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lunedì 23 settembre 2019

I GELSOMINI SONO APPASSITI IN TUNISIA


I GELSOMINI APPASSITI

Tunisia 2012/2019

 foto internet
Tra dicembre 2011 e gennaio 2012 feci una missione come consulente per una ONG italiana con l’incarico di elaborare una proposta di progetto in appoggio alla rinascente democrazia tunisina, sulla base di un bando della Commissione Europea volta al rafforzamento dei diritti di cittadinanza. L’ONG era (ed è) legata ad un sindacato confederale, quindi il mio interlocutore naturale era stata la UGTT, il sindacato tunisino che tra l’altro aveva partecipato assai attivamente alla rivoluzione contro il regime di Ben Ali, il dittatore apparentemente “illuminato” deceduto pochi giorni fa. Purtroppo i miei notevoli sforzi per collaborare concretamente con i dirigenti sindacali e mettere in piedi una proposta di progetto non erano stati coronati da successo, soprattutto perché i “capi” erano tutti concentrati sulle loro lotte di potere in vista dell’imminente Congresso, e la sezione femminile non aveva una decisiva voce in capitolo. Inoltre i contatti e le discussioni con le responsabili di associazioni femminili erano rimasta nel vago di promesse di impegni futuri da coordinare con iniziative sindacali, mai tradotte in nero su bianco Così dopo numerosi incontri, presenza a convegni e viaggi, ho dovuto riconoscere che la “proposition de projet” non avrebbe mai visto la luce. Ma l’esperienza era stata personalmente ricca e ne avevo tratto un articolo, pubblicato sulla rivista “Una Città” nel suo numero 191 del febbraio 2012, che riproduco appena ritoccato, poiché ne emergono quasi tutti i nodi che sono ancora da sciogliere oggi, a distanza di 8 anni e dopo le elezioni presidenziali ancora in sospeso. Non a caso la Tunisia è stato il paese che ha più nutrito le file dei jihadisti nella sciagurata guerra in Siria. La delusione e la frustrazione dei disoccupati di Sidi Bouzid erano già palesi nel dicembre del 2011, un anno dopo il gesto di disperazione dell’ambulante-martire Mohammed Bouazizi, che mai avrebbe pensato di passare alla storia.


 Tunisi, 14 gennaio 2011 (foto wikipedia)

Un altro aspetto delle conseguenze della rivoluzione tunisina mi preme mettere in luce. Nei mesi immediatamente successivi alla caduta del regime di Ben Ali centinaia di giovani harriaga[1]ubriachi di “libertà, libertà finalmente” sono saltati sulla prima barca disponibile per salpare verso l’Europa, quindi per la riva più vicina, l’Italia, dopo anni di prigione. E sono spariti nel nulla. Sbarcati? Annegati? Rinchiusi nei CIE? Dalle loro carte d’identità con tanto di impronte digitali sarebbe stato relativamente semplice rintracciarli, come hanno domandato per anni i loro genitori disperati, ma comitati, richieste ufficiali, viaggi dei parenti ed amici andata e ritorno Tunisia-Italia non hanno dato esito. Delle associazioni italiane (come “le venticinque undici” e “Pontes”) avevano seguito il loro caso e sostenuto la causa sacrosanta della loro ricerca; oggi su internet si trovano solo vecchi articoli su quei primi manipoli di tunisini entusiasti e ingenuamente fiduciosi scomparsi non si sa dove. Era stato girato un film su di loro da Matteo Calore e Stefano Collizzolli; è reperibile a questo indirizzo: http://i nostri anni migliori wordpress.com (Zalab distributrice, Roma).
Le condizioni di vita della maggioranza dei tunisini specialmente del centro e del sud del paese non sono affatto migliorate, né le prospettive dei giovani, e la fuga dal paese continua[2]. Per questo ritengo ancora attuale quello che scrissi allora.
Segue il testo dell’articolo del 2012.

