospiterà alcuni giorni nella sua bellissima casa di pietra in mezzo al verde, tra mare e montagna, di fronte alle famose Aiguilles de Bavella). Mentre andiamo verso una spiaggia deserta vicino a Travo, mi indica una rete di recinzione che corre lungo la strada bianca che collega l’arteria asfaltata sud-nord al mare: è il penitenziario di Casabianda[4], 1765 ettari di pineta, boschi, prateria e frutteti, senza sbarre né torri di vedetta, con casette di pietra invece di blocchi di celle. I detenuti fanno i pastori, lavorano i campi, tagliano la legna nei boschi; escono il mattino e ritornano la sera, hanno il diritto di ricevere mogli e compagne varie volte all’anno. Le ore libere le passano come vogliono, in biblioteca, guardando film, passeggiando sulla spiaggia. Non ci sono stati tentativi di evasione che si ricordino, anche se le pene detentive sono lunghe. Peccato che sia l’unica prigione di questo tipo non solo in Francia, ma addirittura in Europa[5].
Una gita a Calvi, nella parte nord-occidentale dell'isola, rivela che Cristoforo Colombo, genovese per antonomasia, non nacque a Genova bensì in Corsica, che era appunto una "colonia" genovese. Un illustre immigrato.
Lascio Ventiseri con grande rimpianto per Bastia, dove l’amica preziosa che mi ha già accolto al villaggio mi ospita altri due giorni e mi permette di visitare la capitale corsa, che avevo già visto ma che non ricordavo. Due giorni pieni di scoperte per i pregi artistici, culturali e naturali della città, tra chiese spettacolari come l’Oratorio della Confraternita della Immacolata Concezione e la cattedrale o il vecchio porto, incastonato tra un’alta rupe dove troneggia la Cittadella, le alte facciate dei palazzi della banchina trasversale sullo sfondo e i ristoranti del Quai du 1° Battallion a sinistra, sovrastati dalla imponente facciata della chiesa di St Jean Baptiste cui si accede salendo una scenografica scalinata. La distesa d’acqua è fittamente popolata di pescherecci e piccoli yacht.

Dal porto si sale alla Cittadella passando dai pittoreschi giardini Romeu e da lì, per una ripida scala, al Palazzo dei Governatori (genovesi), una specie di piccola Bastiglia che alberga un bellissimo museo etnografico, che al momento della visita ospitava una documentatissima mostra sull’emigrazione corsa[6]: “Identità, les Corses et les migrations (XVII-XXI sec)”. L’ampio arco temporale permette di offrire un quadro esaustivo sui movimenti migratori, in uscita e in entrata, che hanno costruito la composita fisionomia culturale e storica dell’isola e dei suoi abitanti, a seconda delle circostanze e delle esigenze delle comunità: migrazioni in entrata, dai toscani ai sardi, dai magrebini ai portoghesi, ai cinesi, agli africani, e in uscita, dalla seconda metà del 1600 a metà ‘900, una vera emorragia. I corsi erano spesso militari e doganieri, numerosi anche nelle guerre coloniali o più recentemente funzionari nelle varie istituzioni della cosiddetta Françafrique, il neocolonialismo francese. Eloquenti i manifesti che incitano i giovani ad arruolarsi nell’esercito, a popolare le colonie, a combattere in Algeria, o le foto di povere contadine che partono verso l’ignoto. Tra il 1931 e il 1938, 6000 persone lasciano annualmente l’isola per le destinazioni più disparate: la popolazione totale isolana ammonta a poco più di 115.000 anime nel 1931 e diminuisce nel 1936 a 106.000.
Scendendo verso il centro dalla cittadella attraverso stradine e vicoli, sgrano gli occhi e scoppio a ridere di fronte a una targa stradale: Rue Vattelapesca! Ma che mattacchioni, mi dico. Ma da qualche parte poi scopro che Vattelapesca era il soprannome di un poeta locale, di cui non annoto il vero nome, per cui non posso documentarlo. Singolare pseudonimo letterario.
Da Bastia mi imbarco di buonora per Tolone, dove non riesco a trovare alloggio a prezzi accettabili (per me) per cui prendo il treno per Marsiglia, dove mi accoglie uno spartano ma centralissimo e multietnico Hotel de la Préfecture, finalmente a prezzi modici.



[1] Fenomeno ben noto di spopolamento rurale e montano che mi ha ancora una volta fatto riflettere sulla miopia del contrasto di stampo ormai criminale ai flussi migratori in Europa e in particolare in Italia.
[2] Del corso standard (ci sono numerose variazioni locali) mi ha colpito la frequenza della vocale “u”, che mi sembra plausibile, da incompetente in fatto di linguistica specifica, riferire all’influenza sarda. Tuttavia le frasi più semplici del corso sono assai più simili all’italiano che il sardo del Logudorese –incomprensibile a un non iniziato -  dato che per lunghi secoli fu Genova a signoreggiare nell’isola. I cognomi corsi sono di fatto cognomi italiani (Simeoni, Paoli, Rossi, Tiberi, Corvi...).
[3] Traduzione mia da citazione tratta da: www.ledevoir.com/societe/le-devoir-de-philo-histoire/498717/la-litterature-et-la-verite-selon-marcel-proust). La più recente traduzione che ho trovato è di Cesare Salmaggi per il Saggiatore, 2002, con il titolo (che non mi piace): Il piacere della lettura.
[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Centre_de_d%C3%A9tention_de_Casabianda
[5] https://www.lien-social.com/Casabianda-une-prison-Corse-unique-en-Europe
[6] https://www.corsenetinfos.corsica/Bastia-Les-Corses-et-les-migrations-nouvelle-tres-belle-exposition-au-musee-de-la-ville_a34134.html