CANTIERE TUNISIA (gennaio 2012)

Sit-in nella piazza della Kasbah, 28/01/2011 Foto wikipedia



“E’ tutto in movimento “: come un ritornello questa è la frase che torna più spesso sulle labbra delle persone che incontro. Si sta riunendo al Palazzo del Bardo per la prima volta l’Assemblea Costituente eletta ad ottobre, si sta formando il nuovo Governo, dopo lunghe trattative e tira e molla; vecchi organismi creati sotto Ben Ali stanno cercando di cambiare pelle e soprattutto funzionare in modo più trasparente. I tre partiti che fanno la parte del leone dei seggi all’Assemblea Costituente e dei posti da ministro (soltanto due donne elette, di cui una al Ministère de la Femme) sono Ennahda, di forte ispirazione islamica, il CPR (Conseil pour la République) et Ettakatol (Forum des libertés), di ispirazione laica e liberaleggianti. Fuori del Palazzo del Bardo ci sono delle tende: mi fermo a parlare con due operai del gruppo che sta protestando da vari giorni con quella che ormai sembra la modalità più diffusa in questo scorcio di anno 2011: accamparsi. Uno di loro, Ibrahim, parla un po’ di italiano, anzi parliamo in italiano poiché lui non parla bene francese e io non conosco l’arabo. Vengono dal bacino minerario di Gafsa, città del sud-ovest, dove ci sono ben quattro stabilimenti della Compagnia di fosfati di Gafsa (CPG) che sta ristrutturando e licenziando. Lui è stato in Italia, a Padova, ma era un “sans papiers”, senza documenti, ed è dovuto rientrare dopo due anni. 

Questa è solo una delle lotte che percorrono tutta la Tunisia: dopo un anno di grandi trasformazioni, di tante attese e speranze, moltissimi sono i giovani ancora disoccupati, la povertà è immutata e anzi la diminuzione delle entrate del turismo e il ritiro di molte imprese ed investimenti stranieri stanno causando una crisi economica di grandi proporzioni. Oltre alla lotta dei minatori di Gafsa ci sono scioperi al porto di Gabès, il più grande del sud, che provocano una penuria di bombole a gas in tutto il paese per qualche giorno, scioperi alla Tunis Air, proprio durante le feste di Natale, sit-in dappertutto.  Il 15 e il 16 dicembre protestano gli operai (2200 addetti) dello stabilimento giapponese Yazaki di Om Larayes, sempre a sud, e immediatamente per rappresaglia lo stabilimento viene chiuso. Il padronato denuncia perdite ingenti e impossibilità di soddisfare le commesse. Sulla stampa si leggono resoconti contraddittori: all’inizio di gennaio sembra che una parte delle maestranze saranno trasferite ad un altro impianto Yazaki a Gafsa.  Vado al Ministère de la Femme per incontrare la direttrice della Cooperazione Internazionale: impossibile vederla, sia il venerdì che il lunedì successivo. Domenica 19 dicembre esce un articolo su “La Presse” che denuncia una situazione di rivolta di tutto il personale del Ministère de la Femme contro la Ministra uscente: pare che parecchi dei progetti in corso siano stati chiusi d’autorità (oso sospettare con alcune buone ragioni), provocando la reazione delle titolari dei vari dossier in causa.

Sidi Bouzid, sciopero generale 16/01/2011 Foto AFP/Moktar Kahouli
E’ da notare che la quasi totalità degli scioperi sono selvaggi, non annunciati, e spesso non sono appoggiati, a quanto leggo, dalla centrale sindacale principale, l’UGTT (Union Générale du Travail de Tunisie), che tiene il suo 22° Congresso a Tabarka dal 25 al 28 dicembre. L’UGTT, dopo una prima fase di incertezza, ha partecipato alla rivoluzione, soprattutto con i suoi quadri alla base e per quanto riguarda certe Federazioni quali quelle della sanità e degli insegnanti, ma al vertice sembra che sia stata abbastanza compromessa con il vecchio regime. Ma naturalmente anche qui avviene ciò che succede in tutte le rivoluzioni: come dice una militante che è stata per anni in prima fila nell’opporsi al regime di Ben Ali: ora sembra che tutti abbiano fatto la rivoluzione, sono tutti rivoluzionari. 


 Il 17 dicembre  mi aggrego alla Caravane organizzata da una delle formazioni storiche di opposizione al vecchio regime, l’ATFD (Association Tunisienne des Femmes Démocrates) diretta a Sidi Bouzid, dove si celebra l’anniversario del tragico gesto di Mohammed Bouazizi,  il venditore ambulante che si è dato fuoco innescando la  rivoluzione del 14 gennaio  2011 (da notare che numerosissime associazioni che sono sbocciate nel 2011 si definiscono tutte: post 14, prendendo quella data come una linea di spartiacque decisivo). Purtroppo partiamo tardi ed arriviamo quando gli ospiti più illustri, tra cui il neo-eletto Presidente della Repubblica Marzouki e il rappresentante dell’Unione Europea se ne sono già andati, con il loro codazzo di giornalisti, addetti stampa, accompagnatori. Le strade sono molto affollate da giovani e bandiere, alcuni sono arrampicati sui palazzi, dappertutto campeggiano le immagini di Bouazizi, che è stato anche dichiarato “personaggio dell’anno” dalla rivista “Time”: un suo enorme ritratto copre l’intera parete di un palazzo. I ragazzi che organizzano il pranzo e ci servono un ottimo couscous hanno magliette nere con l’immagine di Bouazizi, ma l’atmosfera festosa  si guasta nel pomeriggio, quando il banchetto con il materiale informativo dell’ATFD installato in una strada principale, accanto ad un loro striscione, viene contestato da un gruppo di ragazzi tra cui alcuni barbuti (particolare fisico che distingue i fondamentalisti islamici), e dobbiamo raccattare su tutto in fretta e dirigerci al pullman, dove ci raggiunge una accorata signora che cerca di fare da paciere e di calmare gli animi. 
giovani tunisini protestano, Foto internet

Ma ciò che mi colpisce di più sono le testimonianze quasi gridate dei giovani che la sera, alla Maison de la Culture, denunciano la loro delusione e la loro rabbia. Dopo tanti sacrifici, dopo le lotte pagate con la morte di tanti loro compagni, nulla è cambiato nelle loro vite, non sentono aprirsi nuove prospettive, sono come prima poveri e disoccupati: uno di loro racconta ancora di come è stato picchiato dalla polizia. La frustrazione si taglia col coltello. Poi si fa musica e si balla, ma l’amarezza e il pericolo di nuove esplosioni di rabbia sono palesi. Le statistiche dicono che nel Governorato di Sidi Bouzid il 48% dei “diplomés” sono disoccupati. Nelle zone rurali, le donne che lavorano nei campi sono pagate 5 dinari al giorno dai caporali, la metà degli uomini, e a volte partoriscono “sotto un albero, e tornano subito a lavorare”, mi dice Mme Souhad Mahmoud, una intellettuale e attivista sia dell’UGTT che dell’ATFD.

Il Governo appena installato a fine dicembre promette l’assunzione di 25.000 persone nella funzione pubblica, le organizzazioni internazionali hanno lanciato bandi per la presentazione di proposte di progetti di cooperazione, un’iniziativa di grosso respiro finanziata dalla U.E. è appena stata varata con l’apporto tecnico dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Ci sono almeno due progetti di cui ho notizia, già approvati, centrati sui “diritti”, tra cui anche i diritti socio-economici, di cui si fa un gran parlare.  Ma occorre far presto: il 6 gennaio un operaio in sciopero da settimane a Gafsa e accampato insieme a molti altri davanti alla sede del Governorato si è dato fuoco ed è ricoverato in gravissime condizioni. La Tunisia di tutte le opportunità, in piena effervescenza post-rivoluzionaria, si può trasformare in una polveriera. 
 Polizia all'Università La Manouba, gennaio 2012.Foto Les Observateurs,/France 24

Un altro aspetto di cui si parla molto è la presenza crescente, nella vita pubblica e per le strade, ma soprattutto prepotente, dei cosiddetti “salafiti”: un manipolo di loro ha occupato l’ufficio del rettore alla Manouba, che dista circa 20 km dal centro di Tunisi, per varie settimane, finché è stato fatto sgomberare all’inizio di gennaio. La richiesta di una sala di preghiera era stata la scusa per la protesta iniziata a fine novembre, poi si voleva imporre il permesso (per tre studentesse!) di indossare il velo nero integrale, il “niqab”, durante gli esami, cosa proibita per legge. Mi è sembrata preoccupante l’assenza prolungata di un’azione più decisa delle forze dell’ordine e la tolleranza verso gli intolleranti. Ma da dove spuntano questi barbuti, queste donne con i loro mantelli neri, peraltro quasi tutti giovanissimi?
Una giurista, Mme Salsabil Klibi, mi spiega: è vero che il Codice dello statuto personale vigente in Tunisia sin dal 1956 è molto avanzato ed è vero che le donne, sia con Bourghiba che con Ben Ali, godevano di molti diritti negati in altri paesi arabi. Ma i diritti erano “octroyés”, concessi: ora, i diritti elargiti si possono anche ritirare, non sono qualcosa di conquistato e di garantito come un tassello che fa parte della vita delle persone. E sotto la dittatura non ci si poteva esprimere: quindi questa apparente fioritura istantanea di islamisti non viene dal nulla, covava sotto la cenere. E certamente ci sono le influenze wahabite che vengono dal Golfo, ormai da più di dieci anni. “Da come vedi orientate le padelle delle antenne satellitari puoi capire chi ascolta la predicazione via TV che viene da est”.
Infine, un dossier aperto che ci interroga come italiani in modo angoscioso è quello dei migranti dispersi di cui non si ha più notizia da mesi. Un articolo tra i numerosi che ho visto, apparso su “La Presse” del 20 dicembre, menzionava la cifra di quasi 15.000 tunisini partiti, e di migliaia di persone che sono sparite nel nulla. Si sa soltanto che dodici sono morti tra le fiamme dei CIE incendiati per protesta, e circa un migliaio sono ritornati, spontaneamente o rimpatriati a forza. Le Associazioni dei genitori e congiunti chiedono insistentemente che il nostro Ministero degli Interni, finalmente libero da Maroni e soci, se ne occupi seriamente. Ne parlava “l’Unità” di sabato 7 gennaio, menzionando però solo la cifra di “duecento” migranti sbarcati a Lampedusa di cui si sono perse le tracce. Eppure le carte d’identità tunisine comportano la presa delle impronte digitali, che all’arrivo a Lampedusa venivano egualmente richieste. Non dovrebbe quindi essere così difficile, se esiste la volontà politica, rintracciare chi a Lampedusa è arrivato sano e salvo e sapere cosa è successo dopo. Possiamo almeno riscattare parzialmente la disumanità mostrata nei mesi passati, quando poche decine di migliaia di profughi ci chiedevano aiuto e non abbiamo saputo e voluto rispondere, mentre le centinaia di migliaia (900.000!!) di rifugiati via terra provenienti dalla Libia hanno trovato accoglienza nel sud della Tunisia, anche nelle case dei singoli cittadini, che non nuotano certo nell’oro. E’ anche questo un modo di appoggiare la Tunisia della rivoluzione: non lasciamo appassire i gelsomini!

9/01/2012


[1] Harriaga sono "coloro che bruciano le frontiere": si designano così i migranti maghrebini. Ecco un articolo di giornale di allora: https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2012/02/01/news/immigrati_quelle_4_barce_di_tunisini_di_cui_da_un_anno_non_si_sa_pi_nulla-29170830/
[2] https://www.lenius.it/perche-tanti-tunisini-fuggono-dalla-tunisia/

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